PERCHÉ E IN CHE COSA PUÒ CONSISTERE UN PROVVEDIMENTO DEL LEGISLATORE MIRATO A PROMUOVERE IL DECENTRAMENTO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E UN MODO NUOVO DI DETERMINARE LA DINAMICA DELLE RETRIBUZIONI
Risposta alle domande più frequenti, 18 aprile 2016 – In argomento v. anche Contrattazione: le quattro ragioni per una svolta e Intervista sulla crisi del sistema delle relazioni industriali italiano.
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Perché il Governo intende favorire il decentramento della contrattazione collettiva?
Il motivo principale sta in questo: un collegamento più stretto e immediato tra retribuzione e produttività del lavoro costituisce di per sé un incentivo all’aumento della produttività stessa, che in Italia è ferma da un quindicennio; e l’aumento della produttività costituisce a sua volta la precondizione per un aumento corrispondente delle retribuzioni. Per altro verso, una maggiore flessibilità degli standard retributivi appare indispensabile in un Paese come l’Italia, nel quale si osservano sul piano economico e industriale disparità enormi tra regione e regione: se è il contratto collettivo nazionale a pretendere di governare la maggior parte della dinamica delle retribuzioni, il risultato non può che essere la fissazione di standard sempre troppo bassi per le regioni settentrionali e troppo alti per quelle meridionali.
Che cosa significa, in concreto, “decentramento della contrattazione collettiva”?
Sul piano del sistema delle relazioni industriali, significa un mutamento molto incisivo della funzione del contratto collettivo nazionale: esso non deve più costituire lo strumento che governa la maggior parte della dinamica delle retribuzioni, ma deve stabilire dei minimi tabellari che costituiscano dei veri e propri salari minimi orari, porre a disposizione delle imprese degli schemi di collegamento tra la parte ulteriore delle retribuzioni e la produttività e/o la redditività aziendale, e stabilire una “disciplina minima di default” per tutta la parte cosiddetta “normativa”. In questo modo la dinamica delle retribuzioni sarebbe affidata a meccanismi che le collegano all’andamento aziendale, ovviamente soggetti alla contrattazione nel luogo di lavoro, ma capaci di funzionare anche senza.
Che cosa cambierebbe sul piano giuridico, nel rapporto tra contratto nazionale e contratto aziendale?
Sul piano giuridico, “decentramento” significa essenzialmente che, nel caso di concorrenza tra contratti collettivi di diverso livello applicabili in una stessa azienda, prevale quello stipulato al livello più vicino al luogo di lavoro. È una regola che in Germania è stata fatta propria dal sistema delle relazioni industriali, senza bisogno di un intervento legislativo, fin dall’inizio del nuovo secolo; col risultato che lì nel trenta per cento del tessuto produttivo il contratto aziendale ha sostituito quello di livello superiore.
In Italia oggi che cosa dice la legge su questo punto?
In tema di concorso ed eventuale conflitto tra contratti collettivi di livello diverso, in Italia la Costituzione e la legge ordinaria non dicono nulla direttamente, anche se, in realtà, dettano regole – per esempio in materia di contribuzione previdenziale minima (v. sotto) – che producono un effetto indiretto di “inderogabilità di fatto” del contratto collettivo nazionale. Va poi detto che fin dal primo decennio dopo l’entrata in vigore della Costituzione è venuto consolidandosi un orientamento giurisprudenziale per il quale i minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle associazioni imprenditoriali e sindacali maggiormente rappresentative vanno assunti come parametro per la determinazione della retribuzione minima a norma dell’articolo 36 Cost. Da questo orientamento giurisprudenziale deriva, logicamente, il prevalere della parte del contratto collettivo nazionale che stabilisce entità e struttura della retribuzione, rispetto a qualsiasi disposizione contenuta in un contratto di livello inferiore che abbia la pretesa di governare la materia diversamente.
Nel silenzio della legge, quale regola si applica in tema di conflitto tra contratti collettivi di diverso livello, nel sistema delle relazioni industriali e nella prassi sindacale?
La materia è stata regolata dagli accordi interconfederali sulla rappresentanza e la contrattazione del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013, confluiti poi nel “Testo unico” del 10 gennaio 2014. In estrema sintesi, questi accordi interconfederali prevedono che il contratto aziendale, se stipulato da una coalizione maggioritaria, può derogare rispetto al contratto nazionale praticamente su tutto, tranne che in materia di standard retributivi e struttura della retribuzione.
Dunque gli accordi interconfederali non fanno altro che ricalcare l’orientamento giurisprudenziale che assume i minimi tabellari nazionali come parametro per la determinazione della “giusta retribuzione” al di sotto della quale non si può andare?
Non è proprio così. Perché quell’orientamento giurisprudenziale fa riferimento ai soli minimi tabellari, ma ci sono anche altre voci retributive previste dai contratti collettivi nazionali, come gli scatti di anzianità, o certe indennità collegate ad aspetti particolari della prestazione, che per quell’orientamento giurisprudenziale non rientrano nello standard minimo inderogabile, ma che per gli accordi interconfederali del 2011 e 2013 non sembrano derogabili in sede di contrattazione aziendale.
Perché un intervento legislativo sui rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, visto che già gli accordi interconfederali hanno fatto molta strada sulla via del decentramento?
Un intervento legislativo su questa materia è necessario, anzi urgente, per almeno due motivi. Innanzitutto, oggi i minimi contributivi per la previdenza obbligatoria sono determinati per tutte le imprese (iscritte o no alle associazioni firmatarie dei contratti collettivi nazionali) in riferimento ai minimi retributivi previsti nei contratti collettivi nazionali stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative. Inoltre alcune norme, come l’articolo 36 dello Statuto dei Lavoratori, subordinano la possibilità di avere appalti da enti pubblici, o di godere agevolazioni di qualsiasi genere, all’applicazione integrale dei “contratti collettivi”: espressione che viene comunemente interpretata come indicativa dei contratti collettivi nazionali. In questo modo i contratti nazionali finiscono per diventare inderogabili di fatto in ogni loro parte, anche se in linea teorica essi sarebbero derogabili da parte dei contratti aziendali. Gli accordi interconfederali del 2011 e del 2013 non hanno modificato sensibilmente questo orientamento amministrativo. Per questo motivo, se vogliamo perseguire il decentramento contrattuale, un intervento legislativo è indispensabile.
Quale potrebbe essere, in concreto, il contenuto di un intervento legislativo su questa materia?
Alla legge ordinaria si chiede, innanzitutto, di chiarire in che limiti e sotto quali condizioni un’impresa può applicare una deroga al contratto nazionale contrattata in sede aziendale, senza dover poi versare contributi previdenziali minimi commisurati a standard diversi, senza perdere la possibilità di partecipare a gare d’appalto pubbliche e senza perdere la possibilità di beneficiare di qualsiasi agevolazione fiscale o contributiva prevista per la generalità delle altre imprese. Oggi, a ben vedere, pur nel silenzio della legge sul rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, l’ordinamento statale finisce col determinare indirettamente una situazione di forte compressione dell’area della derogabilità di fatto del contratto collettivo nazionale. Questa è una delle cause della resistenza diffusa del sistema al decentramento.
Più precisamente, dunque, che cosa potrebbe dire su questa materia una norma legislativa?
Una legge potrebbe opportunamente esplicitare, per esempio, una regola del tipo di quella vigente nel sistema delle relazioni industriali tedesco, secondo cui, se negoziato da una coalizione maggioritaria, il contratto aziendale prevale sul contratto nazionale. La stessa legge potrebbe attribuire esplicitamente al contratto aziendale il potere di variare anche il sistema di inquadramento e dunque la scala dei minimi tabellari. In ossequio all’articolo 36 della Costituzione, potrebbe infine stabilire un limite alla derogabilità del contratto nazionale in materia retributiva.
In questo modo, però, non si finirebbe col consacrare e irrigidire in una norma legislativa l’orientamento giurisprudenziale sulla “giusta retribuzione” di cui si è parlato sopra?
L’obiettivo è di lasciare maggiore spazio alla contrattazione aziendale: anche soltanto la possibilità di cambiare i criteri di inquadramento costituirebbe una novità molto rilevante. Sarebbe opportuno consentire anche che essa modifichi i rapporti tra retribuzione diretta e differita. Nulla vieta poi che il legislatore ordinario – al fine di stimolare i nuovi insediamenti produttivi, soprattutto nel Mezzogiorno – consenta alla contrattazione aziendale (eventualmente limitando questa possibilità al caso di start up) di modificare anche la struttura stessa delle retribuzioni, attraverso la sostituzione di una parte debitamente limitata (per esempio: al massimo il 20 per cento) dello “zoccolo” fisso del minimo tabellare con un premio collegato a obiettivi di produttività o di redditività della nuova azienda negoziati col contratto aziendale. Questa trasformazione, con la scommessa comune che essa comporta tra imprenditore e lavoratori sul successo della nuova iniziativa, potrebbe essere efficacemente incentivata sul piano fiscale con un aumento del tetto dei 2.000/2.500 euro annui fissato dal decreto 25 marzo 2016 in attuazione dell’ultima legge di stabilità per l’applicazione dell’aliquota Irpef fissa del 10 per cento.
Si è parlato anche di provvedimenti più incisivi, come l’istituzione di una retribuzione minima oraria universale stabilita dal Governo. Come impatterebbe questo nuovo strumento sulla contrattazione collettiva?
Se quella fosse la scelta del Governo e del legislatore, a quel punto apparirebbe logico consentire la deroga in sede aziendale al contratto nazionale in materia retributiva entro il limite del rispetto del salario minimo orario universale. Questo, poi, potrebbe essere determinato in termini di potere d’acquisto effettivo, per esempio affidandosi all’Istat la determinazione di un coefficiente corrispondente al costo della vita in ciascuna regione, per il quale il s.m.o. dovrebbe essere moltiplicato. Dal punto di vista della funzione di garanzia dello standard retributivo minimo, questa scelta sarebbe la più logica: fissare quello standard in termini nominali e non in termini di potere d’acquisto effettivo, infatti, produce l’effetto paradossale di imporre un salario minimo reale più alto nelle regioni più povere e dove il lavoro è mediamente meno produttivo.
Perché il Governo considera il decentramento della contrattazione collettiva come un passaggio necessario per rendere il nostro Paese più attrattivo nei confronti delle grandi multinazionali e dei loro investimenti?
Perché le grandi multinazi0nali hanno, in genere, sistemi di organizzazione del lavoro e delle retribuzioni praticati in varie parti del mondo e in decine o centinaia di migliaia di rapporti di lavoro: è naturale che esse desiderino poter praticare gli stessi sistemi anche in casa nostra, senza dover necessariamente sottostare a un contratto collettivo nazionale nella cui negoziazione non hanno avuto alcuna parte. Si pensi, per esempio, a che cosa significa imporre alla Nissan o alla Toyota, che in tutto il resto del mondo praticano il sistema della lean production, di applicare in Italia il sistema dell'”inquadramento unico” articolato in sette livelli. È qui che il sindacato deve mostrare di saper svolgere il nuovo mestiere che gli compete nell’era della globalizzazione: il ruolo di intelligenza collettiva dei lavoratori, capace di guidarli nella valutazione del nuovo piano industriale e della credibilità dell’imprenditore che lo propone; e, laddove la valutazione sia positiva, capace di rappresentarli nella negoziazione della scommessa comune con l’imprenditore stesso, da qualsiasi parte del mondo venga. Una negoziazione che, a quel punto, deve poter avvenire a 360 gradi, su tutti gli aspetti del rapporto, dall’organizzazione del lavoro, all’inquadramento professionale, alla struttura delle retribuzioni. Anche per questo abbiamo bisogno di un contratto aziendale che possa non solo derogare parzialmente, ma anche, dove ce ne siano le condizioni, sostituirsi integralmente al contratto nazionale di settore. L’esperienza della F.C.A. di Sergio Marchionne, da questo punto di vista, costituisce un punto di riferimento molto rilevante.
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