PARTECIPAZIONE IN AZIENDA: LE CAUSE DI UN RITARDO

LA SCARSA DIFFUSIONE DELLA PRATICHE PARTECIPATIVE NEL NOSTRO PAESE È IN LARGA PARTE L’EFFETTO DI UNA CULTURA CONTRARIA, CHE HA PER LUNGO TEMPO PREDOMINATO NEL NOSTRO MOVIMENTO SINDACALE

Intervista a cura di Goffredo De Palma pubblicato sul sito Mitbestimmung, 18 marzo 2016 – In argomento v. anche il mio articolo Partecipazione dei lavoratori in azienda: le ragioni di un ritardo

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Professor Ichino, la partecipazione dei lavoratori all’azienda rappresenta un concetto che ha trovato diversi livelli di istituzionalizzazione e applicazione nel contesto internazionale. Come considera la correlazione tra il forte sostegno istituzionale, in primis per mezzo del sistema legale, e gli elevati livelli di competitività economica/inclusione sociale in Paesi quali Olanda, Germania, Austria e gli scandinavi Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia?
L’ordinamento statale può imporre la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, secondo il modello che ha caratterizzato soprattutto l’esperienza tedesca dalla fine dell’ultima guerra mondiale; oppure può incentivarla in vari modi; oppure ancora può rimanere neutrale su questo terreno, lasciando che sia il libero gioco delle relazioni industriali a produrre la diffusione di pratiche partecipative. Non mi pare che si possa stabilire una correlazione netta tra il grado di competitività dei Paesi e le scelte compiute dai rispettivi legislatori nazionali su questo terreno. Per altro verso, rispetto all’ipotesi dell’adozione per legge di un modello di partecipazione al livello nazionale, mi sembra preferibile la promozione di forme diverse di partecipazione, lasciando che fioriscano liberamente le esperienze più diverse, ciascuna azienda scelga il modello che più si attaglia alle sue caratteristiche, e anche i lavoratori possano scegliere tra le aziende in relazione a questa scelta.

Come valuta l’attuale livello nel sistema Italia, quali le potenzialità ancora inespresse e con quali ostacoli alla radice?
In Italia le pratiche partecipative in azienda sono molto meno diffuse di quanto non si osservi nei Paesi del centro e del nord-Europa. Questa è in parte una conseguenza di una certa arretratezza culturale di una parte dell’imprenditoria italiana; ma in parte anche una conseguenza dell’avversione della parte maggioritaria del movimento sindacale all’idea stessa del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’azienda, o di una loro partecipazione al relativo rischio. È ragionevole ritenere che l’una cosa abbia alimentato l’altra in una sorta di circolo causale.

Quali le direzioni strategiche da perseguire a livello legislativo e di parti sociali?
Nella passata legislatura sono stato relatore su cinque disegni di legge, provenienti da parti politiche diverse, di cui ho realizzato un testo unico approvato da quasi tutti i componenti della Commissione Lavoro del Senato. L’idea era quella di mettere a disposizione delle imprese di una sorta di menu di dieci pratiche partecipative, incentivate sul piano fiscale, lasciando libere le imprese di scegliere tra di esse, o anche di non sceglierne alcuna. Questo testo è stato recepito nell’ultima parte della legge Fornero del giugno 2012 in forma di delega legislativa al Governo; ma la delega non è stata poi esercitata. Si potrebbe ripartire da lì.

 

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