LA PROPOSTA DEI NOVE GIUSLAVORISTI DEL GRUPPO “FRECCIA ROSSA” RECA L’IMPRONTA TECNICA MAGISTRALE DEGLI AUTORI, MA PRESENTA LA STESSA CONTRADDIZIONE INTERNA CHE FECE ARENARE IL PROGETTO GASPERONI NEL 1998; E CONTIENE UNA DISCIPLINA TROPPO CONSERVATRICE DEL RAPPORTO TRA CONTRATTO AZIENDALE E CCNL
Testo del progetto di legge, con la relazione illustrativa, elaborato dai professori Bruno Caruso (Catania), Raffaele De Luca Tamajo (Napoli), Riccardo Del Punta (Firenze), Marco Marazza (Roma), Arturo Maresca (Roma), Adalberto Perulli (Venezia), Roberto Romei (Roma), Franco Scarpelli (Milano), Valerio Speziale (Pescara) e reso pubblico il 15 dicembre 2015 – Segue un mio primo commento a caldo
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UN MIO COMMENTO A CALDO AL PROGETTO DI LEGGE
Sommario
1. La questione cruciale del rapporto tra organismo di rappresentanza e sindacato
2. Perché nella seconda metà degli anni ’90 il disegno di legge Gasperoni si arenò
3. Un paradosso del nostro sistema delle relazioni industriali
4. Una proposta per uscirne
5. Il paradosso si ripresenta nella nuova proposta in esame
6. La questione degli indici di rappresentatività e quella della derogabilità del Ccnl
7. La questione della sostituibilità del contratto nazionale da parte del contratto aziendale
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1. La questione cruciale del rapporto tra organismo di rappresentanza e sindacato
In materia di rappresentanze sindacali aziendali una prima questione cruciale è essenzialmente questa: si vuole istituire degli organismi caratterizzati o no da un rapporto organico con le organizzazioni sindacali e/o territoriali?
Per cogliere meglio l’importanza del problema si consideri che là dove quel rapporto organico è operante, ciascuna rappresentanza aziendale trae la propria legittimazione dall’investitura che le è data dal sindacato di cui essa è espressione ed è dunque vincolata alle direttive e alle scelte di politica sindacale compiute dal sindacato stesso; là dove, invece, il rapporto organico non c’è, la rappresentanza aziendale può (sia giuridicamente, sia di fatto) discostarsi da quelle scelte e da quelle direttive, perché la sua investitura viene dal basso, direttamente dai lavoratori. Nel primo caso, il sindacato può sostituire il membro della rappresentanza sindacale che non rispetti la disciplina associativa, anche quando questo sia stato eletto dai lavoratori; nel secondo caso non può.
Nella storia del nostro diritto sindacale, le rappresentanze sindacali aziendali istituite dallo Statuto dei Lavoratori nel 1970, sulla scorta della contrattazione collettiva del decennio precedente, sono caratterizzate da un forte ed esplicito rapporto organico con le rispettive associazioni sindacali; invece le commissioni interne istituite e regolate dagli accordi interconfederali dell’immediato dopoguerra erano caratterizzate dall’assenza di quel rapporto organico. Non è casuale che, nell’istituire le r.s.a., lo Statuto dei Lavoratori abbia lasciato alla libera determinazione delle associazioni sindacali la scelta delle modalità di designazione dei loro membri (cioè la scelta tra l’elezione da parte di tutti i lavoratori, l’elezione da parte dei soli iscritti, oppure la designazione diretta da parte dell’organismo sindacale territoriale), mentre gli accordi interconfederali che regolavano la costituzione delle commissioni interne ne disciplinavano con precisione le modalità di elezione diretta da parte dei dipendenti dell’unità produttiva (per un approfondimento in proposito rinvio ai miei scritti Riflessioni sulla riforma delle rappresentanze sindacali aziendali, 1995, e Le rappresentanze sindacali in azienda dopo il referendum, 1996).
2. Perché nella seconda metà degli anni ’90 il disegno di legge Gasperoni si arenò
Il progetto di riforma delle rappresentanze sindacali sostenuto dalla maggioranza di centro-sinistra nella XIII legislatura, che portava il nome del primo firmatario on. Gasperoni e incontrava un esplicito consenso da parte della Cgil, si caratterizzava sostanzialmente per la scelta dell’investitura delle rappresentanze dal basso, cioè dell’assenza di rapporto organico tra di esse e le associazioni sindacali di riferimento. Nel ’98-99, nonostante l’approvazione da parte della Camera, esso finì coll’arenarsi a causa di un sostanziale veto da parte di Cisl e di Confindustria, che vedevano il rischio della nascita per legge di una “quarta confederazione sindacale”, ovvero di una sorta di “rete di comitati di base” istituiti per legge, di fatto indipendenti dalle confederazioni maggiori.
La cosa curiosa è che la soluzione contenuta nel progetto Gasperoni, coerente con un disegno di decentramento della contrattazione collettiva (perché, allentando il vincolo tra rappresentanze aziendali e associazioni sindacali, di fatto indeboliva la loro capacità di spendere la “moneta” della clausola di tregua nel negoziato per il contratto collettivo nazionale), venisse sostenuta dalla Cgil, cioè dalla confederazione che con maggior vigore difendeva la centralità e inderogabilità del contratto collettivo nazionale; e che invece ad opporsi a quella soluzione fossero proprio Confindustria e Cisl, favorevoli allo spostamento del baricentro della contrattazione verso la periferia.
3. Un paradosso del nostro sistema delle relazioni industriali
La contraddizione di due decenni or sono si ripropone oggi pari pari: la Cgil, ovvero la confederazione sindacale che difende con maggior vigore il ruolo del contratto collettivo nazionale, torna a rivendicare proprio quelle rappresentanze sindacali elettive istituite per legge che del contratto nazionale minerebbero il ruolo e la centralità e che, non essendo vincolate dalle scelte compiute dai sindacati al tavolo negoziale nazionale, priverebbero questi ultimi di gran parte del loro potere negoziale in quella sede; mentre Cisl e Confindustria, che sostengono il decentramento della contrattazione, a questo intervento legislativo più o meno apertamente si oppongono. In un articolo su l’Unità del 24 giugno 1998, La questione delle rappresentanze sindacali, proponevo, a proposito del dibattito in corso sul d.d.l. Gasperoni, alcune osservazioni che si attagliano perfettamente anche al dibattito attuale:
[…] La stipulazione di un contratto collettivo nazionale ha un senso se con esso si definisce un quadro di obblighi reciproci, vincolanti per entrambe le parti: gli imprenditori, in particolare, si attendono che il sindacato assuma con quel contratto, per tutta la sua durata, l’impegno a non rimettere in discussione al livello aziendale quanto è stato concordato al livello superiore. Ma il sindacato può assumere credibilmente quell’impegno se è in grado di “governare” e indirizzare le rivendicazioni e i comportamenti conseguenti dei lavoratori al livello aziendale; ed è in grado di farlo se le rappresentanze sindacali nelle aziende – pur eventualmente elette dai lavoratori – sono legate ad esso da un rapporto organico, cioè sono organi periferici dell’associazione, assoggettati alla sua disciplina statutaria. Se invece quelle rappresentanze sono un soggetto distinto e autonomo dal sindacato, quest’ultimo non può spendere al tavolo della trattativa un impegno credibile circa il loro comportamento. Lo si è visto nei primi anni ‘80, quando, per poter ricostruire un sistema di relazioni sindacali imperniato sul contratto nazionale, dopo un decennio nel quale il sindacato aveva sostanzialmente rinunciato al rapporto organico con i consigli di fabbrica, con il “protocollo Scotti” si è dovuto bruscamente voltar pagina rispetto a quell’esperienza.
Il nuovo “testo unificato” che verrà presentato nei giorni prossimi alla Commissione lavoro della Camera dal comitato ristretto presieduto dall’on. Gasperoni si differenzia dal testo precedente per l’evidente tentativo di attenuare la scissione fra le rappresentanze aziendali e il sindacato. Ma, nonostante i nuovi termini usati (“rappresentanze sindacali unitarie” e non più “rappresentanze unitarie dei lavoratori”) e alcuni mutamenti significativi che manifestano la volontà di assicurare un controllo del sindacato sulla contrattazione aziendale, questo controllo rischia di rimanere soltanto un’intenzione. Il nuovo disegno di legge prevede che il contratto nazionale stabilisca le “modalità” della contrattazione aziendale “sulle materie rinviate”; ma questo non basta certo per assicurare un coordinamento effettivo fra i due livelli. Le nuove “rappresentanze unitarie” restano, come nel disegno di legge precedente, un soggetto a sé stante rispetto alle associazioni sindacali, al quale è attribuita la titolarità esclusiva del potere contrattuale in azienda, nonché la titolarità dei diritti più rilevanti, come quello di convocazione dell’assemblea in orario di lavoro. Le associazioni vengono invece, per così dire, “messe nell’angolo”: possono essere presenti in azienda soltanto con propri “rappresentanti designati” privi di qualsiasi potere e peso effettivo, venendo loro attribuita soltanto una funzione di “assistenza” alle r.s.u. nella contrattazione; e possono riunire i lavoratori di propria iniziativa solo “fuori orario” (ve le immaginate quelle assemblee fuori orario convocate dal sindacato territoriale?).
Se questo sarà il contenuto della riforma, dunque, il baricentro del sistema di relazioni industriali si sposterà presumibilmente verso la periferia: le associazioni imprenditoriali avranno sempre meno interesse a stipulare il contratto nazionale, mentre assumerà peso sempre maggiore una contrattazione aziendale i cui contenuti saranno determinati dai nuovi organi di rappresentanza. È questa una scelta rispettabilissima, indicata come necessaria anche da economisti autorevoli. Purché sia chiaro che è sostanzialmente in questa direzione che ci si sta muovendo. […]
4. Una proposta per uscirne
Fatto sta che, nel prosieguo dell’iter parlamentare del progetto di legge Gasperoni, da un lato l’attaccamento della sinistra politica e sindacale alla centralità e inderogabilità del contratto nazionale, dall’altro l’attaccamento al proprio ruolo di negoziatori di quel contratto degli apparati nazionali delle grandi confederazioni imprenditoriali e sindacali, finirono col tagliargli l’erba sotto i piedi: dopo una contrastata approvazione alla Camera, al Senato il progetto di legge si bloccò. Venne poi ripresentato all’inizio della legislatura successiva, ma non fu più preso in considerazione.
Proprio a seguito di quella vicenda elaborai un progetto di riforma delle rappresentanze aziendali basato su di un compromesso tra le due istanze storicamente contrapposte (cioè tra “investitura elettiva dal basso” e “rapporto organico tra rappresentanza e associazione sindacale”), che prevedeva questo: il numero dei rappresentanti di ciascuna rappresentanza sindacale aziendale è determinato dal voto espresso dai lavoratori sulle liste presentate dai diversi sindacati in una consultazione elettorale triennale, restando libero ciascuno dei sindacati stessi nella regolazione statutaria delle modalità di elezione/designazione ed eventuale revoca dei singoli rappresentanti, oltre che nella scelta se far confluire il proprio organo rappresentativo aziendale con quello degli altri sindacati in una rappresentanza unitaria, oppure no (A che cosa serve il sindacato, 2005, cap. III, poi disegno di legge n. 1872/2009, articolo 2063 del codice semplificato dei rapporti sindacali).
5. Il paradosso si ripresenta nella nuova proposta in esame
Esaminata alla luce della vicenda degli anni ’90, la proposta ora messa a punto da un gruppo di giuslavoristi – pur presentando una scrittura chiara, tecnicamente inappuntabile, e diversi contenuti pienamente condivisibili – sembra riprodurre la curiosa contraddizione di cui ho detto sopra, che condannò all’insuccesso il progetto Gasperoni:
– per un verso il nuovo progetto rilancia l’idea delle rappresentanze elette direttamente dai lavoratori in ciascuna unità produttiva, dunque prive di rapporto organico con le rispettive associazioni sindacali e sostanzialmente libere di disattenderne le scelte e le direttive (articoli 10-15 dell’articolato);
– per altro verso esso ripropone il vecchio modello centrato sulla sovranità assoluta del contratto collettivo nazionale, cui compete stabilire inappellabilmente sia l’an, sia il quando, sia il quantum della propria derogabilità da parte del contratto aziendale (articolo 18).
Vedo una contraddizione, o quanto meno un’incongruenza notevole, anche tra quest’ultima disposizione, mirata a riaffermare la sovranità e inderogabilità del contratto nazionale da parte di quello aziendale, e quella contenuta nell’articolo 19 del nuovo progetto, che – riprendendo opportunamente il contenuto dell’articolo 8 del “decreto Sacconi” n. 138/20121 – attribuisce al contratto aziendale stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria il potere di derogare alla disciplina di legge in materia di mansioni, orario e limiti al contratto a termine. Ne risulta una disciplina che, ancora una volta paradossalmente, attribuisce al contratto collettivo nazionale una inderogabilità superiore rispetto alla legge, e al tempo stesso attribuisce il potere di derogare la legge al contratto aziendale ma non a quello nazionale.
Se non si sciolgono queste contraddizioni o incongruenze e non si compie con chiarezza la scelta fondamentale circa la struttura della contrattazione collettiva che si assume come obiettivo, temo che anche questo progetto di riforma – che pure per molti altri aspetti offre un contributo apprezzabile all’elaborazione della nuova disciplina della materia – sia destinato all’insuccesso.
6. La questione degli indici di rappresentatività
Il progetto cui queste note si riferiscono fa proprio il meccanismo di misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali adottato dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e maggio 2013, riuniti nel testo unico sulla rappresentanza emanato dalle Confederazioni nel gennaio 2014. Quegli accordi prevedono che l’indice di rappresentatività risulti dalla media tra il dato relativo ai voti conseguiti in elezioni triennali in azienda e il dato relativo agli iscritti che nella stessa azienda ciascun sindacato può vantare, demandando all’Inps di fornire quest’ultimo dato, sulla base delle comunicazioni fornite in proposito dalle singole aziende. Senonché, alla prova dei fatti, si è constatato che l’Inps non è in grado di fornire il dato se non in riferimento a un terzo delle imprese: vuoi perché dopo il referendum del 1995 queste ultime non sono più tenute a effettuare sulle buste-paga le trattenute per le quote di associazione al sindacato, vuoi perché solo una minoranza di esse è di fatto disponibile a cooperare al censimento trasmettendo all’Inps il dato in questione.
A me sembra che questa esperienza consigli di semplificare il meccanismo di misurazione della rappresentatività dei sindacati, adottando come indice unico il numero dei consensi che ciascuna lista consegue nelle votazioni che devono svolgersi ogni tre anni in ciascuna azienda. Questa scelta dispiace alla Cisl, che giustamente sottolinea l’importanza prioritaria del dato associativo rispetto al volatile consenso assembleare, elettorale o referendario. Per tenere conto dell’esigenza sostenuta dalla Cisl, di non svalutare il dato associativo, nel progetto del codice semplificato dei rapporti sindacali del 2009 avevo proposto un compromesso che mi sembra virtuoso: rappresentatività dei sindacati misurata esclusivamente sul numero dei consensi ottenuti da tutti i lavoratori nell’elezione triennale, ma al tempo stesso riaffermazione del rapporto organico tra rappresentanza aziendale e associazione sindacale, con piena libertà di quest’ultima – come nell’attuale articolo 19 St. lav. – di regolare sovranamente le modalità di scelta (elezione da parte di tutti i lavoratori, da parte dei soli iscritti, o designazione da parte della segreteria territoriale) ed eventuale revoca dei membri della rappresentanza, quindi assoggettamento pieno di questi alla disciplina interna dell’associazione. Questa soluzione di compromesso potrebbe oggi essere quella capace di far accettare più facilmente a tutte e tre le confederazioni l’opzione più importante, cioè quella relativa alla derogabilità – anzi integrale sostituibilità – del contratto collettivo nazionale da parte di quello aziendale.
7. La questione della sostituibilità del contratto nazionale da parte del contratto aziendale
È su quest’ultimo punto che considero meno soddisfacente la proposta dei nove giuslavoristi: l’articolo 18 del progetto di legge qui in esame non compie il passo che il sistema tedesco delle relazioni industriali, su forte sollecitazione del Cancelliere Shroeder, compì quattordici anni fa nel 2001 e che ora costituisce il thema decidendum in casa nostra: quello cioè di consentire che il contratto aziendale, stipulato da una coalizione sindacale che abbia il grado richiesto di rappresentatività, si sostituisca anche interamente al contratto nazionale.
Ho esposto altrove – più ampiamente nel libro citato A che cosa serve il sindacato; più succintamente nel settembre scorso nella relazione al convegno di Orvieto di LibertàEguale, Contrattazione: quattro ragioni per una svolta; e ultimamente in un articolo sul Foglio dell’8 ottobre – i molteplici motivi per cui questa scelta è indispensabile e urgente anche a sud delle Alpi: rinvio dunque, sul punto, soprattutto a questi miei due ultimi interventi in argomento. Sottolineo soltanto che la sede in cui la nuova regola sul rapporto tra contratti collettivi di diverso livello deve essere posta è proprio la legge sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, se non vogliamo che questa si riduca a un’operazione di mero lifting del sistema delle relazioni sindacali, o, peggio, a un’operazione gattopardesca.
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