CON LA RIFORMA I CONTRATTI A TEMPO INDETERMINATO SONO CRESCIUTI IN MODO NETTO, MA È CRESCIUTA MENO L’OCCUPAZIONE COMPLESSIVA – QUESTO PUÒ PORTARE CON SÉ BENEFICI SU PRODUTTIVITÀ E CRESCITA, MA LA SCOMMESSA DI FARE DEL LAVORO STABILE LA FORMA NORMALE DI ASSUNZIONE NON È ANCORA VINTA
Articolo pubblicato sul sito lavoce.info sotto lo pseudonimo Tortuga il 22 gennaio 2016.
Il governo continua a sbandierare i successi del Jobs Act, e addirittura la Cgil ha ammesso che punterebbe ad abolire solo alcuni punti del provvedimento e non la riforma del lavoro nella sua interezza. Tuttavia, sul fact-checking sulla legge c’è molta confusione. Quali aspetti del mondo del lavoro il Jobs Act mira a cambiare? Quali sono i dati da considerare, i risultati da aspettarsi e le conclusioni da trarne?
Cosa dicono i numeri
Per capire cosa è effettivamente cambiato è utile considerare due aspetti: l’andamento delle assunzioni/licenziamenti (i cosiddetti flussi), e i livelli di occupazione, ossia quante persone lavorano o cercano lavoro (i cosiddetti stock). L’osservatorio Inps sul precariato ha pubblicato ieri i nuovi dati sulle assunzioni/licenziamenti. Come spiega Pietro Garibaldi, questi dati sono attendibili e completi, visto che l’Inps riporta direttamente i numeri dei contributi fiscali che riceve dai datori di lavoro. La linea blu riporta la somma delle nuove assunzioni a tempo indeterminato e delle trasformazioni, meno i licenziamenti. In altre parole, rappresenta quanti nuovi contratti a tempo indeterminato sono stati firmati, meno quelli che sono stati stracciati, nei dodici mesi precedenti.
Grafico 1 – attivazioni e trasformazioni, al netto delle cessazioni (saldo tendenziale)
Il trend è evidente: da febbraio 2015 si registra un’impennata del numero di nuovi contratti a tempo indeterminato, mentre quelli a tempo determinato e apprendistato diminuiscono. L’introduzione delle tutele crescenti e soprattutto della decontribuzione fiscale sulle nuove assunzioni stabili sembra abbia spinto finalmente i datori di lavoro ad utilizzare il tempo indeterminato.
Il secondo dato è invece fornito dall’Istat, nell’indagine mensile su occupati e disoccupati. Se prima si parlava di nuovi contratti, in questo caso si stima tramite campionamento il numero di persone che lavorano (gli occupati), quelle “attive” (la forza lavoro totale, ossia occupati e disoccupati) e quelle inattive (né occupati, né in cerca di lavoro). La percentuale di occupati rispetto al totale della popolazione cresce da dicembre 2014, tuttavia da metà 2015 diminuisce la percentuale di attivi. Questo significa che solo alcuni dei milioni di disoccupati della crisi sono tornati a lavorare, mentre gli altri si sono ritirati dalla forza lavoro. I posti di lavoro sono quindi aumentati solo lievemente, un aumento non per forza dovuto direttamente al Jobs act, ma che potrebbe essere legato alla congiuntura economica e ad altri fattori esterni, per esempio il basso prezzo del petrolio.
Grafico 2 – tasso di occupazione
Quindi, il risultato principale della coppia Jobs act-decontribuzione è per il momento una massiccia virata sul tempo indeterminato, piuttosto che un boom di posti di lavoro. Un risultato sufficiente? Se il tempo indeterminato rimarrà la forma contrattuale centrale nei prossimi anni, le conseguenze positive su occupazione, produttività e crescita potrebbero effettivamente arrivare. Il contratto a tempo indeterminato potrebbe favorire, per esempio, l’investimento nella formazione del lavoratore oltre che consentire una maggiore stabilità economica alle famiglie.
Gli effetti del Jobs Act nel lungo periodo
Dall’altro lato, bisogna tenere a mente che il tempo indeterminato che vediamo crescere nelle statistiche non è più quello di Checco Zalone. Infatti, con le nuove tutele crescenti, il rischio è che, allo scadere dei tre anni di decontribuzione, quando il tempo indeterminato diventerà di nuovo costoso per i datori di lavoro, le aziende tornino ad assumere a tempo determinato, liberandosi dei contratti a tempo indeterminato prima che le tutele “crescano” troppo.
Bisogna inoltre tenere a mente che, secondo i sostenitori del Jobs act, l’aumento delle assunzioni e delle cessazioni evidenziato dai dati rappresenterebbe un passo verso un sistema in cui il lavoratore può essere assunto e licenziato più facilmente, sulla scorta di ammortizzatori sociali rinforzati e delle cosiddette politiche attive. Le misure in merito contenute nel Jobs Act, anche secondo alcune analisi Ocse, potrebbero favorire un aumento dei livelli di produttività e di occupazione nel lungo periodo.
Per un giudizio completo, quindi, bisogna ancora una volta aspettare i prossimi dati. Per il momento possiamo prevedere una nuova impennata dei contratti a tempo indeterminato nel mese di dicembre, l’ultimo mese utile per usufruire della decontribuzione piena. Di lì al 2018, con la progressiva uscita di scena degli incentivi sui nuovi assunti che già da gennaio scenderanno al 40 per cento, capiremo se la nostra economia sta effettivamente scommettendo sul tempo indeterminato, o se siamo di fronte a una bolla dovuta esclusivamente agli sgravi fiscali. La speranza del governo è che la ripresa si rinforzi nel frattempo, permettendo di consolidare i nuovi posti di lavoro, e magari di mantenere conveniente dal punto di vista fiscale il lavoro a tempo indeterminato. L’aumento dei nuovi contratti a tempo indeterminato è quindi un buon segno ma, più che cedere ai trionfalismi, bisognerebbe tenere alta la guardia: la scommessa sulla ripresa e sul riportare il lavoro stabile al centro deve ancora essere vinta.