LA VALUTAZIONE CIRCA LA PROPORZIONE TRA LICENZIAMENTO E MANCANZA CONTESTATA NON È STATA AFFATTO SOPPRESSA: È SOLTANTO MUTATA LA SANZIONE CHE COLPISCE IL LICENZIAMENTO NEL CASO DI SPROPORZIONE
Lettera pervenuta il 31 ottobre 2015 – Segue la mia risposta – In argomento v. anche il commento alle recenti sentenze 13 ottobre 2015 n. 20540 e 20545 della Corte di Cassazione, che, ai fini della reintegrazione, equiparano all’insussistenza del comportamento contestato al lavoratore la sua liceità (cioè la sua non qualificabilità come inadempimento).
Caro senatore, ogni volta che in azienda si discute della nuova norma sui licenziamenti, che io considero una riforma sacrosanta, mi sento obiettare che il giudice non avrà più la possibilità di controllare la proporzionalità tra il licenziamento e la mancanza contestata al lavoratore, che quindi viene abrogato un principio enunciato dal codice civile e che questo sarebbe incostituzionale. Come sta davvero la cosa? E come la vede lei? Grazie
Gianpaolo Gornati
Il controllo di proporzionalità tra la sanzione disciplinare e la mancanza contestata, previsto dall’articolo 2106 del Codice civile e dall’articolo 3 della legge n. 604/1966 sui licenziamenti, non è stato affatto soppresso. Con il decreto n. 23/2015 è soltanto mutata la sanzione che colpisce il licenziamento ritenuto dal giudice sproporzionato rispetto alla mancanza: non più reintegrazione nel posto di lavoro, ma indennizzo determinato in relazione all’anzianità di servizio. L’idea alla base di questa nuova norma è che, quando il motivo del licenziamento è in sé lecito (in questo caso: reazione disciplinare a una mancanza del dipendente effettivamente sussistente) ma il giudice, nella propria ampia discrezionalità, ravvisa una sproporzione tra il motivo stesso e la sanzione disciplinare massima, scatta l’indennizzo e non la reintegrazione (in questo sta, secondo la lettura che io do della riforma, il passaggio in questo campo da una property rule a una liability rule). La norma che esclude la valutazione di proporzionalità da parte del giudice è un’altra: è quella che prevede la reintegrazione del lavoratore nel caso (non di sproporzione, appunto, ma) di radicale insussistenza del fatto contestato. In questo caso si esce dall’area della valutazione discrezionale del giudice circa la gravità della mancanza contestata, per entrare in un’area nella quale l’accertamento è rigorosamente binario: sussistenza/insussistenza del fatto; e la nuova legge, se il fatto non sussiste, ravvisa nel comportamento del datore di lavoro un vero e proprio abuso del potere di recesso, che viene punito con la reintegrazione al pari di altri abusi, quali il licenziamento discriminatorio e quello di rappresaglia. Qui l’imputato non è il lavoratore, ma il datore di lavoro, esattamente come nel caso della discriminazione o della rappresaglia; e la reintegrazione è la sanzione che colpisce l’abuso della facoltà di recesso. Questo è anche il motivo per cui qui, al solo fine dell’applicazione della reintegrazione, l’onere della prova (circa la radicale insussistenza della mancanza) grava su chi sostiene l’accusa, cioè sul lavoratore; mentre ai fini dell’applicazione dell’indennizzo l’onere della prova (circa la sussistenza della mancanza e la sua gravità) grava sul datore, perché qui è lui che sostiene l’accusa. (p.i.)
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