UNA LETTURA NON FAZIOSA DEI DATI POSITIVI SUL FRONTE DELL’OCCUPAZIONE

LA RIFORMA DEL LAVORO NEL 2015 HA SICURAMENTE INFLUITO MOLTO DI PIÙ SUL FLUSSO DELLE NUOVE ASSUNZIONI CHE SULLO STOCK COMPLESSIVO DEGLI OCCUPATI – MA L’INFLUSSO POSITIVO SU ENTRAMBI GLI INSIEMI DI DATI È DESTINATO AD AUMENTARE NEL PROSSIMO FUTURO

Intervista a cura di Maria Giovanna Della Vecchia, pubblicata sul quotidiano l’Ordine di Como il 6 marzo 2016 – In argomento v. anche la mia intervista al Sole 24 Ore del 3 marzo.

Professor Ichino, come valuta i primi risultati ottenuti dal Jobs Act, considerandoli sia a sè sia in relazione al saldo finale fra entrate e uscite?
La riforma ha avuto sicuramente sulla qualità delle nuove assunzioni, un dato di flusso, ma non può avere influito più che tanto sul dato di stock, cioè sul tasso complessivo di occupazione. Quale che sia l’andamento del dato su occupati e disoccupati nel 2015, mi sembra arbitrario attribuirne il merito o la colpa a una legge entrata in vigore per un quarto a marzo, per un altro quarto a giugno e per metà a settembre 2015.

Può spiegare meglio?
Nel corso dell’anno abbiamo avuto un aumento di circa 300.000 occupati; ma questo è l’effetto, differito di qualche mese, di un aumento della domanda aggregata, cioè della somma di consumi e investimenti. Ora, è difficile pensare che la propensione al consumo degli italiani, o la propensione a investire in Italia degli imprenditori di tutto il mondo, possano variare istantaneamente per effetto dell’entrata in vigore di una norma, quale che ne sia il contenuto. Proprio questo occorrerebbe pensare per attribuire al Jobs Act tutto il merito di questo aumento della quantità dell’occupazione. Mi sembra più ragionevole pensare che la riforma del mercato del lavoro stia contribuendo, insieme alla riduzione della pressione fiscale su impresa e lavoro, alla riforma delle amministrazioni pubbliche e alla riduzione del costo differenziale dell’energia nel nostro Paese rispetto agli altri europei, a riaprire l’Italia agli investimenti stranieri. Ma gli effetti occupazionali di questa riapertura non possono essersi già verificati, se non in minima parte.

Dunque lei dice che per ora la riforma non ha prodotto alcun effetto nel mercato del lavoro?
Non ho detto questo. Fin qui abbiamo parlato di un dato di stock: quanti lavorano in Italia in un dato momento. Su questo dato la riforma, nei pochi mesi in cui ha operato, può avere influito solo marginalmente. Altro è il discorso sulla qualità del flusso delle assunzioni: quante a termine e quante a tempo indeterminato. Qui l’effetto combinato del forte incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato e della nuova disciplina dei licenziamenti si è fatto sentire eccome: il 47 per cento di aumento delle assunzioni stabili e delle conversioni di contratti a termine rispetto all’anno precedente costituisce un dato di grande rilievo.

Quanto pesa, nei fatti, l’incentivo della decontribuzione nel favorire le decisioni aziendali di assunzione stabile e quanto invece incide la nuova disciplina del “contratto a tutele crescenti”?
Già nel giugno scorso, nel mio libro Il lavoro ritrovato (Mondadori – ndr), avvertivo che una stima attendibile del peso dell’una misura e dell’altra sarà possibile solo all’esito di analisi complesse, cui gli econometristi stanno già lavorando, ma che saranno disponibili soltanto fra qualche mese. Mi sembra, comunque, plausibile la tesi secondo cui il notevole aumento delle assunzioni a tempo indeterminato è il frutto di uno shock prodotto proprio dalle due misure combinate tra loro; ciascuna delle due da sola avrebbe prodotto meno della metà di questo risultato. Vi sono poi alcuni indizi – tra i quali il dato dell’aumento del 27 per cento della stabilizzazione degli apprendisti, dove l’incentivo economico non ha operato – che consentono di dividere equamente a metà il merito di questo aumento del lavoro stabile, tra l’incentivo economico e la riforma dei licenziamenti.

La riforma della pubblica amministrazione sembra non fare ancora chiarezza sul destino, dal punto di vista della gestione, dei servizi per l’impiego. Si va verso una gestione più centralizzata? In tal caso, cosa perdono i singoli territori?
Ora l’ANPAL, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ha il compito di stabilire le linee-guida e i livelli minimi delle prestazioni, di controllare che le Regioni che continueranno a gestire i servizi per il mercato del lavoro rispettino le direttive e i livelli minimi, e di surrogarsi nella gestione alle Regioni che non ne sono in grado.

Quanto sono efficaci oggi nel nostro mercato del lavoro i servizi per l’incontro fra domanda e offerta?
Se si escludono alcune isole di efficienza, in Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia – qualcosa ultimamente si muove positivamente anche nel Lazio – i servizi per l’impiego pubblici in Italia funzionano male. Riescono ad assolvere la funzione burocratica della disoccupazione, ma non producono risultati apprezzabili nel mettere in comunicazione tra loro imprese e lavoratori.

Nella Survey of adult skills, nell’ambito di 22 Paesi Ocse il nostro mercato del lavoro risulta fra quelli con i servizi più inefficaci su questo terreno. Come si è determinata questa situazione?
Questa situazione è il frutto avvelenato di mezzo secolo durante il quale il legislatore e il movimento sindacale si sono occupati esclusivamente della protezione del lavoratore nel rapporto di lavoro, cioè in azienda, trascurando totalmente la protezione del lavoratore nel mercato. Solo ora, in ritardo di trent’anni rispetto ai Paesi del nord-Europa, ci siamo accorti che la sicurezza economica e professionale del lavoratore costruita sull’ingessatura del rapporto di lavoro è illusoria. E abbiamo compiuto l’opzione nel senso della flexsecurity.

Sentiamo da più parti valutazioni secondo cui la crisi economica è passata e la nostra economia ora si trova in una situazione che non sembra sufficiente a far ripartire il Paese, quindi anche il lavoro. Cosa ne pensa?
Che l’inversione della tendenza congiunturale nell’ultimo anno si sia verificata, mi sembra difficilmente contestabile. E un fatto molto positivo, che occorre registrare, è che l’occupazione ha ricominciato a crescere in quasi perfetta coincidenza con il ritorno al segno più nell’andamento generale dell’economia, invece che sei o dodici mesi dopo, come avviene solitamente e come si è visto accadere negli altri Paesi dell’Ocse. Certo, la crescita da noi è ancora molto flebile, insufficiente per recuperare in fretta le perdite di occupazione che abbiamo subito durante la crisi. Dobbiamo sperare che il 2016 sia l’anno del ritorno a una crescita più robusta. Ce ne sono le premesse, ma anche alcune circostanze che potrebbero avere un effetto di freno.

Quali?
Il rallentamento delle economie cinese statunitense e la guerra in Medio Oriente.

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