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LA NOTIZIA
Una condanna definitiva per corruzione, truffa aggravata e tentata violenza privata non basta a giustificare il licenziamento di un dipendente pubblico. Lo sostiene il giudice che ha reintegrato il lavoratore, sostenendo che il cambio di mansioni salva il rapporto di fiducia.
La vicenda si svolge in Trentino e ha come protagonista Silvano Grisenti, un importante politico molto vicino al deputato Lorenzo Dellai che ha affiancato in una carriera ventennale, prima nella Dc poi nella Margherita e infine in un autonomo partito autonomista. Consigliere e assessore comunale, consigliere e assessore provinciale grazie a 11 mila preferenze, nel 2007 Grisenti viene nominato presidente dell’Autobrennero, ricca società a controllo pubblico. Un anno dopo, quando si dimette per un’indagine giudiziaria, torna al suo originario posto di lavoro in Regione.
Passano gli anni e, mentre si svolgono i processi, Grisenti continua a lavorare in Regione. Ma non molla la politica. Nel 2012 viene rieletto in Consiglio provinciale, rimettendosi in aspettativa dal suo posto in Regione. Ma nel 2015 la sentenza definitiva della Cassazione lo giudica colpevole di tre reati. Corruzione per aver chiesto e ottenuto da un imprenditore la promessa di un incarico per il fratello ingegnere; tentata violenza privata per aver provato a costringere una coop a rinunciare a un ricorso al Tar che avrebbe penalizzato l’Autobrennero, minacciando in caso contrario conseguenze negative su altri appalti; truffa per aver organizzato e pagato con la carta di credito aziendale «pranzi di natura politica» con «esponenti del suo partito» spacciandoli per incontri di rappresentanza, per circa mille euro.
Grisenti viene condannato a un anno di reclusione. Ricevuta notizia, il Consiglio provinciale delibera la sua decadenza dalla carica elettiva, come prevede la legge Severino. Grisenti torna a lavorare ma per poco, perché la Regione lo licenzia. Grisenti, che si è sempre professato innocente, ricorre al giudice del lavoro. E ottiene ragione. Sostiene il giudice Giorgio Flaim che la condanna penale riguarda un periodo in cui Grisenti era «presidente di una Spa e non poteva dirsi pubblico impiegato» (ma omette di ricordare che la Autobrennero Spa è a controllo pubblico – 83% -, la Regione ne è prima azionista – 32% – e ne nomina i vertici). Né si può sostenere, dice il giudice, che la condanna per quei reati contro la pubblica amministrazione sia sufficiente a far venire meno il rapporto di fiducia tra pubblica amministrazione e dipendente. Fu corrotto e truffatore, ma difficilmente lo sarà in futuro. Le sue nuove mansioni (controllo di regolarità su associazioni impegnate in progetti internazionali) sono diverse da quelle che lo fecero cadere in tentazione. Non avendo poteri di rappresentanza della Regione, «verosimilmente mai si troverà a gestire in prima persona i contatti diretti con imprese appaltatrici o con esponenti di altre istituzioni. Ed essendo sprovvisto di poteri di spesa, verosimilmente mai si troverà a poter chiedere rimborsi all’ente datore per spese assunte nell’ambito di iniziative da lui stesso promosse».
Invano obietta la Regione che «non è possibile ridurre a bagatella la condanna definitiva per alcuni reati particolarmente gravi. «La giusta causa di licenziamento è radicalmente insussistente», conclude il giudice condannando la Regione a reintegrare Grisenti nel suo posto, oltre a versare un risarcimento pari a un anno di stipendio più contributi previdenziali e interessi.
UN MIO BREVE COMMENTO
La sentenza di cui Giuseppe Selvaggiulo dà conto sul quotidiano la Stampa si pone in perfetta continuità con quelle riportate nella piccola “antologia dell’articolo 18” proposta nel primo capitolo del mio libro Il lavoro ritrovato (dove abbondano i casi di lavoratori che vengono reintegrati nel posto di lavoro dopo aver commesso illeciti gravi, anche di rilievo penale, sulla base della sola osservazione che “si era trattato solo della prima volta”). Questa stessa sentenza, mostrando quanto quell’orientamento giurisprudenziale sia radicato e persistente, costituisce un ottimo motivo per la scelta di non toccare la nuova disciplina dei licenziamenti dettata dal d.lgs. n. 23/2015, che volta pagina rispetto al vecchio regime di job property: per la scelta, cioè, di lasciare che questa nuova disciplina continui ad applicarsi almeno ai rapporti di impiego pubblico costituiti dopo il marzo 2015, senza mettere in cantiere interventi legislativi volti a ripristinare anche per questi nuovi rapporti l’applicazione della vecchia disciplina della reintegrazione. La Costituzione dice che il cittadino chiamato a ricoprire una funzione pubblica deve svolgerla “con disciplina e onore” (articolo 54): il regime della reintegrazione prevista dall’articolo 18 St.lav., combinato con l’orientamento giurisprudenziale diffuso che teorizza la possibilità di tenere comportamenti disonorevoli purché per una volta sola, costituisce l’attentato più grave all’effettività di quella norma costituzionale. (p.i.)
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