LA “RIEDUCAZIONE” DEL CONDANNATO E LA SUA LIBERTÀ DI RIFIUTARLA

OCCORRE RICONOSCERE AI DETENUTI LA POSSIBILITÀ DI SCELTA TRA AVVIARSI A UNA VITA NUOVA E RESTARE QUEL CHE SONO

Lettera pervenuta il 29 marzo 2016, in riferimento alla precedente del 17 marzo, Quando l’ergastolano non si redimeSegue la mia risposta.

Caro Pietro, anche se normalmente mi occupo di altro, ho seguito il dibattito che hai suscitato  sui condannati all’ergastolo e vorrei commentare, anch’io di getto, l’importante testimonianza di S.S., alla luce dell’approccio capacitante che propongo nella cura degli anziani fragili e nella promozione del dialogo nella vita quotidiana (www.gruppoanchise.it).
Parto da una considerazione personale sulla parola rieducazione: non mi è mai piaciuta. La parola è tecnicamente ineccepibile e viene utilizzata con un’intenzione lodevole, quella di partecipare attivamente al processo di una possibile redenzione (cambiamento) del condannato. Fin qui tutto bene. Nel suo uso corrente contiene però una sfumatura che per me è inaccettabile. Sembra alludere  al fatto che una persona adulta (l’educatore-rieducatore) possa essere l’artefice del cambiamento di un altro adulto (il condannato da rieducare). Ovviamente non è così ed è bene precisarlo. Provando a immedesimarmi  nel mondo delle carceri (con tutti i limiti di un “esterno”), credo che un programma di rieducazione debba consistere nell’offrire al condannato un ambiente di vita sufficientemente sano che comprenda esperienze (per esempio con il lavoro), relazioni (per esempio con gli educatori), stimoli culturali (per esempio con lo studio e il teatro attivo e passivo) tali da rendere una vita onesta più attrattiva di una vita criminale.
Ovviamente se il condannato proviene da un ambiente criminale o ha comunque maturato una cultura che non lo fa sentire in colpa per quello che ha commesso, i tempi perché un cambiamento possa (non debba necessariamente) avvenire sono lunghi, ma non è certo il tempo che manca a un ergastolano.
In sintesi, la mia riflessione vuole sottolineare da una parte l’importanza dell’impegno rieducativo con un impiego anche straordinario di risorse e di durata nel tempo (come hai sottolineato tu), dall’altra il riconoscimento della libertà del condannato di restare quello che è o di approfittare delle occasioni che gli vengono offerte per  avviarsi a una vita nuova che lui percepisca migliore, di maggior valore, da subito, anche mentre resta in carcere a scontare la pena. Il programma di rieducazione, se così lo vogliamo chiamare, può solo offrire delle occasioni, non può essere il motore del cambiamento. Il cambiamento può deciderlo solo il diretto interessato; l’educatore deve offrire il meglio della propria professionalità ma deve anche essere pronto ad accettare, in ogni momento, la libera scelta del detenuto. Un caro saluto e grazie per quello che fai e che scrivi
Pietro Vigorelli

È vero: il termine “rieducazione” usato a questo proposito nell’articolo 27 della Costituzione può suscitare qualche perplessità, nella misura in cui può evocare la pretesa dei regimi totalitari di cambiare la mente dei detenuti attraverso la tortura dei “campi” o “case di rieducazione”. Nel nostro sistema costituzionale la pena deve tendere al recupero del condannato e al suo reinserimento nella società civile, ma l’ordinamento penitenziario non può esercitare alcuna pretesa giuridica nei confronti del condannato circa il contenuto del suo pensiero e del suo sentire. Il che, a fronte dell’ipotetico rifiuto opposto dal condannato al tentativo di suo recupero e reinserimento, implica che l’ordinamento possa prevedere una corrispondente prosecuzione della pena detentiva, senza sconti. Tuttavia questo presuppone che si distingua il vero e proprio rifiuto dalla pura e semplice impossibilità personale di offrire collaborazione all’amministrazione giudiziaria, vuoi per mancanza di informazioni da fornire, vuoi per il rischio incombente di rappresaglie della criminalità organizzata contro i familiari.  (p.i.)

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