UN SISTEMA DI DETERMINAZIONE CENTRALIZZATO DELLE RETRIBUZIONI, CARATTERIZZATO OLTRETUTTO DA UNA AMPLISSIMA TOLLERANZA DELL’EVASIONE, HA UN EFFETTO DEPRESSIVO SULLA CRESCITA SIA DEL SISTEMA ECONOMICO NEL SUO COMPLESSO, SIA DELLA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO, SIA DEL LIVELLO EFFETTIVO DELLE RETRIBUZIONI
Lettera pervenuta l’8 marzo 2016, in riferimento alla mia intervista di cui si trova il link nel testo – Segue la mia risposta
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Buongiorno, senatore Ichino. In merito alla sua ultima intervista sul sistema delle relazioni industriali vorrei fare alcune osservazioni. Lei sostiene la tesi avanzata anche da Federmeccanica nell’attuale trattativa di rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ovvero che il salario deve essere spostato sulla contrattazione integrativa di secondo livello, lasciando al contratto nazionale un ruolo di garanzia della soglia minima salariale. Tesi peraltro condivisa anche dall’attuale maggioranza di governo, che ha temporaneamente accantonato l’idea del salario minimo di legge. L’unico risultato di questa soluzione sarebbe, invece, un abbassamento generalizzato dei salari. Innanzitutto perché la contrattazione integrativa non è obbligatoria, quindi non c’è sanzione contro le aziende che non la fanno. In secondo luogo fare contrattazione nelle micro aziende prive di rappresentanza sindacale è impossibile e quindi la maggioranza dei lavoratori sarebbe coperto solo dal salario minimo. Infine, anche nel caso vi sia contrattazione integrativa, nulla vieta che l’azienda la disdica. Esempio lampante è Fincantieri (grande gruppo industriale e molto sindacalizzato) che da oltre un anno e mezzo ha disdetto la contrattazione integrativa senza motivazioni evidenti di crisi, facendo perdere ai lavoratori consistenti quote di salario. Questa è la ridistribuzione della ricchezza dove si produce? La soluzione per moderne relazioni sindacali e competitività delle aziende italiane è quindi quella di una regressione delle retribuzioni a livelli di paesi dell’est? Cordiali saluti.
Riccardo Bronzi
L’obiezione di R.B. al progetto di spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro è la stessa che viene mossa a questo progetto dalla Cgil, da SEL e dalla minoranza di sinistra del PD. Per una replica compiuta a questa obiezione richiamo la mia comunicazione all’ultima assemblea nazionale di LibertàEguale, Contrattazione: le quattro ragioni per una svolta. In riferimento a questa lettera, osservo soltanto che l’idea è di affidare al contratto nazionale 1) il compito di fissare una retribuzione minima oraria che costituisca davvero un minimo di garanzia, e non una forma di governo centralizzato della dinamica delle retribuzioni (se il salario minimo tabellare corrisponde a un valore medio rispetto alla produttività espressa dal nostro tessuto produttivo, questo produce una dinamica retributiva insufficiente per le aziende più produttive ed eccessiva per quelle più deboli); 2) il compito di prevedere alcuni schemi di premio aziendale di produttività (per esempio in riferimento all’aumento del fatturato per dipendente) o di redditività (per esempio in riferimento al margine operativo lordo dell’impresa), tra i quali possa e debba scegliere l’impresa dove non operi la contrattazione aziendale e che non intenda istituire una forma diversa di collegamento tra retribuzioni e produttività. Il progetto si basa sulla constatazione che un sistema di determinazione centralizzato dello standard retributivo minimo, caratterizzato oltretutto da una amplissima tolleranza dell’evasione soprattutto nel Mezzogiorno del Paese, ha un effetto depressivo sia sulla crescita complessiva del sistema economico, sia sul livello delle retribuzioni. (p.i.)
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