SUI LICENZIAMENTI NEL SETTORE PUBBLICO NON OCCORRE DISCOSTARSI DALLA DISCIPLINA GENERALE, MA, PER UN VERSO, ELIMINARE GLI OSTACOLI CHE DISSUADONO I DIRIGENTI DAL FARE IL LORO DOVERE, PER ALTRO VERSO MOTIVARLI ROBUSTAMENTE A ESERCITARE LE LORO PREROGATIVE MANAGERIALI, DOVE OPPORTUNO IN FORMA COLLEGIALE
Testo integrale della dichiarazione rilasciata a Roberto Mania, ripresa con qualche taglio, per motivi di spazio, in un servizio pubblicato su la Repubblica il 17 gennaio 2016 – In argomento v. anche la mia dichiarazione pubblicata da la Stampa il giorno precedente: Nel settore pubblico occorre responsabilizzare i dirigenti
Nel settore privato il tasso delle assenze dei dipendenti si colloca mediamente tra il 4 e il 5 per cento. Nel settore pubblico italiano tra il 12 e il 15 per cento. E non si può sostenere che il lavoro pubblico sia più usurante o malsano di quello privato. Per risolvere un problema di questa entità, evidentemente, non basta una norma “spot” contro l’assenteismo fraudolento, ma occorre soprattutto responsabilizzare in modo preciso i dirigenti sull’obbiettivo di ridurre il tasso delle assenze al livello del settore privato: un obiettivo preciso, realistico, facilmente misurabile, che deve essere perseguito non soltanto col punire i casi più clamorosi di frode, ma anche col motivare tutti i dipendenti a far bene il loro lavoro. La regola da porre è semmai questa: se l’obiettivo non viene raggiunto almeno per metà nel primo anno e per l’altra metà entro il secondo, il dirigente viene rimosso. Come è già previsto dall’articolo 21 del testo unico del 2001. Se questa norma non è mai stata applicata, in 14 anni, è perché non vengono mai fissati ai dirigenti degli obiettivi precisi, realistici e facilmente misurabili. Del resto, non è mai stata applicata neppure un’altra norma del testo unico del 2001, contenuta nell’articolo 33, che prevede l’obbligo per i dirigenti di rilevare le eccedenze di organico e risolverle con una apposita procedura di mobilità d’ufficio.
Vero è che l’inerzia dei dirigenti in materia di licenziamento disciplinare è motivata anche dal rischio di vedersi addebitare, nel caso di soccombenza nel giudizio sul licenziamento, il “danno erariale” conseguente alla condanna dell’amministrazione al risarcimento del dipendente. Si può e deve eliminare questo rischio, con una norma che esenti esplicitamente, in questo caso, il dirigente dal risarcimento del danno erariale, salvo il caso di dolo o colpa grave. Ma se il dirigente non è responsabilizzato su obiettivi precisi e misurabili di efficienza ed efficacia, che oggi possono essere opportunamente stabiliti in tutti i settori delle amministrazioni e in riferimento a numerosi aspetti del servizio, non c’è riforma legislativa che possa indurlo a esercitare le proprie prerogative manageriali nei confronti dei dipendenti.
In altre parole, sui licenziamenti nel settore pubblico non occorre modificare la disciplina generale applicabile, ma, per un verso, eliminare gli ostacoli e i disincentivi che dissuadono i dirigenti dal fare il loro dovere (tra i quali anche alcune disposizioni dei contratti collettivi, che attribuiscono di fatto un potere di veto al sindacato), per altro verso motivarli robustamente a esercitare i poteri organizzativo e disciplinare per conseguire i risultati cui è legato l’incarico dirigenziale.
Per il licenziamento disciplinare può essere opportuna una disposizione sulla governance interna alle amministrazioni, che – sul modello di quanto accade nei public bodies anglosassoni – attribuisca al capo di ciascun ufficio la funzione di promuovere il procedimento disciplinare, e a un organo collegiale composto da tre dirigenti la funzione di decidere il provvedimento, in modo da assicurare al dipendente un giudizio imparziale e scevro da personalismi. Ma per il resto è bene che la disciplina applicabile al licenziamento, come al procedimento disciplinare, sia quella dettata per la generalità dei rapporti di lavoro, come è già previsto dal testo unico per l’impiego pubblico del 2001.