CONTRATTAZIONE E RAPPRESENTANZA: CONFEDERAZIONI ANCORA IN GRAN RITARDO

NELL’IPOTESI DI INTESA TRA CGIL CISL E UIL SULLA RIFORMA DEL SISTEMA CONTRATTUALE SEMBRA PREVALERE NETTAMENTE LO SPIRITO DEL GATTOPARDO: LA QUESTIONE CRUCIALE DEL COLLEGAMENTO STRETTO FRA RETRIBUZIONE E PRODUTTIVITA’ AZIENDALE VIENE SOSTANZIALMENTE ELUSA

Commento all’ipotesi di intesa Cgil-Cisl-Uil di cui ha dato notizia il Corriere della Sera il 6 gennaio 2016, ripreso dal quotidiano il Foglio il giorno successivo .

Se i termini dell’accordo fra le tre confederazioni sindacali maggiori saranno quelli delineati oggi dal Corriere della Sera, sarà il segno che su questo versante del sistema italiano delle relazioni industriali lo spirito del gattopardo ha avuto la meglio. In tema di contrattazione aziendale non si innova di una virgola rispetto a quanto già previsto dall’accordo interconfederale del giugno 2011: quell’accordo già prevede la derogabilità del contratto nazionale da parte di quello aziendale su tutto quanto non riguardi i minimi retributivi. Ma il nocciolo della questione riguarda proprio quest’ultima materia; e su questa la sola novità sarebbe la sostituzione, come riferimento per la determinazione dei minimi al livello nazionale, dell’indice di inflazione programmata con l’aumento del PIL. Resterebbe intatta la determinazione dei minimi in termini di salario nominale, e continuerebbero a essere ignorate le rilevanti differenze di potere d’acquisto tra nord e sud del Paese; inoltre, a quanto è dato capire, qui si parla di PIL nazionale, cioè ancora di un indice unico per nord, centro e sud, che non tiene in alcun conto le grandi differenze tra le diverse regioni; ma soprattutto verrebbe lasciata intatta la rigida inderogabilità non solo dei minimi fissati e aumentati centralmente, ma anche della struttura della retribuzione, in particolare della ripartizione tra componente fissa, che fa la parte del leone, e componente suscettibile di variare in relazione alla produttività o alla redditività della singola azienda, oggi di entità minima.

Insomma, se la questione è quella di un collegamento molto più stretto fra retribuzione e produttività, occorre privilegiare, pur con le indispensabili garanzie, la determinazione dei salari in relazione alla produttività e redditività effettiva della singola impresa. Su questo piano l’ipotesi di accordo di cui parla il Corriere della Sera innova davvero poco.

La valutazione della proposta sarebbe molto diversa se la dinamica dei minimi tabellari venisse legata al PIL regionale, e venisse comunque consentita la negoziazione di una disciplina sostitutiva al livello aziendale; come accade nella RFT dal 2002, soprattutto in funzione dello sviluppo delle zone depresse della Germania orientale. Certo, questo presuppone regole chiare e facilmente applicabili circa i requisiti di rappresentatività maggioritaria della coalizione sindacale abilitata a negoziare in azienda, in deroga rispetto al contratto nazionale. Il contratto nazionale, a quel punto, resterebbe la fonte della disciplina applicabile per default là dove non ne sia dettata una diversa a un livello più vicino al luogo di lavoro. E sarebbe necessario un meccanismo di determinazione e aggiornamento in via amministrativa del salario minimo orario al di sotto del quale non si può comunque scendere. Meglio se determinato in termini di potere d’acquisto effettivo, in modo da evitare che si ripeta quello che accade oggi con i minimi tabellari dei contratti nazionali: troppo alti per la Calabria, troppo bassi per la Lombardia.

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