NON È AFFATTO UNA “RIPRESA SENZA LAVORO”

I DUE ECONOMISTI CONSIGLIERI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO RISPONDONO PUNTUALMENTE, DATI ALLA MANO, ALLA TESI DI LUCA RICOLFI SECONDO CUI NEL CORSO DEL 2015 NON SI SAREBBE VERIFICATO NÉ UN AUMENTO DELL’OCCUPAZIONE NÉ UNA RIDUZIONE DEL LAVORO PRECARIO

Articolo di Marco Leonardi, Professore di economia dell’Università statale di Milano, consigliere Economico della Presidenza del Consiglio, e Tommaso Nannicini, professore di economia dell’Università Bocconi, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 febbraio 2016 – In argomento v. anche La terapia d’urto per rimettere in moto un mercato del lavoro infartuato

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Nel suo articolo di domenica sul Sole24Ore, Luca Ricolfi affronta uno degli argomenti più appetitosi degli ultimi mesi, per i media e per gli economisti: il Jobs Act (inteso come il combinato disposto di decontribuzione e contratto a tutele crescenti) sta producendo effetti positivi sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato? La risposta di Ricolfi si articola in due parti: la prima sostiene che il Jobs Act non avrebbe ridotto il peso dell’occupazione precaria (in termini relativi) e la seconda che la spinta ai contratti stabili (in termini assoluti) è stata comunque bassa a causa di una ripresa economica ancora lenta.

La prima parte dell’argomentazione di Ricolfi contiene un’imprecisione, laddove si sostiene che nel 2015 “il numero di rapporti di lavoro a tempo indeterminato cessati ha ampiamente superato il numero di rapporti di lavoro attivati, mentre il contrario è accaduto per i rapporti di lavoro temporanei”. E che, di conseguenza, non ci sarebbe nessuna discrepanza tra dati amministrativi (Inps) e rilevazioni statistiche (Istat): entrambi mostrerebbero che il peso dell’occupazione precaria nell’economia non si sta riducendo. In verità, non è così. A quanto pare, Ricolfi dimentica di sommare le trasformazioni (da contratti temporanei a contratti stabili) alle nuove assunzioni per poi calcolare le assunzioni nette. Ma è chiaro che le trasformazioni sono una componente chiave, dato che la maggior parte dei datori prima assume a tempo determinato e poi trasforma.

I dati dell’Inps, che sono i più adatti a valutare i risultati del Jobs Act in quanto registrano il numero dei contratti aperti e cancellati dai datori che devono obbligatoriamente pagare i contributi, registrano un forte aumento delle assunzioni nette a tempo indeterminato (perché, appunto, le cessazioni sono inferiori alla somma di assunzioni e trasformazioni). Dal gennaio al novembre 2015 (ultimo mese disponibile), le assunzioni stabili nette sono state 584.163, contro le 73.871 nello stesso periodo del 2014 e le 152.646 del 2013. Si tratta di un aumento enorme del saldo netto, che quasi quadruplica nel 2015 rispetto al 2013. Lo stesso non si può dire per il saldo netto delle assunzioni a tempo determinato (attivazioni meno cessazioni): 521.724 nel 2015, 546.683 nel 2014 (l’anno del decreto Poletti), 474.695 nel 2013. Questa volta il saldo addirittura diminuisce nel 2015 (di 24.959 unità nette) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Ma c’è di più. I dati Inps mostrano anche un cambiamento strutturale nella dinamica mensile delle assunzioni a tempo indeterminato. Mentre nel 2013 e nel 2014 la quasi totalità del saldo netto era spiegata dai mesi di gennaio e febbraio, nel 2015 il 76% del saldo positivo è spiegato dalla dinamica delle assunzioni stabili da marzo a novembre (quando non solo l’esonero contributivo ma anche il contratto a tutele crescenti era operativo). E sempre i dati Inps ci dicono che quasi la metà delle nuove assunzioni a tempo indeterminato nel 2015 (il 43% per la precisione) è avvenuta senza esonero contributivo. È presto per valutare il peso della decontribuzione rispetto alla semplificazione normativa del Jobs Act, ma la dinamica dei contratti ci dice che difficilmente la prima può spiegare da sola questo cambiamento nelle strategie di assunzione delle imprese.

I dati Istat, invece, registrano un aumento di 214.000 occupati a tempo indeterminato nel corso del 2015 (+1,47%) e un aumento degli occupati a tempo determinato di 85.000 unità (+3,75%). Di conseguenza, l’incidenza del tempo determinato sull’occupazione dipendente totale è aumentata leggermente (dal 13,5% del dicembre 2014 al 13,7% del dicembre 2015). Questo aumento non è dovuto al calo del tasso di attività, bensì a un aumento dei lavoratori a termine relativamente maggiore rispetto all’aumento dei lavoratori a tempo indeterminato. Anche nei dati Istat, inoltre, l’inversione di tendenza è forte e chiara rispetto all’obiettivo conclamato del Jobs Act di favorire le stabilizzazioni: gli occupati permanenti erano calati di 187.000 unità nel 2013 e di 20.000 nel 2014, sono invece cresciuti di 214.000 nel 2015. L’aumento degli occupati temporanei è invece in rallentamento nel 2015 rispetto al 2014, anche se resta positivo (si veda la tabella allegata).

I dati Inps e Istat non danno quindi risultati coincidenti sul peso dell’occupazione precaria, ma l’enigma si può spiegare con il fatto che l’Inps registra contratti, mentre l’Istat registra lavoratori: i contratti a termine sono diventati di meno, ma i lavoratori a termine sono diventati leggermente di più, sempre in termini relativi. Questo può essere spiegato dal fatto che i contratti temporanei sono diventati più lunghi per effetto delle proroghe previste dal decreto Poletti. Può essere anche spiegato dallo sfasamento temporale dei dati Istat (tradizionalmente le indagini campionarie registrano i mutamenti non in tempo reale ma con un ritardo che può essere anche lungo) o dall’utilizzo di tecniche come la stagionalità (che differenziano i dati Istat da quelli Inps). Un supplemento di indagine sarebbe senz’altro opportuno e l’Istat ha già istituito un gruppo di lavoro per spiegare le differenze che emergono dai due tipi di dati nel breve periodo.

Per quanto riguarda la seconda argomentazione di Ricolfi siamo d’accordo: c’è stato un calo sostanziale nel numero dei lavoratori autonomi e la ripresa complessiva dell’occupazione è ancora contenuta. Ricordiamoci, però, che il Jobs Act non è solo il contratto a tutele crescenti, ma anche la “stretta” sulle partite Iva fasulle e sui contratti cocopro. È quindi plausibile che vi sia stato un travaso dalle partite Iva ai contratti a tempo indeterminato (anche questo tutto da valutare sulla base di dati al momento non disponibili). Il Jobs Act non è mai stato pensato per creare occupazione attraverso l’ingegneria dei contratti di lavoro. Piuttosto, è stato pensato per accompagnare la ripresa occupazionale quando quella economica si fosse rimessa in moto. E i dati ci dicono che, nonostante il vasto numero di cassaintegrati che da qualche mese sono riassorbiti nell’occupazione e inevitabilmente rallentano l’assunzione di nuovi lavoratori, la ripresa attuale non è di sicuro “jobless”. Il Jobs Act è stato pensato anche per combattere il dualismo del nostro mercato del lavoro. E i dati ci dicono che l’inversione di tendenza c’è stata ed è forte.

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