UNA COSA CHE ACCOMUNA TUTTO IL LAVORO UMANO, DA QUELLO DELL’OPERAIO A QUELLO DELLO SCRITTORE
Lettura tenuta al JobMarathon promosso dal Sole 24 Ore il 6 giugno 2009
Primo Levi, scrittore, ma di professione anche chimico, parla con Tino Faussone: l’operaio specializzato impiantista, che costruisce tralicci solidi e perfetti. Levi confronta tra loro questi lavori, rilevando subito una differenza profonda del primo – quello di scrittore ‑ dagli altri due. Ma arriva poi a cogliere, nel profondo, qualche cosa che accomuna tutto il lavoro umano, “nei suoi giorni buoni”.
“Ho spiegato a Faussone che uno dei grandi privilegi di chi scrive è proprio quello di tenersi sull’impreciso e sul vago, di dire e non dire, di inventare a man salva, fuori di ogni regola di prudenza: tanto, sui tralicci che costruiamo noi non passano i cavi ad alta tensione, se crollano non muore nessuno, e non devono neppure resistere al vento. Siamo, insomma, degli irresponsabili, e non si è mai visto che uno scrittore vada sotto processo o finisca in galera perché le sue strutture si sono sfasciate. […] Lavorare al limite della tolleranza, o anche fuori tolleranza, è il bello del nostro mestiere. Noi, al contrario dei montatori, quando riusciamo una tolleranza a sforzarla, a fare un accoppiamento impossibile, siamo contenti e veniamo lodati.
“Faussone […] non ha sollevato obiezioni né ha fatto altre domande, e del resto l’ora era ormai troppo tarda per dare fondo alla questione. Tuttavia […] quantunque lui fosse visibilmente insonnolito, ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pienezza. Il suo, e il mestiere del chimico che gli somiglia, perché insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovescie e alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; e insegnano infine a conoscere la materia e a tenerle testa. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, e allora una lampada si accende, o un indotto si muove.
“Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, [qui P.L. usa solo le parole del lavoro operaio, ma ne fa anche una metafora del lavoro dello scrivere] bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso <<forse un altro non ci sarebbe riuscito>>.”
[…] [poco oltre P.L. allarga ancora il discorso su una caratteristica che accomuna tutto il lavoro umano] […]
“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: [e prosegue] ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali, viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più […]
[Levi conclude]
“Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge”.
(tratto da Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, 1978)