DODICI DOMANDE E RISPOSTE SUL REGIME DEI LICENZIAMENTI NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

I TRE ARGOMENTI ADDOTTI DALLA TITOLARE DELLA FUNZIONE PUBBLICA CONTRO IL SUPERAMENTO DELL’ANCIEN RÉGIME, E LE RAGIONI CHE LI CONFUTANO – LA NECESSITÀ DI COMMINARE IL SOLO INDENNIZZO NEI CASI IN CUI LA VALUTAZIONE DEL GIUDICE SI COLLOCA NELL’AREA DELLA OPINABILE GRAVITÀ DEL MOTIVO DI LICENZIAMENTO

Risposta collettiva ai numerosissimi messaggi ricevuti in questi giorni sul contenuto e la portata pratica della sentenza della Corte di Cassazione 9 giugno 2016 n. 11868 e sul dibattito giuridico e politico che ne è seguito – In argomento v. anche FAQ sull’applicabilità del contratto a tutele crescenti nelle amministrazioni pubbliche del 29 dicembre 2014 – Per la giurisprudenza precedente sullo stesso tema e i relativi commenti v. la prima sezione del Portale della trasparenza e della valutazione nelle ammninistrazioni pubbliche

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1) Che cosa ha detto quest’ultima sentenza della Corte di Cassazione?

Mario Monti ed Elsa Fornero in Senato, 2012

Mario Monti ed Elsa Fornero in Senato, 2012

Ha stabilito che “Ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs 30 marzo 2001 n.165, art.2 [cioè i rapporti di impiego pubblico –  n.d.r.], non si applicano le modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012 n. 92 [c.d. legge Fornero – n.d.r.] all’art.18 della legge 20 maggio 1970 n.300 [lo Statuto dei lavoratori – n.d.r.], per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n. 92 del 2012 resta quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma”. La Corte, però, è pervenuta a questa conclusione constatando che la stessa legge Fornero, pur prevedendo la propria futura applicabilità anche nel settore pubblico (articolo 1, comma 7), stabilisce che a questo fine venga emanata una disciplina di armonizzazione (comma 8). E questa non è mai stata emanata.

2) Pochi mesi fa, però, una sentenza di merito e un’altra sentenza della Corte di Cassazione avevano affermato l’applicabilità della legge Fornero nel settore pubblico, nonostante l’assenza della normativa di armonizzazione prevista dal comma 8 dell’articolo 1.
Sì: questo hanno affermato il Tribunale di Rimini nella sentenza 7 gennaio 2016 e la Cassazione con la sentenza 26 novembre 2015 n. 24157. Si sta verificando dunque un contrasto di giurisprudenza all’interno stesso della Sezione Lavoro della Corte, che potrebbe portare nel prossimo futuro a una sentenza risolutiva delle Sezioni Unite. Resta il fatto, però, che se la normativa di armonizzazione venisse emanata, come previsto dalla legge, verrebbe meno la ragion d’essere del contrasto e la legge Fornero si applicherebbe pacificamente a tutti i dipendenti pubblici.

3) Lo stesso discorso vale per la riforma dei licenziamenti del 2015, recata dal Jobs Act?
No, perché il decreto legislativo n. 23/2015, che la detta, non contiene alcuna norma del tipo di quella contenuta nella legge Fornero n. 92/2012 (vedremo tra breve perché è certo che non si sia trattato affatto di una dimenticanza). D’altra parte, l’articolo 2, comma 2 del Testo Unico per l’impiego pubblico (d.lgs 30 marzo 2001 n.165 già citato) stabilisce che in questo settore, dove non ci siano norme speciali che lo escludano, si applica la disciplina generale applicabile ai rapporti di lavoro tra privati. Dunque il regime dettato dalla riforma del 2015 deve ritenersi applicabile nel settore pubblico: su questo sito sono disponibili gli scritti di due esperti della materia, Luigi Olivieri e Francesco Verbaro, che si sono pronunciati in questo senso nei mesi scorsi. La nuova disciplina dei licenziamenti, però, si applica soltanto ai rapporti di lavoro costituiti dal 7 marzo 2015 in poi. E poiché nel settore pubblico le assunzioni sono da tempo bloccate quasi del tutto, il problema per ora non si è posto.

4) Torniamo ai commi 7 e 8 dell’articolo 1 della legge Fornero del 2012. Perché la disciplina di armonizzazione prevista dal comma 8 non è stata emanata?

Filippo Patroni Griffi

Filippo Patroni Griffi, 2012

Il ministro della Funzione pubblica in carica quando la legge Fornero entrò in vigore, Filippo Patroni Griffi, che è stato poi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega per la stessa materia nel Governo Letta succeduto al Governo Monti, non ha mai nascosto la propria contrarietà alla parificazione della disciplina del licenziamento dei dipendenti pubblici rispetto alla nuova disciplina emanata per i rapporti di lavoro nelle aziende private. Questa opinione è stata poi condivisa dalla ministra Marianna Madia, che lo ha sostituito nel febbraio 2014.

5) Ma se  la legge Fornero del 2012 impegna il Governo a provvedere in modo che la nuova disciplina del settore pubblico venga parificata a quella del settore privato, come è possibile che un ministro disattenda ciò che è espressamente previsto da una legge dello Stato?
Non dovrebbe accadere, ma di fatto accade abbastanza frequentemente. Ciò non significa, però, che il Governo come tale condivida questa posizione. Al contrario, il Governo Renzi ha mostrato almeno una volta inequivocabilmente di pensarla in modo opposto. Come  ho precisamente documentato a suo tempo e non è mai stato smentito, nel dicembre 2014 lo staff della Presidenza del Consiglio e quello del ministero del Lavoro avevano predisposto lo schema del decreto che sarebbe poi diventato il decreto legislativo n. 23 del 2015, quello contenente la nuova disciplina dei licenziamenti, inserendovi, al comma 3 dell’articolo 1, una disposizione che recitava testualmente così:  La disciplina di cui al presente decreto legislativo non si applica ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″. Se quella disposizione è sparita è perché il Presidente del Consiglio ha deciso di sopprimerla nel testo che è stato portato in Consiglio dei Ministri, e approvato, la mattina del  24 dicembre. Dunque l’assenza di norma speciale, o che escluda l’applicazione della disciplina generale, è stata voluta.

6) L’anno scorso è stata emanata la legge-delega che porta il nome della stessa titolare della Funzione pubblica, che prevede una riforma del settore. Che cosa dice sul tema dei licenziamenti, tornato in discussione a seguito dell’ultima sentenza della Cassazione?
La legge-delega n. 124/2015 non dice nulla su questo tema. Stante tutto quello che si è detto sopra, questo silenzio non può che essere letto come conferma della scelta compiuta dal Governo il 24 dicembre 2014: cioè quella di non differenziare la disciplina del settore pubblico rispetto a quella generale. Quella legge contiene invece diverse deleghe che consentono di intervenire sul terreno della governance interna alle amministrazioni, per assicurare ai dipendenti la necessaria trasparenza e imparzialità delle decisioni di merito in materia di licenziamento: è su questo terreno che ora è necessario operare con urgenza.

Il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia

Il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia

7) Ora, però, la titolare del dicastero della Funzione Pubblica adduce tre ragioni per evitare l’applicazione della nuova disciplina dei licenziamenti nel settore pubblico. La prima ragione è che i dipendenti pubblici diventano tali a seguito di un concorso, il che conferirebbe loro il diritto a una maggiore stabilità.
Non è così. Il sistema di assunzione mediante concorso è perfettamente compatibile sia con un regime di marcata stabilità, sia con un regime di protezione della continuità del rapporto meno rigido, sia persino con forme di vera e propria precarietà. Prova ne sia che:
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un posto di lavoro a termine;
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un lavoro a tempo indeterminato la cui fase iniziale, anche particolarmente lunga, sia in prova: con possibilità, dunque di facile licenziamento;
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un rapporto di lavoro suscettibile di scioglimento per soppressione del posto, o per riduzione degli organici (questo è previsto, per esempio, nell’artivolo 33 del nostro Testo unico per l’impiego pubblico);
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un rapporto di lavoro dirigenziale suscettibile di scioglimento per mancato raggiungimento degli obiettivi (questo è previsto, per esempio, nell’articolo 21 del nostro Testo unico per l’impiego pubblico).
E in ciascuno di questi casi il legislatore gode di una amplissima discrezionalità nel determinare la sanzione che colpisce il licenziamento irregolare o addirittura illegittimo.
Del resto, prima del 1970 l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non esisteva, né per il settore privato, né per il settore pubblico. Eppure gli impiegati pubblici venivano già da decenni assunti per concorso.

8) La seconda ragione addotta dalla ministra della Funzione pubblica è questa: senza articolo 18 ci sarebbe il rischio che l’indipendenza e l’imparzialità dell’impiegato pubblico nell’esercizio della sua funzione vengano limitate indebitamente dal potere politico.
Veramente, l’impiegato pubblico non opera in posizione di indipendenza, bensì in posizione di subordinazione rispetto ai suoi superiori gerarchici. L’impiegato pubblico, certo, come i suoi superiori, è tenuto all’imparzialità nello svolgimento della propria funzione e l’ordinamento deve creare le condizioni perché questa imparzialità sia effettiva (lo richiama anche l’ultima sentenza della Cassazione, n. 11868/2016); ma non esiste un vincolo costituzionale circa il modo in cui il legislatore può assicurare questa imparzialità. In particolare, nulla vieta che l’imparzialità, e più in generale la correttezza, nell’esercizio della facoltà di un’amministrazione di licenziare un proprio dipendente vengano perseguite mediante regole di controllo interno all’amministrazione stessa invece che – o insieme a – regole di controllo esterno, giurisdizionale. Né esistono vincoli costituzionali circa l’apparato sanzionatorio che assiste le suddette regole. In ogni caso è tutto da dimostrare che l’imparzialità e correttezza nello svolgimento da parte dell’impiegato pubblico della sua funzione siano garantite meglio dalla sua inamovibilità che da un regime di minore protezione della stabilità e/o di più intenso controllo sullo svolgimento della prestazione, di natura gerarchica o di altro genere.

9) Quale potrebbe essere una regola di governance interna alle amm  inistrazioni che garantisca trasparenza, imparzialità e rispetto della peculiarità della funzione pubblica nell’esercizio della facoltà di licenziamento?
Basterebbe trasferire nel nostro sistema, con i necessari adattamenti, le regole che si applicano negli enti pubblici anglosassoni: per esempio, attribuire la decisione del licenziamento a una commissione di dirigenti di cui non faccia parte il responsabile della struttura che chiede provvedimento; se vogliamo essere ancor più garantisti, possiamo spingerci a prevedere anche una commissione di seconda istanza a cui il dipendente possa ricorrere per il riesame del suo caso. Ma, una volta confermato il licenziamento, se vogliamo tutelare davvero prioritariamente l’interesse pubblico, non possiamo porre l’amministrazione, di fronte al giudice ordinario, in una posizione drasticamente più debole nei confronti del dipendente, rispetto a quella dell’impresa privata. Altrimenti, i propositi di recupero di efficienza del settore pubblico rischiano di apparire promesse al vento.

10) La terza ragione addotta dalla titolare del dicastero della Funzione pubblica è che, nel caso in cui il Jobs Act si applicasse anche nel settore pubblico, dalla possibile condanna di una amministrazione al pagamento dell’indennità di licenziamento deriverebbe un costo a carico dei contribuenti.
A  questo argomento è facile replicare, innanzitutto, che l’apparato sanzionatorio previsto dall’articolo 18 St. lav., per il caso in cui il giudice vada di diverso avviso rispetto all’amministrazione circa la sussistenza e la gravita del motivo del licenziamento, è molto più gravoso per l’Erario di quanto non lo sia il nuovo apparato sanzionatorio previsto dal decreto legislativo n. 23/2015: se dunque la preoccupazione fosse davvero quella di natura finanziaria, essa dovrebbe portare semmai a preferire il nuovo regime (se la preoccupazione fosse davvero quella, occorrerebbe semmai prevedere indennizzi più bassi a carico delle amministrazioni pubbliche rispetto alle aziende private, non certo più alti, come li prevede il vecchio articolo 18). Ma, soprattutto, il vecchio regime di sostanziale inamovibilità dei dipendenti, che nel settore pubblico è fortemente intensificato dal vecchio articolo 18, determina dei costi gravissimi di inefficienza delle amministrazioni, che potrebbero essere ridotti con una maggiore mobilità del personale. Per esempio, sarebbe molto più facile ottenere lo spostamento di un dipendente da una amministrazione dove non serve a un’altra dove c’è carenza di organici, se si potesse ragionevolmente prospettare la cessazione del rapporto in caso di rifiuto del trasferimento; ma finché un giudice può sovrapporre la propria valutazione circa l’opportunità del trasferimento a quella dell’amministrazione, e c’è un articolo 18 che ricollega al parere negativo del giudice la reintegrazione nel posto accompagnata da una pioggia d’oro per il dipendente reintegrato, la resistenza al trasferimento sarà sempre fortissima e di fatto vincente. Come è oggi.

11) La Corte costituzionale, però, ha affermato che c’è una peculiarità del rapporto di impiego pubblico, dalla quale non si può prescindere nella determinazione della disciplina applicabile.
Per la risposta a questo argomento rinvio a domanda e risposta corrispondenti nelle FAQ sull’applicabilità del contratto a tutele crescenti nelle amministrazioni pubbliche del dicembre 2014.

12) Un argomento che viene addotto sovente a sostegno del mantenimento dell’articolo 18 nella sua versione originaria (cioè senza le modifiche recate dalla legge Fornero) nel settore pubblico è che in questo settore vige un principio di tipicità e legittimità degli atti, per cui non può essere riconosciuto alcun effetto a un atto di licenziamento che sia stato ritenuto dal giudice illegittimo.
Il punto è proprio questo: con la legge Fornero e con il Jobs Act, in sostanza, il legislatore ha inteso distinguere il caso di vera e propria illegittimità del licenziamento (per esempio il caso di discriminazione vietata, o di licenziamento della lavoratrice madre), per il quale è stata conservata la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, dal caso in cui, invece, si è verificata soltanto una valutazione diversa del giudice rispetto a quella del datore di lavoro, circa la gravità del motivo addotto a sostegno del licenziamento. In quest’ultima area, caratterizzata da una amplissima opinabilità della valutazione, si è voluto che l’eventuale divergenza dell’opinione del giudice da quella del datore di lavoro possa portare soltanto a un indennizzo. In questo modo è, in ultima istanza, proprio il costo dell’indennizzo a costituire una sorta di “filtro automatico” delle scelte datoriali.  Le ragioni di questa scelta valgono per il settore pubblico anche più di quanto valgano in riferimento al settore privato: se infatti è meritevole di tutela l’interesse dell’imprenditore all’insindacabilità in sede giudiziale delle proprie scelte gestionali, finalizzate al suo profitto privato, ancor più lo è l’interesse di una amministrazione che opera prioritariamente nell’interesse pubblico, e nella quale oltretutto è possibile affidare obbligatoriamente la valutazione del motivo, per assicurarne la trasparenza e l’imparzialità, a uno o anche due organi collegiali interni.

 

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