PARLIAMO DI REDDITO DI CITTADINANZA PERCHÉ NON CREDIAMO NEL FUTURO DEL LAVORO

LO LODANO A SINISTRA, MA FORSE È DI DESTRA; LO STUDIANO GLI STATI, MA LO ATTUANO LE AZIENDE DELLA SILICON VALLEY; PERCHÉ, INVECE DI UN MERCATO SENZA LAVORO, CI CONVIENE PIANIFICARE UNA RIVOLUZIONE DEL WELFARE

Articolo e pubblicato su Linkiesta.it, 7 settembre 2016

 

La velocità con cui i commentatori si stanno fiondando sul carro del “reddito di cittadinanza” ci conferma che la fame di soluzioni semplici a problemi complessi è, oggi, ai massimi storici. Non ci pare un buon segno. A un dibattito di qualità gioverebbero due azioni preliminari. Primo: un bel glossario. Che aiuti a capire, ad esempio, che “reddito di cittadinanza” è il contrario di “reddito minimo”. Quest’ultimo è il caposaldo dei sistemi di welfare europei da decenni, spetta solo a chi è sotto una certa soglia di povertà e, soprattutto, è assegnato solo a chi è disoccupato e dimostra la disponibilità a tornare al lavoro.

Luccisano

Francesco Luccisano

Il reddito di cittadinanza è invece una somma data a tutti i cittadini indipendentemente dal reddito e, soprattutto, dalla loro intenzione di lavorare: con il reddito di cittadinanza il lavoro non è più il perno su cui si fonda l’appartenenza alla comunità. È questa, forse, la prima verità non dichiarata sul reddito di cittadinanza. Può piacere o meno, ma è bene dirlo chiaramente, specie nella “repubblica fondata sul lavoro”. Ci torneremo tra poco.

La seconda azione che gioverebbe è uno studio dei casi reali. Vedere chi sta adottando il reddito di cittadinanza, dove ha funzionato e dove ha fallito, capire chi ne sostiene l’attuazione e chi vi si oppone sono tutti passaggi che ci toccano fare per avere un’idea chiara. Ci accorgeremmo che di reddito di cittadinanza si parla molto ma se ne fa poco. C’è chi, potendo attuarlo, sceglie di non farlo: è la Svizzera, che ha da poco bocciato con un referendum l’introduzione di un assegno di circa 30.000 Euro l’anno. C’è chi ne fa solo una sperimentazione su scala intermedia, come Finlandia e Ontario. In Italia sta rischiando di diventare una bandiera politica prima che se ne colgano le reali implicazioni.

Lo hanno promesso alcuni sindaci di Sinistra – De Magistris in primis. Lo hanno sventolato come un vessillo i Cinque Stelle, con una proposta di legge dettagliata in Parlamento. Salvo scontrarsi, tutti quanti, con costi esorbitanti che mettono di fronte alla seconda grande verità non dichiarata sul reddito di cittadinanza: rebus sic stantibus, per finanziarne l’attuazione su grande scala bisogna smantellare il welfare state. È per questo che gli svizzeri hanno optato per il NO. Ed è per questo che, con buona pace di molti commentatori nazionali, il reddito di cittadinanza è diventato, in alcuni casi, anche una bandiera della destra: perché diminuirebbe la burocrazia dei sistemi di welfare (gli ISEE, i centri per l’impiego…),e l’intrusione dello stato nelle scelte individuali.

Ed ecco che arriva la notizia vera: la sperimentazione più ambiziosa e più concreta di reddito di cittadinanza non la sta facendo uno Stato, una regione o un comune, ma un acceleratore di startup. Anzi, uno dei più importanti del mondo: Y-Combinator, fondo di investimento che negli ultimi 10 anni ha lanciato startup per quasi 65 miliardi di dollari di capitalizzazione. Ma che negli ultimi due anni ha deciso di attuare una svolta epocale: si occuperà di ricerca pura – come in genere fanno gli stati o gli enti pubblici. E la sua prima ricerca sarà proprio una sperimentazione sul reddito di cittadinanza.

La macchina è già partita. Il primo esperimento-pilota di sei mesi si tiene a Oakland, in California. Un gruppo adeguatamente selezionato di cittadini – occupati e disoccupati, ricchi e poveri – riceverà ogni mese 2000 dollari. Lo scopo? “vogliamo esplorare alternative alle safety net esistenti” dice Elizabeth Rhodes, direttrice della ricerca. “Con la tecnologia che elimina posti di lavoro e il lavoro che è sempre meno sicuro, sempre più persone faranno fatica a far quadrare i conti tramite il loro lavoro”. Vedremo come la sperimentazione si svilupperà. C’è da scommettere che, da esperimento scientifico, la spinta sul reddito di cittadinanza si evolverà in azione di lobby, per lo meno in California. Ciò su cui vale la pena di riflettere, comunque andrà, è che sia proprio il mondo delle imprese tecnologiche della Silicon Valley a spingere per la diffusione del reddito di cittadinanza.

Perché lo fanno? Di certo i signori del tech sono consapevoli dell’impatto sul mercato del lavoro e sulla società di due fenomeni che alla Silicon Valley si riconducono direttamente: l’intelligenza artificiale e i nuovi monopoli digitali (o monopoli algoritmici), fenomeni che stanno spiazzano milioni di posti di lavoro in America e fuori. E con il positivismo tecnologico che li contraddistingue, vogliono semplicemente trovare il modo di mitigare le ricadute sociali di questi fenomeni evitando di creare freni allo sviluppo della loro industria.

Ma dietro l’entusiasmo per il reddito di cittadinanza da parte delle imprese tecnologiche c’è un errore di fondo: l’accettazione frettolosa di una “fine del lavoro” catartica e liberatoria. In California, insomma, si comincia a credere che possa esistere un mercato senza lavoro. Che possa funzionare un capitalismo in cui porzioni sempre più vaste della popolazione non partecipano più alla produzione di valore tramite il loro lavoro. Lo fanno, al massimo, come consumatori attivi, che acquistano servizi e producono, in cambio, grandi masse di dati da cui le grandi aziende del web estraggono valore.

È, né più né meno, il ribaltamento della visione di Henry Ford, per cui era essenziale che l’operaio della catena di montaggio potesse, con i proventi del suo lavoro, permettersi i beni che aveva prodotto. Ed ecco che sotto la superficie del dibattito vediamo il grande cambiamento in atto: quello per cui il lavoro perde la centralità nella creazione di valore che ha avuto per qualche secolo. Almeno dalla rivoluzione industriale in avanti.

Perché non è vero che il lavoro finirà. Ha ragione Moretti a dire che il digitale sta, comunque, creando nuovi posti di lavoro. Ma ne sta creando, spesso, di peggiori, con i robot che sostituiscono le mansioni di concetto, lasciando agli umani quelli più duri e a minor valore aggiunto. Pensate al recente sciopero di Deliveroo, o ad Amazon, dove sono gli algoritmi a consigliarvi quali libri comprare, mentre sono gli uomini a consegnarveli come fattorini. Tanto che qualcuno ha teorizzato che invece di una “jobless society” – società senza lavoro – stiamo andando verso una “crappy job society”, una società dei lavoracci.

Ciò che sta succedendo, è che il lavoro vale sempre di meno, e il valore si crea altrove: dalle rendite finanziarie, dagli algoritmi, dallo sfruttamento di grandissime masse di dati. È già successo in passato: ci sono state le epoche in cui il valore si è creato dalle rendite fondiarie, dall’appartenenza a classi e corporazioni, dalla guerra, dallo sfruttamento di fatica ritenuta “non umana”, come quella degli schiavi. Sono state, in genere, epoche di alte diseguaglianze, di basso reddito medio e di scarsissima mobilità sociale. Sintomi analoghi a quelli che stiamo vedendo oggi.

In questo senso abbandonare il lavoro e abbracciare acriticamente il reddito di cittadinanza significa buttare via il bambino con l’acqua sporca. Significa consegnare a pochissimi le chiavi della creazione del valore e lasciarsi alle spalle il più efficiente strumento di mobilità sociale che l’umanità ha avuto a disposizione. Occorre invece pensare a come cambia il lavoro, e trovare il modo di restituirgli valore. Per farlo, l’intero set di policy che hanno caratterizzato il welfare state va rifondato. E il pensiero in questa direzione è solo iniziato.

Servono politiche di redistribuzione del valore. Come l’epoca agricola ha avuto la riforma agraria e l’epoca industriale ha avuto le grandi lotte per i diritti degli operai, così la società dell’informazione deve ancora trovare il modo di garantire un maggior share del valore ai partecipanti alle “platform economies” (Uber, freelancer.com, ecc…) e distribuire più equamente i proventi della produzione di dati sul web.

Servono politiche fiscali capaci di riequilibrare il gap di competitività tra lavoratori e macchine, tra il lavoro dell’uomo, tassato al 30/40% in occidente, e ancor di più in Italia, soffre rispetto al lavoro delle macchine: non tassiamo i robot, come suggeriva una recente mozione al Parlamento Europeo, ma detassiamo il lavoro.

Servono politiche dell’istruzione che sappiano “riempire di nuovo il lavoro di valore”, consentendo alle generazioni future non di “far bene un lavoro” ma di saperne inventare continuamente di nuovi. Far parlare scuola e lavoro è solo il primo passo di una apertura delle istituzioni educative al mondo.

Servono “gap filling policies”, che colmino i buchi di una vita lavorativa che non è più fatta di un periodo di formazione, una carriera in crescita lineare, e un periodo di inattività (la pensione), ma da un susseguirsi molto più intricato di fasi differenti, di alti e bassi e di pieni e vuoti. E in questo susseguirsi i cittadini non avranno bisogno tanto dello strumento della pensione – il più rigido in assoluto – ma di “assicurazioni flessibili” a cui poter accedere in ogni fase della vita per formarsi, ricollocarsi, pagarsi un sabbatico, permettersi un affitto, coprire i contributi pensionistici in momenti di disoccupazione (come ad esempio già fa il Regno Unito). In quest’ottica, al welfare state non è più richiesto di disegnare la traiettoria lavorativa di tutti i cittadini all’interno di schemi definiti, ma di accompagnare le scelte e le difficoltà dei cittadini in un mondo che cambia.

Serve, insomma, capacità di comprendere la complessità. Di rifuggire le soluzioni semplici e di evitare di abbracciare le panacee del momento senza sapere cosa ci si lascia, davvero, alle spalle. Di affrontare con coraggio il cambiamento dei nostri sistemi di welfare, sapendo che il cambiamento può avvenire molto rapidamente, e non necessariamente sarà un progresso.

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