UNA FIGURA CHE HA IMPERSONATO IL DIRITTO DEL LAVORO ITALIANO NEL SECOLO XX, IMPARTENDO UNA LEZIONE PREZIOSA DI INDIPENDENZA E NON FAZIOSITÀ, SIA SUL TERRENO POLITICO SIA SU QUELLO ACCADEMICO
Intervento nel corso delle Conversazioni Giuseppe Pera, svoltesi a Lucca nel convento di San Cerbone il 17 e 18 ottobre 2015, nel trentesimo della morte della grande giuslavorista.
Nel 1968, quando la Statale di Milano era nell’occhio del ciclone della contestazione studentesca e il sottoscritto diciannovenne alternava la partecipazione alle attività del movimento e la frequenza ad alcuni (pochi) dei corsi nella Facoltà di Giurisprudenza, che si svolgevano in quella contingenza in forma quasi clandestina, titolare della cattedra di diritto del lavoro era, da un paio d’anni, la professoressa Luisa Riva Sanseverino, proveniente dalla Sapienza di Pisa dove aveva insegnato per 25 anni. Conservo ancora gli appunti presi nel corso delle sue lezioni, nei quali ritrovo il mio sforzo di allora di capire l’orientamento politico del suo insegnamento. Solo qualche anno dopo avrei capito quanto impraticabile fosse quella mia pretesa classificatoria, figlia dello spirito di quel tempo.
Era il tempo in cui muovevano i primi passi la teoria e la pratica dell’“uso alternativo del diritto”. Proprio il diritto del lavoro costituiva il banco di prova principale di quella teoria e il terreno privilegiato di quella pratica, quindi anche di una contrapposizione frontale tra giuristi “conservatori” e “progressisti”. Ma il pensiero e l’insegnamento di Luisa Riva Sanseverino non si prestavano in alcun modo a essere collocati rispetto a quello spartiacque. Perché per un verso erano profondamente compenetrati con le ragioni d’essere essenziali del diritto del lavoro, che erano allora le ragioni del progresso; ma al tempo stesso erano profondamente compenetrati con le ragioni d’essere del diritto tout court, difficilmente coniugabili con le teorizzazioni del suo “uso alternativo”.
Luisa Riva Sanseverino aveva lavorato da giovane per molti anni in seno a Confindustria (dove aveva conosciuto colui che sarebbe diventato il compagno della sua vita e infine suo marito, Emilio Gilardi) e dirigeva il Massimario della Giurisprudenza del Lavoro, organo della stessa Confindustria, con ciò apparentemente collocandosi sul versante dei giuslavoristi filo-imprenditoriali; ma la sua apertura mentale e la sua non disponibilità a collocarsi pregiudizialmente rispetto a quello spartiacque – Giuseppe Pera parlerà in proposito della “sua inusitata e sbalorditiva indipendenza” [1] – erano evidenti nel suo comportamento e in tutti i suoi interventi.
Apertura mentale e non faziosità della professoressa Luisa Riva Sanseverino erano confermate anche dal modo nel quale aveva scelto i suoi collaboratori in Università. In seno all’Istituto di diritto del lavoro della Statale di Milano, da lei stessa fondato nel 1966, a seguito della chiamata della Facoltà, e amorevolmente coltivato sul modello di quello pisano, collaboravano con lei Carlo Smuraglia, comunista, cui la professoressa aveva fatto conferire l’incarico del corso di Storia dei movimenti sindacali, Filippo Peschiera, democristiano, che teneva il corso di Diritto sindacale, Luisella Isenburg, assistente ordinario, collocata su posizioni politiche molto simili a quelle di Smuraglia, Laura Castelvetri, anche lei orientata a sinistra, e Angelo Izar, il quale per quel che ricordo poteva qualificarsi come un liberal-democratico. Complessivamente nell’Istituto di diritto del lavoro della Statale si respirava comunque un’aria pro-labour assai più che pro-business; e lei non ne appariva in alcun modo contrariata o preoccupata. Mai ho sentito da lei un giudizio su di un cultore del diritto del lavoro sul quale l’orientamento politico-sindacale avesse la pur minima influenza; invece ho sentito lei, per molti versi legata al mondo di Confindustria, esprimere giudizi nettamente negativi su due giuslavoristi, uno già in cattedra e uno che vi aspirava, assai vicini alle posizioni più “confindustriali”. E, ovviamente, non per quest’ultimo motivo.
Più tardi avrei appreso che anche il primo (in ordine di tempo) discepolo della professoressa Riva Sanseverino, Giuseppe Pera, proveniva dalle file della sinistra, pur se da una posizione decisamente eccentrica sia rispetto all’ortodossia comunista, sia rispetto a quella socialista di allora. A questo proposito riprendo da un’intervista a lui del 1994 il racconto di come andò la sua prima interlocuzione con quella che sarebbe diventata la sua Maestra, nel 1951:
Durante la lezione lei spesso sollecitava i nostri interventi, chiedeva le nostre opinioni; ricordo che una volta, essendo io intervenuto in tema di sciopero politico usando la prima persona plurale: “noi… noi…”, lei mi chiese: “ma voi chi?”; io risposi: “noi marxisti!”. Lei sorrise. L’episodio non impedì che poi mi assegnasse la tesi, apprezzandone alla fine il risultato anche al di là del suo valore effettivo [2].
La realtà è che Luisa Riva Sanseverino, nonostante l’adesione giovanile all’ordinamento corporativo – del quale era stata tra i primi studiosi e poi tra i primi professori, certamente la prima e unica professoressa donna – era una persona profondamente liberale; e al tempo stesso, in piena coerenza e continuità rispetto a quell’adesione giovanile, era profondamente convinta delle ragioni fondanti del diritto del lavoro, delle quali aveva fatto le ragioni della sua stessa vita. Ancora il suo primo allievo racconta che
quando, sul finire degli anni ’50, un direttore di rivista intese commissionarLe un articolo sulla clausola di nubilato [3] – nella convinzione di averne uno scritto svolgente la tesi forcaiola della legittimità – ebbe una sdegnosa ripulsa, naturalmente sempre nel tono signorile e calmo che Le era consueto: “proprio da me, donna, pretende questo?” [4].
E, alla luce della sua vicenda personale, in quel termine “donna” possiamo leggere molto di più che la pura e semplice qualificazione di genere: Luisa Riva Sanseverino è stata donna fieramente e laicamente libera, capace di precorrere di decenni le istanze di pari opportunità che solo alla fine degli anni ’70 hanno incominciato a essere fatte proprie dall’ordinamento giuslavoristico.
Nel 1944, quando era da tre anni Rettore dell’Accademia della G.I.L., rifiutò di collaborare con i nazifascisti e per questo venne sospesa dal grado e dallo stipendio.
È sempre stata convinta sostenitrice non solo della necessità di combattere le discriminazioni – che fossero per motivi di genere, politici, religiosi o sindacali – ma anche della necessità di correggere lo squilibrio di potere contrattuale tra datore e prestatore di lavoro. Era però al tempo stesso convinta sostenitrice dell’idea che senza buona impresa non c’è lavoro buono; donde la necessità – che allora la sinistra tendeva inconsultamente a negare – che venisse riconosciuto il peso dovuto alle ragioni degli operatori economici.
Nella prima metà degli anni ’50 si era verificata una convergenza, sorprendente dal punto di vista politico ma non illogica sul piano dei contenuti, tra una parte della sinistra giuslavoristica, civilistica e costituzionalistica italiana (Salvatore Pugliatti, Ugo Natoli, Aurelio Becca e Costantino Mortati i suoi esponenti di maggiore spicco) e la corrente istituzionistica che si poneva in continuità con gli orientamenti dottrinali acontrattualistici dominanti nel ventennio corporativo (Renato Balzarini, Widar Cesarini Sforza, Luigi Miglioranzi, Maria Franca Rabaglietti) [5]. È interessante osservare che Luisa Riva Sanseverino, pur formatasi nell’ordinamento corporativo, promossa professore di ruolo nel 1934 e titolare nell’immediato dopoguerra di una delle quattro sole cattedre di diritto del lavoro sopravvissute alla catastrofe di quell’ordinamento, non aveva partecipato neppure marginalmente a questo incipiente movimento volto a negare la natura contrattuale del rapporto di lavoro e a ritornare alle teorie del ventennio sulla “funzionalizzazione dell’impresa”. Aveva invece aderito, fin dall’emanazione del Codice civile, alla lezione contrattualistica prima di Ludovico Barassi, poi, dopo la Liberazione, di Francesco Santoro Passarelli.
Nell’autunno del 1969, al mio secondo esame di diritto del lavoro (al primo, nella sessione estiva, ero stato costretto al ritiro da un assai severo Smuraglia), insistei per essere esaminato dalla titolare della cattedra, motivando la richiesta con la mia intenzione di farmi assegnare una tesi di laurea in diritto del lavoro. In apertura dell’esame mi chiese del motivo dell’insuccesso al primo tentativo; le dissi della domanda a cui non avevo saputo rispondere: quale fosse il fondamento positivo della nullità del patto di tregua. Lei minimizzò, con uno dei suoi indimenticabili sorrisi leggermente ironici (non è un caso che quel sorriso sia ricordato anche da Giuseppe Pera, nell’intervista citata sopra), osservando che forse ci si sarebbe dovuti prima chiedere se il patto di tregua fosse davvero nullo; e mi folgorò con un riferimento all’attualità scottante di quella stagione: “se il patto di tregua fosse davvero nullo perché mai le trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici si sarebbero bloccate proprio sul rifiuto di Fiom, Fim e Uilm di sottoscriverne la premessa, contenente appunto l’impegno a non riproporre in sede aziendale questioni oggetto del contratto nazionale?”. Era proprio così: se il patto di tregua non avesse avuto alcun valore, non ci sarebbe stato l’“autunno caldo”, che nasceva proprio dal rifiuto del sindacato di sottoscrivere quel patto.
All’epoca lavoravo già alla Fiom-Cgil, in una zona della periferia di Milano. La professoressa Riva si mostrava molto interessata – non credo per pura cortesia – alla mia esperienza diretta della contrattazione aziendale, che costituiva, nelle dimensioni e nei contenuti, la grande novità di quella stagione: ne fece oggetto di un seminario e mi propose di dedicare a questo tema la tesi di laurea. Consentì, poi, che io la svolgessi per tre quarti alla maniera indicata da Gino Giugni, cioè lavorando molto più sull’ordinamento intersindacale, sulle prassi contrattuali e sui contenuti dei contratti che sull’interpretazione del diritto statuale, allora peraltro avarissimo di riferimenti positivi in argomento. E quando la Fondazione Brodolini – allora presieduta da Giugni – bandì un premio per una tesi di diritto sindacale, mi incoraggiò a presentarla, dicendomi che lui l’avrebbe apprezzata. Sta di fatto, però, che pur considerando Gino Giugni come persona di straordinaria intelligenza e come autore di contributi illuminanti sul funzionamento del sistema delle relazioni industriali, lo giudicava tuttavia… troppo poco giurista sul piano del metodo. Probabilmente è per questo che, quando nel 1974 si trattò di decidere in Consiglio di Facoltà chi le sarebbe succeduto sulla cattedra milanese, aderì all’opzione espressa dal preside Cesare Grassetti e, contro il parere di Renato Treves, tra i due candidati Gino Giugni e Aldo Cessari scelse anche lei il secondo. Quando uscì dal Consiglio di Facoltà che aveva compiuto la scelta e venne in Istituto a darcene la notizia, disse “so di darvi un dispiacere…”. Sapeva bene che noi giovani eravamo affascinati dalla lezione giugniana, e rispettava il nostro orientamento; di più: sapeva di darci una delusione e le dispiaceva di darcela (poi, però, quasi a garantire la continuità dell’ispirazione liberale della direzione dell’Istituto, aggiunse: “… ma sono certa che potrete lavorare bene anche con Aldo Cessari”). Forse proprio la sua non condivisione della lezione di Giugni costituisce il motivo dello scollamento che in qualche punto forse si registra tra il manuale Riva Sanseverino di diritto sindacale [6] e l’evoluzione del sistema italiano reale delle relazioni industriali tra l’autunno caldo e l’inizio degli anni ’80.
In omaggio alla sede in cui questo ricordo viene proposto, aggiungo che la signora Riva Sanseverino era e si è sempre sentita molto pisana (a Pisa resse la cattedra di diritto del lavoro per un quarto di secolo, dal 1941 al 1965), ma anche un po’ lucchese: d’estate andava sempre a Viareggio, nella bella casa che possedeva, dove tante volte d’estate sono andato a trovarla, o da dove la accompagnavo alla casa della mia famiglia in Versilia: qui strinse un rapporto di amicizia e grande simpatia reciproca con la mia Nonna, Paola Pontecorvo, pisana di nascita e anche lei precorritrice della parità di genere nell’accesso allo studio del diritto e alle professioni giuridiche.
Ma il suo legame con questi nostri luoghi passava soprattutto per il suo rapporto con Giuseppe Pera, il suo primo allievo. Provava per lui un affetto vivissimo, da lui ricambiato con spirito filiale (“ero orfano di madre – dirà lui nella già citata intervista del 1994 – ora mi accorgo che la consideravo come una madre”). Di lei Giuseppe Pera ammirava non soltanto, come si è già detto, la sovrana libertà dagli schemi, dalle sudditanze culturali e politiche, ma anche la chiarezza del pensiero e della scrittura (nell’intervista del 1994 ricorda “l’insegnamento della signora Riva Sanseverino, il suo modo di impostare il discorso giuridico, nel quale non c’era mai nulla di astratto e tanto meno di astruso”) [7]. Oltre al sorriso lievemente ironico di cui ho già fatto cenno, delle espressioni del viso della signora Riva Sanseverino ricordo la smorfia di disapprovazione quando si trovava di fronte a un testo giuridico oscuro. “Non ci perda tempo” mi diceva. E la stessa cosa ebbe a dirmi più tardi Giuseppe Pera, con l’aggiunta che “se alla prima lettura non lo capisci può essere che sia bischero tu, ma se non lo capisci neanche alla seconda, probabilmente è bischero lui”. Si può ben dire che la dote dell’indipendenza e libertà di giudizio e quella della chiarezza – che Giuseppe Pera indicava come “l’onestà dello studioso” – hanno costituito una eredità preziosissima di Luisa Riva Sanseverino, che il suo allievo prediletto fece totalmente propria, coltivandola lungo tutto l’arco della sua vita.
Fra Luisa Riva Sanseverino e Giuseppe Pera corse un legame molto più intenso di quello che corre solitamente fra maestro e allievo: se lei per lui fu una madre, lui per lei fu un figlio. E tale lei lo considerò anche nelle confidenze più riservate e nella trasmissione degli oggetti più cari, ivi compresi alcuni cimeli riservati nei quali rivive la sua libertà di spirito, il suo umorismo e il suo amore per la vita.
Questo è un ricordo, non una biografia (per la quale rinvio allo scritto post mortem citato all’inizio, col quale Giuseppe Pera nel 1985 inaugurò la propria direzione della Rivista italiana di diritto del lavoro). È soltanto, necessariamente, un collage di percezioni soggettive, di istantanee, limitato al decennio nel quale il mio inizio di vita universitaria si sovrappose alla parte finale della vita della professoressa Luisa Riva Sanseverino. Non posso e non voglio dunque aggiungere altro, tranne questo: dei quattro professori di diritto del lavoro che sopravvissero alla caduta dell’ordinamento corporativo (gli altri tre furono Giuliano Mazzoni, con cui ella coltivò sempre un rapporto di amicizia e collaborazione molto intenso, Renato Balzarini e Antonio Navarra) Luisa Riva Sanseverino è stata probabilmente quella che con maggiore coerenza, equilibrio ed efficacia ha impersonato, nell’accademia e più in generale nella cultura nazionale, la continuità dell’ordinamento del lavoro, attraverso e nonostante i rivolgimenti istituzionali e politici del Novecento. I giovani che si avvicinano oggi alla nostra materia e vogliono conoscerne le radici faranno bene a non ignorare la lezione giuridica, oltre che la lezione morale, di questa grande giuslavorista del Novecento.
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[1] Luisa Gilardi Riva Sanseverino: lo scritto in memoria della Maestra, deceduta l’11 gennaio 1985, con cui l’Allievo, assumendo la direzione della Rivista italiana di diritto del lavoro, ne apre il primo fascicolo di quello stesso anno (parte I, pp. 3-15; la citazione è da p. 6; ora anche in Scritti di Giuseppe Pera, Giuffré, 2007, qui p. 704): “L’allievo parla della Maestra, dopo trentasei anni di sodalizio, con tutta l’intensità affettiva di un rapporto che ben può dirsi filiale, per ricordare cosa è stata Lei per lui, dal primo formarsi negli anni universitari fino al suo farsi uomo e militante di questa disciplina”.
[2] Intervista a Giuseppe Pera, risalente all’estate 1994, ma pubblicata per volontà dell’intervistato soltanto postuma, sulla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro nel 2006 (I, 107-140) e poi ne Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2008: qui la citazione è tratta da p. 555.
[3] Per i più giovani: era la clausola che prevedeva lo scioglimento automatico del rapporto in caso di matrimonio della lavoratrice. Prima della legge sulla maternità del 1958 non era affatto pacifico che essa fosse nulla.
[4] Op. e loc. cit. nella nota 1.
[5] Rinvio in proposito a I primi due decenni del diritto del lavoro repubblicano: dalla Liberazione alla legge sui licenziamenti, ne Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, cit., pp. 28-35.
[6] Diritto sindacale, Utet, quarta e ultima ed. 1982.