UNA QUESTIONE GIURIDICA MOLTO COMPLESSA E DELICATA, DESTINATA A ESSERE SEMPRE PIÙ ATTUALE PER EFFETTO DEL MULTICULTURALISMO CONSEGUENTE ALLA MAGGIORE MOBILITÀ GEOGRAFICA DELLE PERSONE E DELLE IMPRESE
Paragrafo 284 del mio trattato su Il contratto di lavoro, vol. II (nella collana Trattato di diritto civile e commerciale, diretta da F. Cicu e F. Messineo, poi da L. Mengoni e oggi da P. Schlesinger), Milano, Giuffré, 2003 – Propongo ai frequentatori del sito questo brano del mio libro di tredici anni or sono, a seguito della notizia della controversia all’esame della Corte di Giustizia Europea concernente la facoltà del datore di lavoro di impedire alle dipendenti musulmane di indossare il velo, nella quale l’avvocato generale Juliane Kokott ha concluso nel senso della legittimità del divieto aziendale .
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284. Doveri del prestatore attinenti alla cura della persona e all’abbigliamento. — La diligenza nello svolgimento della prestazione di lavoro, quando questa comporti il contatto con il pubblico, può implicare la necessità di una cura particolare, da parte del lavoratore, del proprio aspetto fisico e pertanto della pulizia personale, della pettinatura dei capelli, della rasatura della barba, dell’appropriatezza dell’abbigliamento; oppure può implicare, per radicata consuetudine oltre che per esigenze funzionali, la necessità che il lavoratore indossi (e mantenga in perfetto ordine) una particolare divisa, come nel caso dei vigili urbani, o in quello delle hostess e degli stewards di una compagnia di volo (40). Necessità particolari inerenti all’abbigliamento possono derivare anche da esigenze tecniche e/o di sicurezza, come nel caso del cuoco, del medico o infermiere, dell’operaio o del tecnico esposto a pericoli per i quali sono prescritte determinate protezioni individuali (41). Anche al di fuori di questi casi, nei quali viene in rilievo la regola della diligenza tecnica specificamente relativa alla mansione svolta, il lavoratore deve considerarsi comunque soggetto all’obbligo di mantenere una ragionevole decenza nel proprio aspetto fisico e nel proprio abbigliamento, poiché fa parte della diligenza generica, «del buon padre di famiglia», anche il non rendersi sgradevole o repulsivo al prossimo; egli è altresì tenuto a evitare le stravaganze eccessive, cioè incompatibili con un ordinato e sereno svolgimento dell’attività aziendale (42).
Quando la natura della mansione richiede un abbigliamento particolare, sovente la materia è disciplinata da una clausola collettiva, che dispone anche circa l’accollo al datore di lavoro dei costi della relativa fornitura e manutenzione, o il compenso dovuto al prestatore che debba occuparsene a proprie spese. Quando il contratto nulla dica espressamente in proposito, la valutazione del comportamento del prestatore sotto questo punto di vista è compiuta dal giudice secondo criteri di ragionevolezza, anche in considerazione degli usi locali; e quando debba ritenersi che la prestazione richieda un abbigliamento particolare di uso non abituale, sarà il giudice a stabilire il maggior compenso dovuto al lavoratore ex art. 36 Cost. per tale aspetto della qualità della prestazione (§ 240).
Accade talora che il datore di lavoro chieda al prestatore il rispetto di disposizioni circa l’abbigliamento o l’aspetto personale che non costituiscono una mera specificazione della regola della diligenza, generica o specifica, ma introducono nel contratto un vincolo ulteriore, tendente al miglioramento dell’immagine aziendale: si pensi al caso di un esercizio commerciale nel quale si richieda agli addetti alla vendita al pubblico di indossare una determinata uniforme aziendale, oppure al ristorante esotico nel quale si richieda ai camerieri di indossare abiti tipici del paese di cui si vuole riprodurre l’ambiente oltre che la gastronomia, oppure ancora, più semplicemente, all’istituto di credito che chieda a tutti i propri impiegati di portare sempre giacca e cravatta (cosa che un tempo era normale in questo settore, ora non più) e alle impiegate di mantenere uno standard particolare di eleganza. L’imposizione unilaterale di tale vincolo ulteriore non mi sembra ammissibile; ma la pattuizione in proposito tra datore e prestatore — che può anche essere tacita, consistendo nell’accettazione da parte del lavoratore per fatti concludenti della prassi aziendale —, così come la pattuizione collettiva, anche intervenuta in costanza di rapporto, è sicuramente valida, poiché nulla vieta che il contratto contenga specificazioni circa le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa in funzione di esigenze aziendali ragionevoli ancorché non universali, tra le quali può senz’altro annoverarsi anche quella di darsi di fronte al pubblico un’immagine particolare (43). Questo vale, a mio avviso, anche per la pattuizione dell’obbligo di portare abiti (moderatamente) sexy per le cameriere di un night club: quando la particolarità dell’abito non sconfini nell’indecenza, minigonne e camicie attillate non possono considerarsi di per sé lesive della dignità della persona che lavori in un locale notturno di questo genere particolare; la ragazza che non vuole rinunciare a vestire in modo più castigato fa meglio a cercare lavoro altrove.
Un problema di più difficile soluzione — sul quale si è sviluppato oltre Atlantico un vivace dibattito anche sul piano giuslavoristico (44) — sorge invece quando la disposizione circa l’aspetto della persona o il suo abbigliamento non risponde ad alcuna esigenza aziendale oggettiva, bensì soltanto a una preferenza generica: si pensi al caso del datore che intenda vietare ai propri impiegati non addetti a rapporti con il pubblico di tenere i capelli lunghi o di portare orecchini, o imporre alle impiegate di portare la gonna, oppure imporre o vietare loro di portare la minigonna, o vietare agli uni e agli altri di praticare il piercing sul volto o di esibire tatuaggi. Pur essendo la questione ampiamente discutibile, a me sembra che una siffatta disposizione — quando non sia legata a esigenze estetiche condivise dalla grande maggioranza delle persone, né a motivi tecnico-produttivi o commerciali, ma sia dettata da preferenze esclusivamente personali del datore di lavoro — non soltanto non possa essere imposta unilateralmente in corso di rapporto (45), ma non possa neppure essere validamente pattuita tra le parti, poiché essa interferisce senza idonea giustificazione sulla libertà personale del lavoratore di autodeterminazione della propria immagine, in violazione dell’art. 41 Cost. (sovente, oltretutto, essa configura una discriminazione di genere — § 166 —: si pensi al caso del divieto per le donne di portare i pantaloni o alla richiesta rivolta loro di essere sessualmente attraenti) (46). Qualora invece si ritenga che il limite posto dall’art. 41 Cost. all’iniziativa economica privata per la tutela della libertà della persona non impedisca una siffatta pattuizione (salvo il divieto di discriminazioni), dovrebbe ritenersi che la qualità particolare aggiuntiva della prestazione, oggetto della pattuizione, debba essere adeguatamente remunerata, in ossequio al principio di proporzionalità posto dall’art. 36 (§ 240) (47).
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Note
(40) Cfr. P. Roma 3 dicembre 1998, RGL, 1999, II, p. 619, con nota di L. Valente, Capelli corti e acconciature classiche: quando la sanzione disciplinare è legittimamente connessa alla violazione delle direttive in materia di aspetto estetico.
(41) Cfr., in chiave restrittiva circa questo obbligo «tecnico», Cass. 9 aprile 1993 n. 4307, RGL, 1994, II, p 223, con nota di A. Bellavista, Abbigliamento del dipendente e poteri del datore di lavoro. V. inoltre ultimamente A. Milano 9 aprile 2002 (RIDL, 2002, II, p. 658, con nota di G. Pera, Il lavoratore deve radersi ogni giorno?), dove, confermandosi una sentenza del Tribunale di Monza, si è ritenuto che non rientri nella diligenza dovuta dall’addetto al servizio di confezione e vendita al pubblico di prodotti di gastronomia di un supermercato l’obbligo della rasatura quotidiana della barba. In senso opposto può citarsi la sentenza del tribunale del lavoro di Southampton Watson c. Waitrose, 1o marzo 2001 (ne ignoro il luogo di pubblicazione), che ha ritenuto legittima l’imposizione della rasatura quotidiana della barba a un cameriere addetto a coffee shop, sul presupposto che l’assenza di peluria sul volto garantisca meglio l’igiene del cibo servito agli avventori.
(42) È stato ritenuto scorretto, e pertanto perseguibile sul piano disciplinare, il comportamento dell’impiegato di banca che si era presentato al lavoro vestito da sceriffo del far west, con tanto di cappellone e stella sul bavero (T. Latina 19 settembre 1989, RIDL, 1990, II, p. 248, con nota di V.A. Poso, L’elaborazione giurisprudenziale recente in tema di insubordinazione), così come quello di un altro impiegato bancario che si era presentato al lavoro in canottiera (Cass. 21 dicembre 1991 n. 13829, GC, 1992, I, p. 3083, con nota di A. Pizzoferrato). Nello stesso senso, nella giurisprudenza francese, Cons. Prud’hommes Rouen 30 agosto 2001, DO, 2001, p. 394, in riferimento a un impiegato che si era presentato al lavoro in bermuda (nella motivazione il collegio osserva che «la società francese riserva certi abbigliamenti alle donne, anche se il numero dei vestiti ‘‘unisex’’ tende ad aumentare. La situazione non è dunque identica fra i sessi in materia di abbigliamento») e, in riferimento a un caso pressoché identico, A. Rouen 13 novembre 2001, DO, 2002, p. 412, con nota di P. Moussy; nella giurisprudenza britannica la nota sentenza Smith c. Safeway, IRLR, 1996, p. 456, che ha ritenuto legittima l’applicazione di regole differenti, in materia di abbigliamento e acconciatura dei capelli, tra uomini e donne, e in particolare un divieto di capelli lunghi per un addetto al settore pasticceria di un esercizio pubblico; ma su di un caso analogo italiano v. in senso opposto Cass. n. 4307/1993, cit. nella nota prec.
(43) V. ancora, in questo senso, Cass. 9 aprile 1993 n. 4307, cit. nella nota 41: la Corte fa qui esplicito riferimento alle «clausole pattizie» con cui può essere limitata la libertà di abbigliamento, al di là di quanto disposto in via generale «nelle norme giuridiche o nelle regole sociali dalle prime richiamate».
(44) Per una ampia esposizione e i riferimenti dottrinali e giurisprudenziali in proposito, v. K.E. Klare, Abbigliamento e potere: il controllo sull’aspetto del lavoratore subordinato, DLRI, 1994, pp. 567-626.
(45) In questo senso v. recentemente C. Smuraglia, Diritti fondamentali della persona nel rapporto di lavoro (situazioni soggettive emergenti e nuove tecniche di tutela), RGL, 2000, I, pp. 473-475 (ivi alcuni ulteriori riferimenti giurisprudenziali). Per un caso nel quale è stato ritenuto illegittimo il divieto di portare minigonne v. P. Milano 12 gennaio 1995, GC, 1995, I, p. 2267, con nota di G. Pera, La minigonna negli ambienti di lavoro.
(46) Sulla ragionevolezza, ma solo entro certi limiti, della differenza di abbigliamento tra uomini e donne, v. le sentenze straniere citt. nella nota 42.
(47) È quest’ultima la soluzione proposta, in riferimento all’ordinamento statunitense, da K.E. Klare, Abbigliamento e potere: il controllo sull’aspetto del lavoratore subordinato, cit. nella nota 44, il quale propone una «ricostruzione del mercato» su questa materia, affidata a un intervento legislativo o alla giurisprudenza: «Come punto di partenza, dovrebbe essere considerato illegittimo per un datore, in mancanza di una valida ‘‘rinuncia’’ [da parte del lavoratore], operare discriminazioni, applicare sanzioni, o licenziare un dipendente o aspirante tale sulla base del suo aspetto personale o del suo abbigliamento. Dovrebbe comunque essere permesso al datore di lavoro di acquisire il diritto a controllare l’aspetto personale del lavoratore, a certe condizioni di base. L’obiettivo è quello di promuovere la concorrenza fra datori di lavoro sulle condizioni del contratto relative all’aspetto personale e cercare di costringerli a pagare una maggiorazione retributiva se desiderano esercitare un potere eccezionale di controllo sull’aspetto dei lavoratori [non strettamente legato a esigenze tecniche della prestazione]. La speranza è che i datori di lavoro prima o poi si rendano conto che non ne vale la pena. Un datore di lavoro che intenda acquisire il controllo sull’aspetto personale dei propri dipendenti dovrebbe ottenere da loro una espressa rinuncia scritta … Il datore sarebbe tenuto ad avvertire i lavoratori che hanno la possibilità di conservare il controllo sul proprio aspetto accettando una retribuzione più bassa». … «In sostanza, la ricostruzione che propongo è pensata per privare i datori della capacità e/o dell’incentivo a farsi concorrenza in base all’immagine o al fascino sessuale di un lavoratore o di una lavoratrice attraente. Tuttavia, i problemi legati alla piacevolezza fisica … si presenteranno sempre, ad esempio, nei casi in cui ci si trova al confine fra uno standard minimo di cura personale e uno di gradevolezza fisica … In questi casi deve prevalere la contrattazione, oppure il divieto di regole sessiste sull’abbigliamento e la cura personale …? … la tesi che propongo — sia pure con molta esitazione — è che, almeno nella fase attuale, molti dei problemi relativi all’aspetto personale debbano e possano utilmente essere lasciati alla contrattazione, in un mercato ricostruito» (pp. 623-626).