IL “PARTITO DELLE PRIMARIE” E LA POLITICA DEL LAVORO

LA NORMA STATUTARIA CHE PREVEDE LE ELEZIONI PRIMARIE PER LA SCELTA DEL LEADER DEL PARTITO INCIDE PROFONDAMENTE ANCHE SUI CONTENUTI PROGRAMMATICI

Intervento svolto nel corso della manifestazione promossa da Walter Veltroni al Centro Congressi Capranica, il 2 luglio 2009 (Scarica il video dell’intervento)

            C’è un nesso tra la politica del lavoro di cui il Paese ha bisogno e la forma del partito che quella politica sa elaborare e perseguire. Un “partito degli iscritti” conosce e rappresenta gli interessi di chi è organizzato. Un partito che fa scegliere il proprio leader dagli elettori è costretto ad aprirsi anche agli interessi di chi non è organizzato, ad andare oltre il dialoco con le associazioni, i sindacati, le “formazioni intermedie”. La politica del lavoro costituisce un buon punto di osservazione per comprendere la differenza fra le due scelte di metodo.

            Il “partito delle primarie” è un partito il cui leader sa scoprire gli interessi dei lavoratori che non hanno rappresentanze organizzate, di coloro cui nessuno dà voce. In Italia sono moltissimi.
            Nessuno, per esempio, dà voce agli interessi di quei cinque milioni di italiani – per quattro quinti italiane – che sono fuori dal mercato del lavoro, ma avrebbero un’occupazione regolare se le cose funzionassero da noi come funzionano in un Paese simile al nostro per numero di abitanti e per ricchezza: il Regno Unito. Il nostro tasso di occupazione è sotto, rispetto a quello britannico, di dieci punti percentuali: cinque milioni di italiani, appunto, di cui quattro milioni sono donne, che potrebbero avere un lavoro professionale ma non lo hanno. Il loro interesse non è rappresentato da alcuna organizzazione, da alcun apparato, né sindacale né politico. Solo un leader politico scelto dalla generalità degli elettori, probabilmente, presterà attenzione ai loro interessi.
            Stesso discorso per un milione e mezzo di lavoratori cosiddetti autonomi, ma in realtà in posizione di dipendenza economica dall’azienda per cui lavorano: collaboratori continuativi, lavoratori a progetto, partite iva fasulle. E per un altro milione e mezzo di lavoratori con contratto a termine. Di questi tre milioni di italiani, in questi mesi di crisi economica, ne abbiamo visti quattrocentomila perdere il lavoro senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennizzo; ma anche senza uno sciopero di protesta, senza una manifestazione di piazza: solo qualche lacrima versata sulle statistiche. Nessun “apparato” si è mobilitato per loro. Che cosa ha fatto per loro la vecchia sinistra negli ultimi vent’anni? Quale misura di politica del lavoro ha perseguito e con quali risultati? Qual è il messaggio che essa ha saputo comunicare loro? La vecchia sinistra ha saputo soltanto ripetere fino alla noia “questo non si tocca”, “quest’altro non si tocca”. I giovani le rispondono: “certo, non lo tocchiamo, il vostro diritto del lavoro; ma nel senso che neppure lo vediamo: non ci riguarda proprio, perché la probabilità di poterne beneficiare per noi sono minime”.
            Un’altra cosa la vecchia sinistra ha detto a questi giovani; e questa era una bugia: quella secondo cui la causa del precariato sarebbe la legge Biagi. Non era vero: il fenomeno ha radici molto più lontane nel tempo, radici affondate nel nostro vecchio diritto del lavoro. E, come tutte le bugie, anche questa aveva le gambe corte: è bastato che quella sinistra andasse al governo e avesse la possibilità di abrogare la legge Biagi, perché risultasse con tutta evidenza che in quella legge non c’era neppure una norma che allargasse le maglie dei rapporti di lavoro marginali: anzi, proprio il Governo Prodi, quando ha voluto dare un giro di vite contro l’abuso delle collaborazioni autonome simulate ha applicato con rigore proprio la normativa posta dalla legge Biagi. Poi ci stupiamo che, delusi (direi di più: ingannati) da una sinistra che ha clamorosamente sbagliato il bersaglio nella sua “lotta al precariato”, i giovani votino in maggioranza a destra. La legge Biagi non ha certo risolto il problema del dualismo del nostro mercato del lavoro; ma sostenere che essa ne è una causa è una sciocchezza, frutto di faziosità, che non ha fatto fare un solo passo avanti alla condizione dei lavoratori “di serie B” e “di serie C”. Il leader del “partito delle primarie” non aspetta che qualche apparato si faccia carico di organizzare e rappresentare gli interessi di questi milioni di italiani; e sa che deve parlare loro credibilmente di un nuovo diritto del lavoro, suscettibile davvero di applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro e non soltanto – come il vecchio – a metà di essi.
            Un discorso analogo vale per quel milione di lavoratori autonomi veri, liberi professionisti genuini, ma privi di ordine, albo e cassa di previdenza, quindi iscritti alla Gestione speciale dell’Inps. Poiché nessuno dà loro voce, finora hanno potuto essere dimenticati da tutti i vecchi partiti. Salvo ricordarsi di loro quando si è trattato di porre a loro carico un contributo previdenziale che serve a finanziare più le pensioni degli altri che la loro, e che essendo calcolato sul fatturato invece che sull’utile assume talvolta un peso del tutto irragionevole.
            Ma il leader del “partito delle primarie” deve anche saper parlare con la parte dei lavoratori riconosciuti e “garantiti”; con quelli che hanno, sì, un rapporto a tempo indeterminato, ma hanno anche le retribuzioni più basse rispetto a tutti i maggiori Paesi europei. Il “partito delle primarie” deve saper indicare al Paese la via per “ingaggiare” il meglio dell’imprenditoria mondiale; spalancare le porte agli investimenti stranieri che ci portano domanda di lavoro aggiuntiva e – soprattutto – innovazione tecnologica e organizzativa: i due fattori più potenti di incremento dei redditi dei lavoratori. L’Italia è il fanalino di coda in Europa per capacità di intercettare i flussi di capitali nel mercato finanziario globale; e lo è non soltanto per la povertà delle nostre infrastrutture, il malfunzionamento delle amministrazioni pubbliche, il nostro difetto endemico di cultura delle regole; lo è anche perché sono tanti gli insiders nostrani che non gradiscono affatto l’ingresso della buona imprenditoria straniera. Il caso Alitalia insegna; come insegnano i casi Abn Amro, Abertis, Telecom, Ferrovie, e tanti altri. Il centro-destra ha fatto della “difesa dell’italianità” delle nostre aziende la sua parola d’ordine; ma anche la vecchia sinistra ha molte e gravi responsabilità su questo terreno. La parola d’ordine del PD, declinata in tutte le forme possibili, deve essere quella esattamente contraria: “allineare il nostro con i Paesi europei più capaci di attirare investimenti stranieri”, “portare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale” per favorire l’ammodernamento e il rafforzamento del nostro tessuto industriale, per aumentare la domanda di lavoro, perché il lavoro in Italia sia meglio valorizzato e meglio retribuito, per garantire le risorse necessarie al sostegno dei più deboli.
            Per questo occorrono – certo – una amministrazione migliore e migliori servizi alle imprese; ma occorrono soprattutto un sistema di relazioni industriali orientato alla “scommessa sull’innovazione” e un diritto del lavoro capace di coniugare il massimo di flessibilità e modificabilità delle strutture con il massimo di sicurezza dei dipendenti. Questo consentirà anche di assicurare alla nuova generazione che si affaccia sul mercato del lavoro il superamento di quel regime di apartheid tra protetti e precari, che oggi la espone a un forte rischio di segregazione nella parte cattiva del sistema. Su questo terreno il centro-destra è totalmente immobile. Anche qui è il PD che può incominciare a dettare l’agenda, se è capace di porsi in comunicazione diretta con la parte più viva e vitale della società civile, di non attardarsi nell’attesa della maturazione culturale di tutto il movimento sindacale.
            Il partito delle primarie, infine, è quello che sa dare voce e corpo a un interesse diffuso ma, fino a oggi, troppo debole al confronto con tanti interessi organizzati: l’interesse all’efficienza nelle amministrazioni pubbliche. Su questo terreno le idee-forza sono trasparenza totale, valutazione, civic auditing. Occorre promuovere e guidare una grande e capillare mobilitazione dei cittadini per la visibilità degli indici di efficienza e produttività di tutti i comparti di ciascuna amministrazione, per la confrontabilità di quegli indici sul piano nazionale e internazionale, per la possibilità concreta di esigere dai dirigenti dei comparti meno efficienti il loro riallineamento alla media, sotto pena di rimozione dall’incarico, per l’eliminazione degli sprechi. Qui occorre una scelta drastica: il PD deve diventare, in modo chiaro e netto, non soltanto il partito di tutti cittadini – e soprattutto dei più deboli ‑ contro le vessazioni che essi subiscono per effetto delle inefficienze delle amministrazioni, ma anche il partito della parte migliore dei dirigenti e dipendenti pubblici, mobilitato contro l’inerzia e l’appiattimento dei trattamenti.
            Le risorse che possono essere liberate dal taglio delle spese inutili nel settore pubblico sono enormi; e il metodo della valutazione e della trasparenza, se applicato con rigore, consente di individuare sprechi e inefficienze con precisione. Questo può e deve costituire l’impegno quotidiano, rigoroso, martellante di un partito che vuole guidare il Paese a voltar pagina rispetto a decenni di degrado delle strutture pubbliche. Si obietterà che questo è anche il programma enunciato dal ministro Brunetta; ora, è vero che Brunetta ha intuito l’importanza di questo tema (che noi assai prima di lui abbiamo posto all’ordine del giorno), ma è anche vero che troppo spesso Brunetta si è limitato alla politica dell’annuncio; sta di fatto, comunque, che oggi il suo stesso Governo lo sta fortemente frenando. Sull’accessibilità dei dati, l’indipendenza degli organi di valutazione, la tecnica del benchmarking comparativo e l’attivazione concreta della lotta agli sprechi, tutto è ancora da fare. Siamo stati noi a dettare l’agenda, su questo terreno, in questo inizio di legislatura; dobbiamo saperne fare, con grande determinazione, un elemento essenziale della nostra strategia di lungo periodo.

Ho cercato di dirvi i motivi per cui ‑ dal mio punto di osservazione, quello della politica del lavoro – considero essenziale la scelta di metodo che due anni fa ha caratterizzato la nascita del nostro partito, ma che ha ancora bisogno di essere confermata e consolidata; e deve, soprattutto, arrivare a permeare di sé il nostro modo di pensare e di agire politico. Detto questo, però, credo anche che questa scelta non sia patrimonio esclusivo di alcuna delle forze in campo in questo nostro congresso. Se vogliamo che il PD esca dal congresso rafforzato e pronto a offrire al Paese l’alternativa necessaria al centro-destra, occorre un grande rispetto reciproco tra i candidati-leader e tra i loro sostenitori; e occorrono forme di confronto politico che non pregiudichino, il giorno dopo la conclusione della vicenda congressuale, una salda unità tra tutte le componenti del partito. Perché senza questa, neppure le più raffinate scelte di metodo, neppure le migliori strategie e i migliori programmi possono consentirci di vincere la nostra battaglia.

 

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