IL SIGNIFICATO DEL FORTE AUMENTO DELLE ASSUNZIONI STABILI, MA ANCHE DEL LAVORO ACCESSORIO: UN MERCATO PIÙ FLUIDO E PIÙ RICCO DI OPPORTUNITÀ, DAL QUALE IL LAVORATORE ATTINGE LIBERTÀ DI SCELTA E QUINDI ANCHE FORZA CONTRATTUALE
Testo integrale di un’intervista a cura di Antonella Lanfrit, pubblicata (con alcuni tagli per ragioni di spazio) sul Gazzettino del Friuli Venezia Giulia il 25 gennaio 2016, in occasione di una mia conferenza a Udine.
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Professor Ichino, lei arriva in Friuli Venezia Giulia dove nel 2015 si è avuto l’87% in più di contratti a tempo indeterminato rispetto al 2014. Tuttavia, tra i nuovi avvii a tempo indeterminato e la cessazione della stessa tipologia di contratti nello stesso periodo si è registrato un saldo negativo di -1.045 unità. I contratti a tempo determinato restano la maggioranza e aumentano del 2,5%. In questo scenario, localmente si può parlare di Lavoro ritrovato?
Certo che sì.
Perché?
Perché proprio il primo dato da lei citato dà la misura di un mercato del lavoro fluido e dinamico, nel quale le persone si muovono con facilità. Dunque non un “buco nero”, un luogo di perdizione, ma il luogo dal quale il lavoratore attinge la propria forza contrattuale. Perché il lavoratore è forte quando può scegliere dove lavorare. La grande maggioranza delle cessazioni di contratti a tempo indeterminato è costituita da dimissioni, cioè casi in cui è la persona interessata a scegliere di cambiare lavoro. E l’87 per cento in più di nuovi contratti a tempo indeterminato significa che si è quasi raddoppiata la possibilità di trovare un nuovo lavoro stabile.
Si può considerare stabile anche un rapporto “a tutele crescenti”?
Guardi che in tutto il resto d’Europa “stabile” non ha mai significato “ingessato”. Stabile è un rapporto il cui programma contrattuale non è asfittico, non è limitato a tre o sei mesi, o se va bene a un anno, come i contratti a termine e le collaborazioni autonome a cui ci siamo tristemente abituati, ma guarda a un orizzonte più lontano. Sul presupposto che le cose vadano bene: la stabilità non può implicare che il rapporto debba sopravvivere artificialmente anche se le cose dovessero andare male.
Gli ultimi dati Inps rilevano che in Fvg l’utilizzo dei voucher è cresciuto del 40% (in Italia del 67,5%). L’assessore regionale al Lavoro Loredana Panariti ha detto: “È tanto e non va bene. Serve una norma nazionale per ricondurli all’utilizzo per cui erano nati”. Lei come interpreta questa crescita esponenziale? Inevitabile? Fa parte della necessaria flessibilità o occorre davvero rimetterci mano dal punto di vista legislativo?
Che l’utilizzo dei buoni per il “lavoro accessorio” aumentasse era proprio nelle intenzioni del legislatore. E il fatto che questo sia avvenuto conferma che abbiamo voltato pagina rispetto a una lunga stagione della legislazione del lavoro italiana, nella quale i risultati pratici delle misure adottate si misurava in termini di zero virgola. Variazioni misurate a due cifre significano che finalmente le nostre politiche del lavoro sono efficaci. Si può, ovviamente, dissentire dall’obiettivo che il Governo si è proposto, ampliando la possibilità di ricorso al lavoro accessorio; ma chi critica ha l’onere di dimostrare che questo aumento sia un male, cioè che il lavoro accessorio sta sostituendo lavoro stabile. Abbiamo invece l’evidenza opposta.
In quali situazioni lo sviluppo del lavoro accessorio può considerarsi un fatto positivo?
La norma lo consente con una certa larghezza – cioè fino a una retribuzione annua massima complessiva del singolo lavoratore di 7.000 euro – quando a usufruirne siano le famiglie; il limite di retribuzione complessiva annua si riduce drasticamente – a 2.000 euro – quando a usufruirne siano le imprese o gli studi professionali. Se il lavoro accessorio aumenta rispettando questi limiti, il fenomeno è positivo, perché significa che si riducono gli ostacoli al lavoro cosiddetto “interstiziale” e aumentano le occasioni di produzione di reddito in forma regolare per la forza-lavoro marginale e a bassa professionalità. Diverso, ovviamente, sarebbe il discorso se questi limiti fossero stati aggirati. Ma occorre dimostrare che questo sia accaduto.
Ai tanti che, giovani e meno giovani, oggi vorrebbero dire addio alla precarietà quali indicazioni possibili per imparare a “usare il mercato per salvarsi dalla precarietà”?
Innanzitutto occorre conoscere analiticamente il mercato, le occasioni che esso offre, le situazioni di skill shortage e gli strumenti per accedervi…
Skill shortage? Traduca.
Significa posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza di manodopera che abbia capacità adeguate. Per darle un’idea, si valuta che solo in Veneto ce ne siano almeno 50.000.
Torniamo a quel che dovrebbero fare i giovani.
Dovrebbero, innanzitutto, elevare una protesta forte contro il difetto grave di un servizio di orientamento scolastico e professionale degno di questo nome; e contro il fatto che in Italia manchi quasi del tutto l’informazione sul tasso di coerenza tra formazione impartita da ciascun istituto scolastico, centro di formazione o facoltà universitaria e sbocchi occupazionali effettivi. Questa è l’informazione indispensabile se non si vuol fare le scelte decisive per il proprio futuro con la testa nel sacco.
Dopo un anno di Jobs Act si comincia a tirare qualche somma. Quali sono gli errori da non commettere nella valutazione della riforma?
In realtà sono passati solo dieci mesi dall’entrata in vigore dei primi due decreti, sette dall’entrata in vigore di altri due, e quattro mesi dall’entrata in vigore degli ultimi: un periodo davvero troppo breve per consentire una valutazione seria dell’impatto della riforma sui comportamenti degli imprenditori – soprattutto di quelli stranieri –, dei lavoratori e dei consumatori. Tuttavia due dati appaiono evidenti: il primo è che la nuova disciplina del rapporto di lavoro e del suo scioglimento, combinata con l’incentivo economico, ha prodotto l’aumento fortissimo delle assunzioni a tempo indeterminato di cui abbiamo parlato all’inizio.
Con il rischio, però, che si ritorni indietro quando l’incentivo economico cesserà.
La combinazione delle due misure era indispensabile per dare uno shock positivo a un mercato del lavoro letteralmente infartuato dalla crisi: un po’ come si fa con il defibrillatore per le persone colpite da infarto cardiaco. La speranza è che poi tutto il sistema si riassesti su di un equilibrio nuovo rispetto ai decenni passati. Non dimentichiamo che negli anni ’60, prima dell’articolo 18, le assunzioni a tempo indeterminato erano circa i due terzi del flusso dei nuovi contratti di lavoro; nell’ultimo anno prima della riforma, il 2014, si erano ridotte a un sesto.
L’altro dato a cui accennava, riguardo agli effetti della riforma?
In tutti gli altri Paesi occidentali l’aumento dell’occupazione è venuto dai sei ai dodici mesi dopo l’inversione del trend congiunturale, cioè il ritorno alla crescita del PIL; in Italia, invece, le due inversioni di tendenza sono venute in coincidenza quasi perfetta tra loro. Questo, probabilmente, è effetto proprio delle misure di politica del lavoro adottate dal nostro Governo.
Sul provvedimento per il licenziamento rapido nelle amministrazioni pubbliche non sono mancati giudizi severi: “le regole c’erano già, è solo propaganda”. Qual è il suo giudizio?
Non è solo propaganda: questa misura servirà a sbloccare e accelerare i provvedimenti disciplinari relativi ai casi più gravi di assenteismo fraudolento. Non bisogna, però, cadere nell’errore di pensare che in questo modo il problema sia compiutamente risolto. Nel settore pubblico il tasso di assenze dal lavoro è più che doppio rispetto al settore privato; e a fare la differenza i casi di assenteismo fraudolento contribuiscono solo per una parte minima.
E come si affronta tutto il resto del problema?
Lo si affronta e risolve con una responsabilizzazione forte della dirigenza pubblica rispetto a obiettivi precisi e misurabili di efficienza ed efficacia dei servizi, in modo da costringerla a recuperare ed esercitare incisivamente le proprie prerogative manageriali. Che non sono solo il potere disciplinare, ma anche quello organizzativo, quello direttivo e la funzione di motivazione dei dipendenti. Questa è la parte della riforma che deve venire con la seconda mandata dei decreti attuativi della legge-delega varata l’anno scorso.