PERCHÉ NEGOZIARE L’ARTICOLO 18 NEL CAMBIO DI AZIENDA NON È LA SOLUZIONE PIÙ CONVENIENTE

IN REALTÀ LA SOSTANZIALE INAMOVIBILITÀ ASSICURATA IN PASSATO DALLO STATUTO DEI LAVORATORI È DESTINATA A ESSERE PROGRESSIVAMENTE EROSA DA UNA APPLICAZIONE SEMPRE PIÙ  ALLINEATA AGLI INTENDIMENTI ORIGINARI DEL LEGISLATORE DEL 2012 – MEGLIO PUNTARE SULLE NUOVE GARANZIE NEL SEGNO DELLA FLEXSECURITY

Lettera pervenuta il 29 marzo 2016 – Segue la mia risposta.

Gentile Avvocato, sono un dipendente di 39 anni assunto con un contratto a tempo indeterminato pre “Jobs Act”. In questi giorni mi trovo a dover valutare una interessante proposta di lavoro da parte di un altra azienda. Ora la mia domanda è: posso, in fase negoziale, accordarmi per poter derogare al fatto che l’art.18 non sarà più una mia tutela? In breve, si può mantenere il vecchio regime tramite un’esplicito accordo con il nuovo datore di lavoro? Parlando con la recruiter dell’agenzia che mi ha contattato sembrerebbe di sì. Ma vede io in realtà non sono ancora sicuro sia possibile ed ho preferito rivolgere la domanda ad un esperto come Lei. La ringrazio vivamente per la sua risposta, mi trovo proprio combattuto nel dovere scegliere. Cordialmente
Carlo Longo (Roma)

Certo che si può negoziare col nuovo datore la conservazione del vecchio regime. E la pattuizione è sicuramente valida. Ma, a mio avviso, per chi si trova in una situazione analoga a quella di C.L. la soluzione dell’ “articolo 18 contrattuale” non è la più vantaggiosa, poiché essa espone pur sempre al rischio di restare con un pugno di mosche in mano, se la nuova datrice di lavoro licenzierà per un motivo oggettivo, come eccedenza di personale, riorganizzazione, e simili. Non si può dimenticare che, a norma dell’articolo 1 della legge n. 92/2012, anche nel caso in cui il giudice consideri insufficiente il motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro la sanzione applicabile non è la reintegrazione nel posto di lavoro, bensì soltanto l’indennizzo: la reintegrazione non costituisce più la regola generale, ma l’eccezione, limitata ai casi di discriminazione, o di grave abuso datoriale della facoltà di recesso. Ed è facilmente prevedibile – anzi, già ora in qualche misura osservabile – una tendenza dei giudici del lavoro a interpretare e applicare la legge n. 92/2012 in modo sempre più fedele all’intendimento originario del legislatore che la ha approvata. Nel caso di cambio di azienda, dunque, invece di chiedere la conservazione dell’articolo 18 per via contrattuale, conviene chiedere:
– un trattamento complementare di disoccupazione che, in qualsiasi caso di licenziamento, garantisca una integrazione del trattamento assicurativo (NASpI) fino al 90 o al 95 per cento dell’ultima retribuzione per un periodo che potrà variare, a seconda delle disponibilità della nuova datrice di lavoro, da 3 a 24 mesi (il costo per l’azienda, in caso di licenziamento, è minimo: da mezza a una mensilità di retribuzione senza contributi per ogni sei mesi di durata della disoccupazione); e/o
– un “preavviso lungo” di licenziamento: per esempio 12 mesi; e/o
– una clausola di durata minima (ovvero, la rinuncia dell’impresa a licenziare per un periodo che potrà variare, per esempio, da uno a tre anni).
Queste clausole possono essere concordate – l’una in alternativa all’altra, oppure cumulativamente – sia nel nuovo contratto di lavoro, sia con una pattuizione a sé stante contenuta in una lettera
a latere, aggiuntiva rispetto al contratto e non necessariamente contestuale.    (p.i.)

 

 

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