UN ANNO DI JOBS ACT, MA I SERVIZI SONO ANCORA ALL’ANNO ZERO

LA RIFORMA DEL LAVORO HA SICURAMENTE CONTRIBUITO A RIVITALIZZARE UN MERCATO DEL LAVORO INFARTUATO E A RENDERE PIÙ ACCESSIBILE IL LAVORO STABILE, MA LE POLITICHE ATTIVE NEL MERCATO SONO IN GRAVE RITARDO

Intervista a cura di Giacomo Govoni, in corso di pubblicazione sull’inserto Dossier del quotidiano Il Giornale, aprile 2016 – In argomento v. anche Come vanno letti i (buoni) dati sull’occupazione e Assunzioni stabili: il picco negativo di gennaio non indica una inversione di tendenza.

Dalla sua effettiva entrata in vigore, il Jobs Act ha compiuto da poco un anno. Come valuta il suo impatto sul mercato del lavoro, quali punti di forza ha messo in mostra e quali limiti?
L’impatto più evidente è quello che si è registrato sulla qualità del flusso dei nuovi contratti. Un aumento di quasi il 50 per cento delle assunzioni a tempo indeterminato nel 2015 rispetto all’anno precedente, che diventa del 100 per cento se si considera il solo ultimo trimestre dell’anno, costituisce un fatto del tutto inedito nella storia delle nostre politiche del lavoro.

Ma questo potrebbe essere l’effetto più dell’incentivo economico, della decontribuzione, che della riforma dei licenziamenti.
Sulla base dei dati di cui disponiamo si può formulare l’ipotesi che allo shock economico sia imputabile circa metà di questo aumento, mentre il resto è imputabile allo shock normativo.

Quali dati?
Quelli del confronto dell’aumento delle assunzioni stabili nei primi due mesi del 2015, nei quali ha operato soltanto l’incentivo economico, con l’aumento verificatosi nei mesi successivi. Inoltre il dato dell’aumento delle trasformazioni di rapporti di apprendistato in rapporti a tempo indeterminato: qui l’incentivo economico non si applicava.

Fin qui abbiamo parlato di dati di flusso, delle nuove assunzioni. Come andiamo invece sui dati di stock?
Se confrontiamo il numero degli occupati a gennaio 2016 con quelli di un anno prima, registriamo un aumento di circa 300.000 persone occupate in più, con un corrispondente aumento del tasso di occupazione generale intorno all’1,4 per cento: è il risultato di circa 450.000 posti di lavoro stabili in più e di circa 150.000 posti di lavoro precario in meno. Mentre si è assistito a una netta contrazione della Cassa integrazione a zero ore, che sostanzialmente nasconde disoccupazione. Ed è significativo che queste variazioni non si siano verificate, come è accaduto in tutti gli altri Paesi occidentali, con un ritardo di diversi mesi rispetto all’inversione della tendenza congiunturale, ma in perfetta sincronia con il ritorno alla crescita del PIL. Il Jobs Act può avere influito soprattutto su questo azzeramento del ritardo nel ritorno alla crescita occupazionale.

Il tallone d’Achille di una riforma che nel complesso sembra produrre ricadute positive è, però, il dato sulla disoccupazione giovanile che non vuol saperne di calare. Quali sono le debolezze del Jobs Act su questo piano e quali interventi sul fronte della formazione e inserimento professionale potrebbero invertire la rotta?
Se il tasso di disoccupazione generale è all’11,4 per cento e quello giovanile è al 38, la causa di questa differenza non può consistere nella crisi economica, nel difetto generale di domanda di lavoro: questo c’è per tutti. La causa sta essenzialmente nella mancanza quasi totale, nel nostro Paese, di un servizio di orientamento scolastico e professionale degno di questo nome e in un sistema della formazione professionale molto autoreferenziale, nel quale nessuno misura il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi.

Di chi è la colpa?
La competenza esclusiva in materia di orientamento scolastico e professionale, sia sul piano legislativo sia su quello amministrativo, è delle Regioni: su questo terreno, se si esclude il Trentino Alto Adige, il bilancio del loro operato è davvero pesantemente negativo. Anche perché tutto induce a pensare che la domanda di lavoro nel mercato, a tutti i livelli, stia diventando più sofisticata ogni anno che passa. Se non vogliamo che gli alti tassi di disoccupazione giovanile diventino strutturali, dobbiamo recuperare rapidamente il terreno perduto su questo terreno rispetto ai Paesi nostri partner centro e nord-europei.

Cresce l’occupazione, diminuisce la Cassa integrazione, ma ancora non si avvertono effetti significativi sul terreno delle politiche attive. A quali fattori imputa questa difficoltà a ricollocare i lavoratori e cosa occorre per accelerare questo processo?
Il decreto n. 150/2015, in materia di servizi per il mercato del lavoro, stenta un po’ a decollare: l’ANPAL, cioè la nuova agenzia centrale che dovrà coordinare le politiche attive del lavoro, non è ancora operativa ed è mancata quasi completamente la sperimentazione dei nuovi metodi e strumenti previsti dalla riforma: la cooperazione della rete pubblica dei Centri per l’Impiego con gli operatori privati specializzati, e il contratto di ricollocazione, che consentirà al disoccupato di scegliere l’agenzia che gli dà più fiducia e remunerarne il servizio con un voucher erogato dallo Stato, pagabile solo a risultato ottenuto.

Tra gli elementi innovativi del Jobs Act c’è la promozione della contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale. Una scelta che la convince?
A dire il vero, la legge-delega n. 183/2014 e i suoi decreti attuativi non compiono ancora questa scelta: questa è materia di un intervento ulteriore, che il Governo ha annunciato ma che è ancora in gestazione. Ci sono molti problemi sul piano tecnico: in primo luogo quello di non alterare il delicato rapporto tra legge e contrattazione collettiva. Comunque lo spostamento del baricentro della contrattazione e del governo delle dinamiche retributive verso i luoghi di lavoro è indispensabile per realizzare un collegamento più stretto tra retribuzione e produttività.

Che scenari prefigura, in primis per le imprese di dimensioni piccole e medie?
Più che prefigurare, formulo l’auspicio che i contratti collettivi nazionali si limitino a determinare la retribuzione minima, non in termini nominali ma in termini di potere d’acquisto effettivo: quindi istituendo un coefficiente di variazione correlato al livello del costo della vita in ciascuna Regione. Tutto il resto del monte-salari dovrebbe essere governato mediante schemi di collegamento tra retribuzione e produttività o redditività aziendali, interamente derogabili mediante contratto aziendale o territoriale, ma tra i quali le imprese piccole e medie che non praticano la contrattazione collettiva decentrata possano scegliere quello meglio corrispondente alle loro specifiche esigenze.

Non si è ancora chiuso l’annoso capitolo relativo agli esodati, per il quale il Governo ha predisposto un sistema di salvaguardie. In che modo si può risolvere definitivamente la questione?
Guardi, gli esodati veri, cioè coloro che hanno rinunciato al posto subito prima della riforma delle pensioni del 2011 in vista di un pensionamento prossimo, sono stati quasi tutti salvaguardati: quelli che sono rimasti fuori, ormai, sono poche centinaia di persone, per le quali si potrebbe provvedere con costi veramente trascurabili per l’Erario. Fatto questo, occorre davvero smettere di usare gli esodati come copertura politica per i tentativi di scardinare quella riforma importantissima. Occorre incominciare finalmente a guardare avanti e a progettare una spesa sociale non più assorbita interamente dalle pensioni dei cinquantenni e sessantenni, come è stata per decenni, ma destinata a combattere la povertà infantile, a sostenere le famiglie con persone non autosufficienti, a combattere la disoccupazione di lunga durata e quella giovanile.

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