UN ECONOMISTA DI SINISTRA SPIEGA PERCHÉ L’IDEA DI BEPPE GRILLO E DI MATTEO SALVINI DI ABBANDONARE L’UNIONE MONETARIA EUROPEA PER TORNARE ALLA LIRA DETERMINEREBBE UN DISASTRO ECONOMICO, FINANZIARIO, SOCIALE E POLITICO SENZA PRECEDENTI NELLA STORIA DEL NOSTRO PAESE
Articolo di Giorgio Lunghini, professore di economia politica presso lo IUSS-Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, pubblicato sul Manifesto il 23 settembre 2016
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Vi è oggi un consenso unanime circa l’inadeguatezza dell’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria (UEM), e soprattutto vi è una unanime e severa e fondata critica del suo armamentario di politica economica (per una rassegna delle diverse posizioni si può vedere il mio commento («L’euro: un destino segnato?»), Critica Marxista, marzo-giugno 2015). Differenti sono invece le valutazioni circa le conseguenze economiche e sociali di una eventuale uscita unilaterale dell’Italia dalla Uem – che taluni addirittura invocano. Questa a me pare questione di grande importanza, e qui riprendo le stime e la conclusione di Carluccio Bianchi (che faccio mie e che si possono trovare per esteso cercando su Google “lincei 2015 bianchi storia breve dopoguerra”).
Nelle condizioni date, il primo effetto sarebbe la svalutazione della nuova moneta nazionale. La perdita di competitività nei confronti della Germania è ora del 30%, e questa sarebbe la soglia minima; tuttavia i movimenti valutari potrebbero determinare una svalutazione del 50-60%. La conseguenza immediata sull’inflazione sarebbe di circa il 15%, e si innescherebbe una rincorsa salari-prezzi-cambio: con un tasso di inflazione nell’ordine del 20% l’anno e con una perdita salariale insopportabile.
Con una svalutazione del 50% salirebbe nella stessa misura il valore del debito pubblico in mano a investitori stranieri (più del 35% del totale), con fughe di capitali e default dello Stato italiano, incapace di fare fronte alle richieste di rimborso. Il valore reale del debito interno in cinque anni sarebbe dimezzato: con una perdita per le famiglie che possiedono titoli di 110 miliardi di euro, pari all’11% del loro reddito disponibile. Per le banche e le istituzioni finanziarie, che possiedono circa la metà del debito, le conseguenze sui bilanci sarebbero tragiche, soprattutto per quelle che hanno passività in valuta. Oltre alla necessità di ricapitalizzazione da parte dello Stato, sarebbe necessario impedire la corsa agli sportelli dei depositanti.
Sarebbero inoltre necessarie misure di limitazione alla detenzione di valuta estera e di prelievo sui depositi bancari (come in Argentina con il corralito), nonché di controllo sui movimenti di capitale. I tassi di interesse salirebbero alle stelle, sia per la maggiore inflazione, sia per la crisi valutaria e bancaria, sia per il default statale. Aumenterebbero i debiti delle imprese espressi in valuta estera e si verificherebbero una crisi di liquidità e una restrizione del credito delle banche.
Le imprese esportatrici farebbero affari, ma quelle che producono per il mercato interno subirebbero gli effetti della contrazione di consumi e investimenti e della crisi bancaria; e non è detto che della svalutazione le esportazioni si avvantaggerebbero di molto: di fronte a svalutazioni competitive, i paesi rimasti all’interno della Uem potrebbero adottare una politica doganale comune di innalzamento delle barriere.
In presenza di una svalutazione iniziale del 50%, e di una conseguente inflazione media annua del 20%, sarebbero gravissime le conseguenze sui salari reali. Il potere d’acquisto delle retribuzioni potrebbe essere garantito soltanto con un adeguamento completo delle retribuzioni ai prezzi; ma la perdita media annua di reddito sarebbe del 10%, che si aggiungerebbe a quella sulla ricchezza mobiliare determinata dagli effetti della inflazione sui titoli di stato; e con una inflazione così elevata aumenterebbero ulteriormente le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza tra lavoratori dipendenti e autonomi e tra creditori e debitori. Come conseguenza di tutto ciò, la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40% nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un triennio.
Costi enormi, che genererebbero disordini civili e rivolte popolari, e la storia dell’Europa insegna che da crisi di questa portata si esce a destra. In breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l”Hotel California” nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire.
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