È IMPRESSIONANTE CHE UNA GRANDE CONFEDERAZIONE SINDACALE CON QUESTE RADICI SIA COSÌ IMPERMEABILE ALLE ESPERIENZE DEI PAESI EUROPEI PIÙ AVANZATI SOCIALMENTE ED ECONOMICAMENTE E COSÌ INCAPACE DI TRARRE INSEGNAMENTO DAGLI ERRORI DEL PASSATO
Intervista a cura di Filippo Caleri, pubblicata dal quotidiano il Tempo il 3 aprile 2016, in riferimento al progetto di legge elaborato e sostenuto dalla Cgil: Carta dei diritti universali del lavoro – Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori.
«Il nuovo Statuto dei lavoratori che la Cgil vuole riscrivere? È già elaborato e sul piano formale è un capolavoro di precisione, chiarezza e semplicità. Solo che porta indietro il nostro mercato del lavoro agli anni ’70, addirittura aumentando le rigidità rispetto ad allora, così ingessando totalmente il nostro tessuto produttivo. È una Cgil impermeabile alle esperienze migliori degli altri Paesi europei e incapace di imparare dagli errori». Così commenta Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd, a Il Tempo la proposta della Camusso.
La Camusso intende riscrivere lo Statuto dei lavoratori. Che cosa pensa di questo nuovo progetto?
«Sulla Carta dei diritti universali del lavoro elaborata e sostenuta dalla Cgil devo dare un giudizio fortemente positivo sul piano della qualità della scrittura: è un vero e proprio Codice semplificato del lavoro in 97 articoli, redatto con criteri di chiarezza e concisione veramente eccellenti. Spero che nessuno se la prenda se dico che la Cgil ha assunto a modello il progetto di Codice semplificato la cui prima edizione venne presentata da me con altri 50 senatori Pd nel 2009. Dunque non è vero che, come ha detto un dirigente della Cgil, “semplificazione legislativa significa smantellamento dei diritti”».
E sul piano dei contenuti?
«È una selezione accurata e sintesi organica perfezionata di tutte le protezioni dei lavoratori più rigide introdotte nel nostro ordinamento dal 1960 in poi, per di più estese a tutte le imprese senza limiti di dimensioni e in gran parte estese anche alle collaborazioni autonome. Mi impressiona molto l’idea che la stessa grande confederazione sindacale guidata nei decenni passati da Lama e da Trentin oggi possa mostrarsi così impermeabile all’esperienza dei Paesi socialmente ed economicamente più avanzati, oltre che incapace di trarre insegnamento dagli errori del passato».
Sulla questione del limite dei 15 dipendenti per l’applicazione dell’articolo 18, il Paese con Berlusconi si bloccò per un anno.
«In questo caso non corriamo questo rischio: neppure un ipotetico Governo Vendola-Fassina si sognerebbe di proporre una riforma come questa».
Il sindacato secondo Lei si ricompatta oppure si spacca su questa “Carta dei diritti universali”?
«Su questo progetto la Cgil potrà forse compattarsi con i Cobas, ma non certo con la Cisl, e neppure con la Uil di Carmelo Barbagallo».
Il Jobs Act ora è a pieno regime. Ha funzionato, come sembra, solo perché accompagnato dagli sgravi contributivi per le nuove assunzioni?
«Nel 2015 il forte aumento delle assunzioni stabili è stato probabilmente causato per metà dallo shock economico, cioè dalla decontribuzione, per l’altra metà dallo shock normativo, cioè dalla nuova disciplina del rapporto di lavoro e in particolare dei licenziamenti. Ma gli effetti più importanti della riforma, in termini di maggiore attrattività del nostro Paese per gli investitori, devono ancora vedersi. Nessuno poteva attendersi che si producessero istantaneamente».
Che opinione si è fatta della riforma del lavoro pubblico portato avanti con i decreti Madia?
«In realtà, se si escludono alcune norme assai importanti sui dirigenti, la riforma Madia non ha riguardato la disciplina del rapporto di impiego nelle amministrazioni. Ed è bene che sia così, perché su questo terreno non sono necessarie tanto nuove norme di legge, quanto una forte responsabilizzazione dei dirigenti su obiettivi precisi e misurabili, e una riappropriazione da parte loro delle prerogative manageriali alle quali nei decenni passati hanno quasi totalmente abdicato».
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