L’INTENDIMENTO ETICO-POLITICO È PIENAMENTE CONDIVISIBILE; ESSO DOVREBBE PERÒ ESSERE PERSEGUITO CON UNA TECNICA DI DEFINIZIONE DEL REATO PIÙ PRECISA
Messaggio pervenuto il 27 luglio 2016 – Segue la mia risposta.
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Gentile Senatore, […] La stampa ci informa che domani si avvia in Senato l’esame del disegno di legge n. 2217 sul contrasto al lavoro nero e al caporalato. A me sembra la solita legge-manifesto, che non caverà un ragno dal buco. Com’è che lei non ne ha parlato sul suo sito? Mi interesserebbe conoscere la sua opinione in merito. […]. La ringrazio se potrà rispondermi.
Carlo Maria Esposito
Riconosco la lacuna, dovuta al fatto che il disegno di legge è stato discusso in sede referente dalla Commissione Agricoltura e non dalla Lavoro, cui appartengo. E ringrazio C.M.E. della sollecitazione a colmare questa lacuna.
Di questa iniziativa legislativa condivido profondamente il motivo, cioè l’imperativo di contrastare con ogni mezzo efficace il fenomeno, tipico dei settori agricolo ed edile, dell’utilizzazione del lavoro bracciantile o di manovalanza – per lo più (ma non soltanto) immigrata dall’Africa – a condizioni retributive, igieniche e di sicurezza gravemente inferiori agli standard inderogabili vigenti nel nostro Paese. Non condivido, dunque, il giudizio liquidatorio espresso sul progetto di legge da C.M.E. Ho, tuttavia, qualche perplessità riguardo alla tecnica legislativa con cui questo intendimento legislativo viene perseguito.
L’articolo 1 del testo trasmesso dalla Commissione Agricoltura all’Aula del Senato aggiunge nel codice penale un articolo 603-bis, con cui si istituisce il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1000 euro per ciascun lavoratore coinvolto. Il comportamento vietato è definito come quello di chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizione di sfruttamento, approfittando del [suo] stato di bisogno”, oppure “utilizza, assume o impiega manodopera” nella stessa condizione. Se la definizione fosse tutta qui, essa peccherebbe evidentemente di genericità eccessiva per una disposizione penale; a meno che si voglia – ma non è certamente questo l’intendimento degli estensori del testo legislativo – estendere il reato al punto da ricomprendervi qualsiasi violazione degli standard inderogabili stabiliti dal nostro diritto del lavoro. Infatti il terzo comma dell’articolo indica alcuni contenut ulteriori del comportamento illecito, destinati a rendere la definizione un po’ più stringente: “reiterata corresponsione di retribuzione inferiore agli standard collettivi”, “reiterata violazione dei limiti di orario di lavoro giornaliero o settimanale”, “violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro”, “sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o condizioni alloggiative degradanti”. Senonché questi elementi definitori della nozione di sfruttamento sono indicati nella norma non come tratti essenziali, cioè necessari – cumulativamente o alternativamente tra loro – affinché si configuri il reato, bensì come “indici”, cioè come elementi descrittivi, la cui presenza nel caso concreto può contribuire al configurarsi del reato, ma non è indispensabile. In termini più tecnici: il legislatore qui rinuncia a definire la fattispecie-reato enunciandone con precisione il concetto e affidando al giudice il compito di “sussumere” secondo il metodo sillogistico la fattispecie concreta nella nozione astratta; e sceglie invece di affidare al giudice una valutazione tipologica, fondata – cioè – sulla presenza in misura sufficiente nel caso concreto di alcuni almeno degli indici, ovvero degli elementi descrittivi del reato, nessuno dei quali ha carattere di essenzialità.
Questa tecnica definitoria della fattispecie lascia evidentemente al giudice un’ampia discrezionalità nella valutazione circa il peso da attribuire, caso per caso, alla presenza o assenza di uno o più degli indici previsti dal legislatore come “tipici” della fattispecie; con la conseguente incertezza circa i confini della fattispecie stessa, che appare poco compatibile con i principi generali del diritto penale. Mi parrebbe più corretto sul piano costituzionale, e anche più efficace rispetto agli obiettivi che il legislatore si propone, che si tornasse al metodo definitorio sillogistico: per esempio attribuendo valore essenziale alla sussistenza del primo elemento individuato nel comma 3 dell’articolo 1 (la retribuzione notevolmente inferiore agli standard minimi applicabili), combinato con almeno una delle altre tre violazioni degli standard: in materia di orario, di sicurezza o di metodi di sorveglianza.
Eviterei, invece, il riferimento allo “stato di bisogno” del lavoratore coinvolto: è questo un elemento cui non può attribuirsi alcuna valenza definitoria apprezzabile, dal momento che quasi tutti i lavoratori hanno “bisogno” di lavorare per vivere. Non è dunque il concetto di “stato di bisogno” che può individuare quella particolare condizione di povertà di informazione, formazione e capacità di muoversi nel mercato, che caratterizza le persone più a rischio di rimanere impigliate nelle reti del caporalato vecchio e nuovo. (p.i.)
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