LA PARIFICAZIONE DELL’ETA’ DI PENSIONAMENTO FEMMINILE NON PUO’ ANDARE DISGIUNTA DA UNA RIFORMA DEL WELFARE CHE TENGA CONTO DELLA PECULIARITA’ DELLA CONDIZIONE DELLA DONNA NELLA SOCIETA’ ATTUALE
Documento a cura di Marina Piazza, Anna M. Ponzellini e Anna Soru, diffuso in preparazione del convegno promosso a Milano il 29 giugno 2009
L’età pensionabile in Italia
La proposta del Governo di equiparazione dell’età minima della pensione di vecchiaia delle donne, a fronte della sentenza della Corte di Giustizia europea nei confronti della normativa italiana del pubblico impiego, è inaccettabile se non si accompagna a una sostanziale riforma del welfare che tenga conto del lavoro di cura. La possibilità di anticipazione infatti costituisce attualmente proprio una sorta di “risarcimento”, per quanto generico e generalizzato, del ruolo di cura ricoperto dalle donne nella società. Ma difendere la situazione attuale – come molti in entrambi gli schieramenti politici stanno facendo – sembra piuttosto un alibi per lasciare le cose come stanno: lavorare con pochissimi aiuti fintanto che si hanno i bambini piccoli e smettere di lavorare abbastanza presto per potersi occupare degli anziani o per fare le nonne, surrogando le notevoli carenze dei nostri servizi all’infanzia e non solo.
La nostra proposta si basa sul concetto dell’indispensabilità del riconoscimento della cura, considerata un’attività umana irrinunciabile e base di una etica della cittadinanza. L’essenzialità della cura, il suo valore irrinunciabile si devono trasformare in politiche, devono entrare nella polis, ridisegnando una nuova mappa del welfare.
Scambiare l’innalzamento dell’età pensionabile con un nuovo welfare per la cura
La nostra proposta si inserisce in un percorso di riforma che vede:
– da un lato, lo spostamento graduale di un paio d’anni dell’età minima per il pensionamento femminile, all’interno di una manovra di re-introduzione del pensionamento flessibile per tutti[1];
– dall’altro, il riequilibrio del sistema di welfare tra produzione e riproduzione, che stabilisca cioè che i diritti sociali possano derivare oltre che dal lavoro retribuito anche dal lavoro di cura.
L’innalzamento progressivo di due anni è opportuno, oltre che perché probabilmente non ci sono alternative alle pressioni che ci vengono dall’Europa[2], anche perché, senza negare il beneficio di una più bassa età di pensionamento, bisogna considerare che già ora in molti casi – e in tutti, dal momento in cui entrerà in vigore il regime contributivo totale – il pensionamento a 60 anni è svantaggioso perché significa di doversi accontentare di importi più bassi[3]. A maggior ragione se si calcola che le donne hanno spesso alle spalle percorsi lavorativi più discontinui di quelli dei maschi, proprio per il loro impegno nel lavoro di cura, in particolare per la maternità.
Il pensionamento flessibile per tutti era già previsto nella legge 335 del 1995 (riforma Dini), in una parte che in seguito è stata stralciata dalla riforma Maroni, e consente la scelta di uscita all’interno di un range di età[4], naturalmente con opportuni incentivi di posticipo.
Il riconoscimento del lavoro di cura e quindi della figura del “caregiver universale”[5] (senza distinzione tra donne e uomini) deve avere insieme un valore “simbolico” (rendere finalmente visibile il lavoro di cura e il suo valore per la società) e un valore “monetario” (stabilire una remunerazione, se non diretta almeno in termini di crediti ai fini previdenziali per le attività di cura): in questo modo si sposta, almeno parzialmente, l’asse del sistema di cittadinanza e di welfare dal lavoro al sociale.[6]
I nostri tre punti
In sostanza cosa chiedere in cambio? Naturalmente supporti per i caregivers. Ma non generici, né troppo complicati.
I criteri fondamentali con cui ci muoviamo sono:
– riconoscere e remunerare (direttamente e/o indirettamente) il lavoro di cura
– non fare distinzioni tra caregivers maschi e femmine (tranne naturalmente per la maternità)
– favorire la condivisione della cura tra genitori
– favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e scoraggiarne l’abbandono
– sostenere la maternità e la paternità dei giovani, rendendo più facile la scelta i fare figli (anche nel precariato e nella disoccupazione) contro all’attuale tendenza delle giovani coppie a rimandare
– allargare le possibilità di scelta nelle opzioni di cura (diretta, servizi pubblici, mercato) per genitori e caregivers
– percorrere strade sostenibili per la finanza pubblica
Le leve utilizzate per dare supporto al lavoro familiare dagli altri sistemi previdenziali e fiscali europei (e non) sono molteplici[7]. La nostra proposta vuole prendere in considerazione solo 3 punti principali:
1. Maternità universale
Va assicurata una indennità di maternità a tutte le donne, indipendentemente dal fatto che lavorino per il mercato o no, per le cinque mensilità già previste per le lavoratrici dipendenti, di importo pari al 150% dell’attuale pensione sociale[8], indicizzabile e utile ai fine pensionistici. A carico della fiscalità generale l’indennità, mentre la corrispondente contribuzione figurativa andrebbe a carico dell’Inps, calcolandola, prima della pensione, sulla base della media del reddito dei 5 anni migliori della carriera lavorativa[9] .
Il reddito di maternità per tutte le lavoratrici autonome deve essere calcolato in analogia a quanto avviene per le lavoratrici autonome che svolgono un’attività professionale regolamentata (con iscrizione all’ordine): l’indennità di maternità deve essere erogata indipendentemente dall’effettiva astensione dall’attività e il calcolo dell’indennità sarà effettuato sul reddito del secondo anno precedente a quello del parto (naturalmente se in tale anno si lavorava, altrimenti sarà utilizzato l’ultimo anno), presumibilmente più remunerativo di quello in cui si è verificata la gravidanza. Se l’importo delle lavoratrici occupate (dipendenti o autonome di qualunque tipo) fosse inferiore a quello previsto per le lavoratrici inoccupate, dovrebbe essere opportunamente integrato. A carico delle casse previdenziali (INPS se gestione separata, casse private se professioniste con cassa) sarà l’importo calcolato sulla base dei redditi, a calcolo della fiscalità generale l’eventuale integrazione per raggiungere il reddito minimo previsto per le inoccupate[10].
Pensiamo che una seria indennizzazione della maternità a tutte le donne possa rendere più facile portare a termine il proprio progetto di maternità a quelle donne che attualmente sentono troppo rischiosa la loro situazione di disoccupate, precarie o percettrici di redditi bassi e discontinui e comunque a non rimandare troppo nel tempo il loro progetto, realizzandolo in una età migliore dal punto di vista della fecondità e della salute.
2. Congedi parentali
Proponiamo di elevare il numero complessivo di mesi di congedo a 18 mesi più una frazione per ogni figlio oltre il primo, mantenendo il diritto disgiunto tra madri e padri e il mese aggiuntivo di premio per i padri già previsti dall’attuale legislazione. Il diritto all’utilizzo va innalzato fino ai 12 anni di vita del figlio[11][12]. La remunerazione va resa pari al 60% del salario o, per gli autonomi, del reddito (calcolo da effettuare in analogia a quanto avviene con la maternità, ma sulla base di una quota del 60%). Il congedo potrebbe essere utilizzabile anche sotto forma di riduzioni d’orario (part time modulari), fino ai 12 anni del figlio. Finanziati da cassa maternità Inps.
Crediamo utile imitare la legislazione degli altri Paesi europei sia in termini di durata dell’assenza che di entità dell’indennità. In questo modo si aumentano le possibilità di scelta delle donne (anche di quelle con redditi familiari modesti), senza però incoraggiare l’abbandono dell’occupazione (come nel caso in cui l’indennità fosse più alta). Inoltre si incentiva la partecipazione dei padri alla cura (visto che i padri non prendono il congedo anche perché con l‘attuale indennità al 30% spesso ne risulta una perdita di reddito insostenibile). Inoltre, elevare il diritto al congedo, anche sotto forma di orario ridotto, per i figli fino ai 12 anni consente di tenere in adeguata considerazione il fatto che i bambini sotto quell’età difficilmente possono essere lasciati soli (anche in casa). Pensiamo infine che l’introduzione del diritto all’orario ridotto per tutti i genitori possa costituire un forte incentivo alle imprese a ridisegnare il sistema degli orari di lavoro in direzione di una migliore conciliazione, anche più in generale.
3. Crediti di cura (ai fini pensionistici)
Proponiamo l’introduzione di un sistema di crediti ai fini pensionistici per la cura dei figli, attraverso il conferimento ai genitori (da dividersi tra loro, a loro discrezione, se c’è accordo; in caso contrario in modo da riequilibrare le rispettive pensioni) di contributi figurativi, pari a tre anni per il primo figlio e due per ogni successivo[13]. Questi contributi saranno riconosciuti indipendentemente dallo status lavorativo (a lavoratori dipendenti o autonomi, occupati o disoccupati nello specifico periodo), comunque non cumulabili ai periodi maturati durante il congedo parentale e a quelli per maternità.
Si tratta di un istituto da mettere a carico della fiscalità generale.
Con due figli (ovvero 5 anni di sgravio contributivo) si realizzerebbe la parità con l’attuale sistema di pensionamento anticipato per le donne. La maggior parte dei sistemi (e anche il nostro) riconosce i periodi di maternità e congedo parentale ai fini pensionistici, tuttavia questo non vale per lavoratori autonomi, collaboratori occasionali e chi va in maternità mentre è inoccupato: questo provvedimento riequilibra questa situazione. Inoltre non disincentiva la partecipazione delle madri al mercato del lavoro, dato che anzi costituisce un primo accantonamento ai fini pensionistici che potrebbe favorire la decisione delle madri all’ingresso nel mercato o alla ripresa del lavoro.
[1] Questo è anche previsto dallLa proposta Cazzola prevede un incremento graduale (fino a 62 anni, per rendere sostenibile il sistema con l’aumento dell’età media) del limite anagrafico delle donne (nel sistema retributivo ) in vista del ripristino, a partire dal 2014 di un pensionamento flessibile e unificato, nel modello contributivo, in un range compreso tra 62 e 67 anni.
[2] Siamo l’unico paese insieme alla Grecia a non avere legiferato in materia, mentre altri tre Paesi – Belgio (che raggiungerà la parità il prossimo anno), Regno Unito e Austria – hanno recentemente legiferato per la progressiva equiparazione, anche se su periodi lunghi (vedi nella tabella allegata).
[3] Sulla base degli attuali coefficienti di trasformazione, andando in pensione a 60 anni il moltiplicatore del montante è 5,163 a 60 anni, 6,136 a 65 anni. Anticipare la pensione ai 60 anni significa percepire una pensione inferiore del 15,86% rispetto a quella percepibile lasciando il lavoro a 65 anni. I coefficienti crescenti con l’età, necessari per la sostenibilità del sistema pensionistico, funzionano da incentivi di posticipo.
[4] In Svezia, per esempio, è dai 61 ai 67 anni, in Finlandia da 63 a 68.
[5] La figura del caregiver è già riconosciuta in molti Paesi: in Olanda, Germania, Francia, Austria e Paesi scandinavi è previsto un riconoscimento del caregiver in termini pensionistici, in alcuni anche in termini di remunerazione e persino di ferie.
[6] Il riequilibrio dovrebbe avere una portata universale, nel senso di non distinguere tra tipi di status di impiego e, almeno fino ad un certo punto, non distinguere tra chi è occupato e chi è fuori dal mercato del lavoro.
[7] Le leve utilizzate dai sistemi fiscali e previdenziali degli altri Paesi europei per indennizzare il lavoro di cura: 1. Trasferimenti, prestazioni in natura e servizi ai caregivers anche non lavoratori: bonus e indennità, congedi e altre facilitazioni, servizi; 2. Detrazioni fiscali; 3. Sostegno ai redditi bassi, soprattutto per genitori soli; 4. Crediti ad uso pensionistico: riconoscimento dei periodi di cura, anche se non legati al lavoro, ai fini previdenziali; 5. Sostegno delle pensioni basse dei caregivers.
[8] La pensione sociale è per il 2009 pari a 337 euro, quindi l’importo che proponiamo è di 505 euro mensili pari a 2527,50 per i cinque mesi, indicizzato Si tratta di un importo superiore a quello dell’assegno erogato dai Comuni (per il 2009 sono 309 euro mensili pari a 1545 euro per i cinque mesi e vincolato ad un reddito familiare basso) e anche a quello erogato dallo Stato per le disoccupate con un minimo di contribuzione (che per il 2009 è pari a 1902,90 euro per i cinque mesi) e potrebbe sostituire entrambi questi assegni.
[9] Sia l’indennità, sia i contributi figurativi andrebbero a occupate/disoccupate/inattive, ma i contributi figurativi nel caso di donne inattive potranno trasformarsi in pensione solo se nell’arco della vita ci saranno anche versamenti pensionistici legati all’attività lavorativa.
[10] Nel caso di posizioni previdenziali miste (ad esempio in parte INPS da dipendente, in parte professionista con cassa privata ), l’indennità dovrà essere corrispsta cumulativamente ( INPS più cassa privata)
[12] Nella Proposta Franco sono trasformabili solo nei primi due anni e solo per le lavoratrici dipendenti.
[13] Si tratta del modello già applicato in Germania (e in forme analoghe anche in altri Paesi)