GLI IMMIGRATI AL LAVORO PER SE STESSI E I PROPRI PAESI

OCCORRE AIUTARE GLI IMMIGRATI A LAVORARE PER SÉ E PER I RISPETTIVI PAESI, CON GEMELLAGGI INTERCONTINENTALI E CON UN ORDINAMENTO DEL LAVORO SPECIALE DI FONTE UE, CHE CONSENTA IL PROLIFERARE RAPIDO DEI CANTIERI SPECIALI IN TUTTI I PAESI EUROPEI

Intervista a cura di Giuseppe Ardizzone, pubblicata sul sito del Circolo Pd Libertà e Partecipazione, 1° dicembre 2015
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In quest’intervista abbiamo cercato di affrontare insieme al Senatore Ichino alcuni problemi connessi al rapporto fra migrazione e lavoro. Ne riportiamo qui di seguito il contenuto.

Stiamo assistendo ad un’ondata migratoria senza precedenti verso i paesi europei, che potrebbe portare a forti tensioni sia sui temi dell’integrazione culturale e dei comportamenti sociali sia sull’organizzazione del lavoro. Pensa che allo stato attuale sia possibile immaginare che i migranti, accolti nei centri d’accoglienza e identificazione, fino a quando non avranno una destinazione certa o un inserimento lavorativo nel mercato, possano prestare obbligatoriamente, in cambio dell’assistenza, un lavoro elementare di servizio pubblico ad esempio nell’edilizia popolare, nei servizi di pulizia e manutenzione o nell’assistenza?
Questo è fattibile a condizione che si risolvano due problemi delicati sul piano politico-sindacale e uno difficile sul piano operativo. Il primo è quello di evitare che un’iniziativa di questo genere possa assumere la sostanza, o anche solo l’aspetto, di un’organizzazione di lavoro coatto, che sarebbe oltretutto vietato da uno dei principi fondamentali dell’O.I.L. Quando una persona arriva in condizioni di bisogno gravissime, il confine tra lavoro accettato liberamente e lavoro coatto può diventare evanescente. Il secondo problema è quello di ammettere nel nostro ordinamento una categoria di lavoratori privi di cittadinanza UE, i quali per il lavoro che svolgono vengono retribuiti in parte in natura (alloggio e vitto) e comunque in misura inferiore, a parità di contenuto, rispetto ai minimi tabellari previsti dai contratti collettivi: a ben vedere, la questione ha molto in comune con quella dell’istituzione di un salario orario minimo, che dovrebbe necessariamente collocarsi nettamente al di sotto dei minimi tabellari dei contratti nazionali, e proprio per questo è fortemente avversato dai sindacati. Per risolvere questo problema si potrebbe pensare ad una norma speciale europea che regoli i rapporti di lavoro in questione anche in deroga agli ordinamenti nazionali.

E il terzo problema?
Il problema pratico è quello di dotare il nostro Paese di una struttura pubblica capace di organizzare il “lavoro degli immigrati per gli immigrati”, ed eventualmente anche quello di utilità generale, e gestirlo in modo pulito ed efficiente. L’esperienza degli appalti romani aventi a oggetto i servizi agli immigrati non costituisce, ahimè, un precedente incoraggiante: il che potrebbe suggerire di affidare a un’agenzia di emanazione diretta della UE l’organizzazione e la gestione di questi “cantieri”. Sei anni fa ho anche sostenuto (v. Un traghetto per Lampedusa) che dovremmo pensare ad aprire cantieri di questo genere negli stessi Paesi di origine degli immigrati, invitandoli a tornare lì, pagati da noi secondo tariffe ottime per quei luoghi ma pochissimo costose rispetto alle nostre correnti, per aiutare i rispettivi Paesi a risollevarsi. Certo, però, questo non è pensabile nei casi di guerra civile come quella che sta devastando la Siria.

Non potrebbe essere proprio questa l’occasione per la prima grande operazione europea di emissione di eurobond comuni, con la creazione di un debito europeo garantito in ultima istanza dalla BCE, finalizzati al finanziamento di queste strutture nei paesi di accoglienza e di una politica comune d’investimento nei paesi africani?
Sì, certo. E questo è un motivo ulteriore per pensare a un impegno diretto della UE non solo nella regolazione ma anche nella gestione dei “cantieri”. Proprio un impegno diretto di questo genere, però, che uscirebbe del tutto dagli schemi fin qui praticati, potrebbe costituire una difficoltà in più per far passare un programma di questa entità e complessità. Ciò non significa affatto che non dobbiamo coltivare questa ambizione, e magari farcene proprio noi italiani promotori in Europa.

Mi sembra che sia condivisibile ipotizzare un impegno diretto della UE sia per l’apertura di cantieri di sviluppo nei territori d’origine dei migranti (invitandoli a prestar lì il loro lavoro) sia per l’organizzazione gestione e controllo dei cantieri nei paesi europei. D‘altronde, si parla già di un ruolo di sorveglianza e di coinvolgimento di funzionari UE nei centri d’identificazione. Utilizzare personale della pubblica amministrazione dei diversi paesi membri distaccandolo, allo scopo, sotto la Direzione EU non dovrebbe essere problematico e costituirebbe l’embrione di una struttura EU decentrata. Quello che mi sembra ulteriormente importante è l’accenno, da Lei fatto, a una normativa speciale europea che regoli questi rapporti di lavoro atipici, in deroga agli ordinamenti nazionali. Inevitabilmente, tuttavia, sorgono alcune domande. La prima: ritiene che la remunerazione di questo tipo di lavoro pubblico debba essere stabilita in maniera paritaria su tutto il territorio europeo o piuttosto debba essere articolata all’interno di un range che tenga conto delle differenze salariali esistenti fra i diversi paesi?
Va detto, innanzitutto, che della remunerazione fa parte, in questo caso, anche alloggio, vitto e scuola di lingua: tutte prestazioni che hanno un valore d’uso analogo in qualsiasi parte del continente, ma possono avere un prezzo, in termini monetari, molto diverso sulle coste del Mare Ionio e su quelle del Mar Baltico. Lo stesso criterio deve valere per la parte di remunerazione che invece viene corrisposta in denaro: il suo valore deve essere stabilito non in termini nominali, ma di potere reale d’acquisto; il che implica necessariamente forti differenze degli importi nominali, a secondo della latitudine e della longitudine.

Considerando che le dimensioni di questa immigrazione hanno un carattere epocale, costituendo un esercito industriale di riserva d’enormi proporzioni su tutto il territorio europeo, con la conseguenza di una possibile generale svalutazione interna del fattore lavoro, non ritiene sia importante collegare direttamente la remunerazione di questi lavori atipici con il valore del salario minimo, concordandone l’entità e/o l’oscillazione fra i diversi paesi europei?
Tutto è molto discutibile. Ma in via di prima approssimazione sarei contrario a un approccio di questo genere. Proprio perché è indispensabile che questa operazione non sia vissuta dai lavoratori indigeni attuali e potenziali come un attentato ai loro interessi. Per questo, è necessario che i cantieri si caratterizzino in modo molto netto come luoghi in cui il lavoro ha un carattere emergenziale, è prioritariamente al servizio delle comunità degli stessi immigrati che lo svolgono, non genera un utile di impresa e può per questo essere esentato dall’applicazione degli standard del lavoro ordinario.

Non sarebbe, a questo punto, utile superare concettualmente la separazione fra il concetto di reddito di cittadinanza e indennità di disoccupazione per creare un unico ammortizzatore sociale di sostegno sia nei confronti degli inoccupati, sia dei marginali sia dei disoccupati di lunga durata, legandone l’erogazione alla prestazione di un lavoro di servizio pubblico e la remunerazione al livello del salario minimo?
Anche su questo punto sono portato a dissentire. È bene che queste tre cose restino nettamente distinte: il trattamento di disoccupazione (in Italia, la nuova ASpI), che ha natura assicurativa, con conseguente correlazione stretta fra entità della retribuzione goduta, contribuzione e indennità in caso di perdita del lavoro; il reddito minimo di inserimento, che deve avere natura assistenziale universale, e deve essere erogato a tutti i cittadini UE residenti che si trovino in situazione di povertà, prescinde totalmente nella sua entità dalle retribuzioni percepite dal beneficiario in precedenza, ed è fortemente condizionato alla piena cooperazione del beneficiario per il proprio reinserimento nel tessuto produttivo e per l’inserimento scolastico dei figli quando ce ne sono; infine il trattamento emergenziale dei profughi e rifugiati, che è una misura di pronto soccorso rivolta a non cittadini UE. Nel tracciare queste linee di definizione e separazione non ho alcuna certezza: può essere benissimo che mi faccia velo un eccesso di attaccamento a schemi vecchi. La discussione serve anche a superarli, quando di questo si tratta.

Certamente l’onestà intellettuale e il richiamo a superare sempre, nel corso delle discussioni, il proprio originario punto di vista è un insegnamento di cui ringraziamo il Senatore Ichino insieme alla sua disponibilità.Mi sembra che i punti presentati nelle domande della parte finale abbiano bisogno di ulteriori riflessioni comuni; ma, una questione su cui mi sembra, invece, vi sia un accordo è che sia auspicabile un intervento centrale europeo nel finanziamento ed organizzazione ( con una normativa europea in deroga a quella nazionale)   di cantieri di lavoro sia nei paesi europei sia in quelli di origine dei migranti. Allo stesso modo è forse possibile ipotizzare anche per il reddito minimo d’inserimento per tutti i cittadini UE( opportunamente diversificato per i singoli paesi)   un’azione centrale europea. È una strada percorribile? Certamente non semplice ma di cui tutti insieme possiamo farci promotori.

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