INTERVISTA SULLA CRISI DEL SISTEMA ITALIANO DELLE RELAZIONI INDUTRIALI

LE RAGIONI DEL DECENTRAMENTO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E QUELLE DEL SUO RITARDO, LE PROSPETTIVE DI UN’AUTORIFORMA INCENTIVATA DAL GOVERNO

Intervista a cura di Rossella Sirtori, per la sua tesi di laurea sull’evoluzione del sistema italiano delle relazioni industriali, intitolata La Confindustria e i sindacati: servono ancora?, Università dell’Insubria, marzo 2016 – In argomento v. anche la mia relazione al convegno di Orvieto del settembre 2015, Contrattazione: le quattro ragioni per una svolta.

 

Professor Ichino, lei ha scritto in tempi non sospetti un libro, A che cosa serve il sindacato?, nel quale proponeva una profonda riforma del sistema delle relazioni industriali. Se dovesse aggiornarlo oggi che quadro presenterebbe?
In quel libro, la cui prima edizione è del 2005, sostenevo due tesi: innanzitutto la necessità di consentire che – in armonia con la svolta compiuta su questo terreno dalla Germania nel 2001 – il contratto collettivo aziendale non soltanto possa derogare, ma possa integralmente sostituire il contratto nazionale; inoltre la necessità di un riconoscimento chiaro della validità della clausola di tregua, cioè della rinuncia inserita in un contratto collettivo a scioperare contro il contratto stesso, fino alla sua scadenza. Appena uscito, quel libro incontrò qualche simpatia soltanto nella Cisl di Savino Pezzotta e nella Uil di Luigi Angeletti, ma non nella Confindustria: fu allora che mi accorsi di quanto la Confindustria fosse ancora arroccata in difesa della centralità e dell’inderogabilità del contratto collettivo nazionale. Quello che davvero non era prevedibile è quanto caro la stessa Confindustria avrebbe pagato questo errore, nel giro di un tempo molto breve.

A che cosa si riferisce?
Soltanto cinque anni dopo la pubblicazione di quel mio libro, nella primavera 2010, proprio sui due punti che ne costituivano la tesi centrale si aprì la vertenza Fiat nello stabilimento di Pomigliano, subito dopo estesa agli stabilimenti di Mirafiori e di Grugliasco: lo scontro fra Sergio Marchionne e la Fiom-Cgil si determinò sulla richiesta di tre deroghe al contratto collettivo nazionale di settore e di un impegno formale di tregua sindacale per tutta la durata dell’accordo. La Cgil qualificò allora quella richiesta come un “attacco ai diritti fondamentali dei lavoratori”; però poi soltanto un anno dopo, nel giugno 2011, la stessa Cgil avrebbe firmato con Cisl e Uil un accordo interconfederale che sostanzialmente legittimava integralmente le richieste della Fiat dell’anno prima. Fatto sta che quell’accordo interconfederale non impedì l’uscita della Fiat dal sistema delle relazioni industriali centrato sui contratti collettivi nazionali firmati da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria: perché quel sistema non si spingeva ad ammettere che l’accordo stipulato con il sindacato da una grande multinazionale come la Fiat potesse sostituirsi in blocco al contratto nazionale. Ecco: una nuova edizione di A che cosa serve il sindacato dovrebbe dar conto di queste vicende; e del ritardo col quale il sistema italiano delle relazioni industriali si sta attrezzando per rispondere alle sfide della globalizzazione: è ancora un sistema troppo chiuso, ispirato a un modello di determinazione centrale degli standard di trattamento dei lavoratori che non funziona più.

Gli ultimi sviluppi su questo fronte non possono, secondo lei, preludere all’eliminazione di questo ritardo?
A dire il vero gli ultimi sviluppi non mi sembrano entusiasmanti. Nell’estate scorsa il Governo aveva posto alle Parti sociali il problema di una riforma del sistema delle relazioni industriali, nel senso dell’istituzione di una relazione più stretta fra le dinamiche della retribuzione e della produttività in azienda, quindi di uno spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia; e aveva chiesto loro un accordo, o quanto meno un avviso comune in proposito. A otto mesi di distanza, non soltanto non si è avuto alcun accordo, né alcun avviso comune delle parti sociali, ma si è registrato a metà gennaio un accordo tra le confederazioni sindacali maggiori che va in direzione opposta a quella indicata dal Governo: Cgil, Cisl e Uil hanno concordato di cambiare qualche cosa nei dettagli, ma hanno sostanzialmente ribadito di non voler rinunciare a un contratto collettivo nazionale “forte”, cioè a un contratto cui intendono continuare ad affidare il compito di determinare la dinamica dei salari in riferimento all’intero territorio del Paese, anche oltre il puro e semplice recupero dell’inflazione. Insomma, sembra aver avuto la meglio lo spirito del gattopardo.

Può spiegare meglio?
In tema di contrattazione aziendale questo documento delle confederazioni sindacali maggiori non innova di una virgola rispetto a quanto già previsto dall’accordo interconfederale del giugno 2011: quell’accordo già prevedeva la derogabilità del contratto nazionale da parte di quello aziendale su tutto quanto non riguardi i minimi retributivi. Ma il nocciolo della questione riguarda proprio quest’ultima materia; e su questa non c’è alcuna indicazione nel senso di un decentramento della contrattazione, in funzione di un nesso più stretto fra produttività e retribuzione. Resta intatta la determinazione dei minimi nazionali in termini di salario nominale; continuano a essere ignorate le rilevanti differenze di potere d’acquisto tra nord e sud del Paese; ma soprattutto viene lasciata intatta la rigida inderogabilità non solo dei minimi fissati e aumentati centralmente, ma anche della struttura della retribuzione, in particolare della ripartizione tra componente fissa, che fa la parte del leone, e componente suscettibile di variare in relazione alla produttività o alla redditività della singola azienda, oggi di entità minima. Su questo piano il documento di Cgil, Cisl e Uil innova davvero poco.

Perché il sistema di determinazione centralizzata degli standard di trattamento, secondo lei, non funziona o funziona male?
Il modello centralistico di determinazione degli standard di trattamento dei lavoratori – che applichiamo a parole, attribuendo valore dominante ai minimi tabellari fissati inderogabilmente da un contratto collettivo nazionale – si fonda in linea di principio sul principio opposto: quello per il quale, quando una azienda non riesce a reggere lo standard di trattamento minimo, è bene che essa chiuda e che ciascuno dei suoi dipendenti migri verso un’azienda più forte, capace di valorizzare meglio il suo lavoro. In Italia questa implicazione fondamentale del sistema di determinazione centralizzata degli standard minimi non è mai entrata veramente a far parte della cultura delle relazioni industriali. Ancor meno siamo disposti ad accettare che, in forza di quel principio, si attivino dei robusti flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord: al punto che ci siamo assuefatti a un Mezzogiorno nel quale metà del tessuto produttivo funziona sotto-standard, quindi al di fuori delle regole stabilite centralmente. Questo significa che nel Mezzogiorno di fatto consentiamo la deroga al contratto nazionale, ma non alla contrattazione aziendale: la ammettiamo solo quando è del tutto fuori-legge, quindi controllata dalla criminalità organizzata. Se così è, logica vuole che ne traiamo le conseguenze, accettando che il contratto nazionale svolga soltanto la funzione di disciplina di default, cioè applicabile nei casi in cui faccia difetto un contratto stipulato a un livello più vicino al luogo di lavoro.

Quale profilo dovrebbe avere un sistema moderno di relazioni sindacali?
Occorrerebbe che i minimi tabellari fossero dei veri “minimi di garanzia”, che quindi venissero determinati non in termini nominali, ma in termini di potere d’acquisto effettivo, quindi differenziati in relazione a un indice regionale del costo della vita; in modo da evitare che si ripeta quello che accade oggi con i minimi tabellari dei contratti nazionali, troppo alti per la Calabria, troppo bassi per la Lombardia. E che tutta la parte restante della retribuzione venisse determinata in relazione all’andamento della redditività o produttività delle singole aziende: il contratto collettivo nazionale potrebbe mettere a disposizione delle imprese del settore due o tre modelli di premio di produzione o di risultato, applicabili là dove la materia non sia oggetto di contrattazione in azienda. Tutta la parte del contratto nazionale diversa dal “minimo di garanzia”, comunque, deve costituire una disciplina applicabile per default là dove non ne sia dettata una diversa a un livello più vicino al luogo di lavoro.

Qual è il perimetro dell’intervento dello Stato, del governo, ammesso che debba esserci?
Si suol dire che in materia di relazioni industriali la regola generale è quella dell’abstention of law, della neutralità dell’autorità statuale. In realtà non è così né nel nostro Paese, né nei principali modelli stranieri cui facciamo più comunemente riferimento. Qui da noi l’ordinamento statale è intervenuto in modo molto incisivo sul sistema delle relazioni industriali con il titolo III dello Statuto dei lavoratori, contenente la disciplina delle rappresentanze sindacali e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro: una disciplina che necessita da tempo un aggiornamento. Ma ancor prima l’ordinamento statale è intervenuto con l’articolo 39 della Costituzione e, a seguito del consolidarsi della sua disapplicazione, con l’orientamento giurisprudenziale che ha determinato l’estensione di fatto erga omnes dell’applicazione dei minimi tabellari dei contratti collettivi nazionali. Credo che oggi l’interferenza dell’ordinamento statale nel sistema delle relazioni industriali non vada aumentata, ma vada aggiustata, corretta nei suoi contenuti.

Come?
Occorre una correzione dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che renda il numero dei membri delle rappresentanze sindacali proporzionale rispetto ai voti conseguiti dalle rispettive associazioni in una consultazione almeno triennale. Occorre anche una norma che recepisca nell’ordinamento statale i criteri di verifica della rappresentatività delle associazioni sindacali fissati dagli accordi interconfederali, con una clausola che consenta, là dove manchi il dato associativo, di fare riferimento al solo dato elettorale. Per il resto, il sistema della contrattazione collettiva deve rimanere libero da interferenze pubbliche. Questo, però, non significa che lo Stato non possa e debba prevedere un salario minimo orario applicabile là dove i contratti collettivi nazionali non riescono ad arrivare per forza propria. E a mio avviso anche questo standard minimo dovrebbe essere stabilito non in termini nominali, ma in termini di potere d’acquisto: per esempio, un valore unico valido per l’intero territorio nazionale, come potrebbe essere quello di sei euro, o sei e mezzo, moltiplicato per un coefficiente determinato dall’Istat in relazione al costo della vita rilevato in ciascuna regione. Questo non costituirebbe un vincolo diretto per i contratti collettivi nazionali, ma servirebbe a orientare la loro negoziazione verso una scelta analoga per la determinazione dei minimi tabellari. Una robusta riduzione del prelievo fiscale sulla parte variabile della retribuzione contribuirebbe poi a incentivare l’autoriforma del sistema della contrattazione.

Che impatto hanno, invece, sulle relazioni sindacali le riforme già fatte?
Sul sistema delle relazioni industriali l’impatto diretto delle riforme fatte nell’ultimo biennio è scarso o nullo, poiché esse hanno riguardato soltanto la disciplina del rapporto individuale di lavoro. Un impatto indiretto, però, c’è e non è di poco conto: il fatto che si sia voltato pagina rispetto a un regime fondato sulla job property come regola generale, per inaugurare un regime ispirato principalmente al principio della flexsecurity, costringe i sindacati ad allargare effettivamente, e non soltanto a parole, la loro constituency a tutto il vasto e variegato mondo del lavoro dipendente, senza più riprodurre nella propria struttura quello stesso apartheid tra stabili e precari che fino a ieri ha caratterizzato il tessuto produttivo e in parte ancora lo caratterizza.

In relazione alla questione dell’articolo 18: quando Amato ne propose l’abolizione non incontrò il favore di tutte le imprese, ma incappò soprattutto nell’ostilità del sindacato, impegnato nella solita battaglia di posizione. Quali furono, se ci furono, a suo parere, gli errori della Confindustria?
L’errore di Confindustria e del Governo, nel 2002-2003, fu di non proporre l’obiettivo ambizioso della flexsecurity, bensì proporre soltanto l’obiettivo della flex senza la security: senza, dunque, la riforma degli ammortizzatori sociali con un drastico rafforzamento del trattamento di disoccupazione e la sua estensione alla totalità dei lavoratori dipendenti; e senza la riforma dei servizi per l’impiego e più in generale del sistema delle politiche attive del lavoro.

Un’ultima domanda: come si spiega la rilevanza che Confindustria ha sempre avuto come interlocutore privilegiato tra tutte le altre associazioni datoriali nei rapporti con il sindacato ma anche con i governi e in generale con i poteri forti?
Alla fine degli anni ’50 il nostro tessuto produttivo era costituito per circa due terzi dall’industria, e solo per il terzo restante da terziario, servizi e agricoltura. E la grande impresa era tipicamente, se non esclusivamente, un’impresa del settore industriale. Alla fine del secolo scorso il rapporto quantitativo si è invertito; ma questo è accaduto anche per effetto dell’esternalizzazione da parte delle grandi imprese di numerose attività appartenenti al settore dei servizi e a quello dell’economia immateriale. Sta di fatto, comunque, che Confindustria ha ampliato l’area rappresentata per ricomprendervi questi ultimi settori. Sull’altro versante, invece, la Confcommercio si è sempre caratterizzata soprattutto come associazione di imprese di dimensioni piccole o medie; e ultimamente ha addirittura perso la rappresentanza della grande distribuzione. Questo può forse spiegare la sua minore influenza come interlocutore del Governo e delle confederazioni sindacali maggiori, quando si è trattato di discutere di temi di interesse generale.

 

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