IL NUOVO MESTIERE DEL SINDACATO, NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE, PRESUPPONE LA POSSIBILITÀ CHE LA COALIZIONE MAGGIORITARIA NEGOZI A 360° IL PIANO INDUSTRIALE INNOVATIVO, ANCHE STIPULANDO UN CONTRATTO AZIENDALE CHE SOSTITUISCA INTEGRALMENTE QUELLO NAZIONALE
In questo scritto riproduco, unificandoli, il contenuto del mio intervento introduttivo, di quello intermedio e di quello conclusivo del dibattito, svolti in qualità di moderatore della prima sessione della XVI Assemblea nazionale di LibertàEguale, tenutasi a Orvieto il 26 e 27 settembre 2015, aperta dalla relazione di Marco Leonardi – Sul sito di Radio Radicale è disponibile il video di questi e degli altri interventi dell’intera assemblea – Le tesi esposte in questi interventi sono già compiutamente esposte e argomentate in un mio libro pubblicato nel 2005: A che cosa serve il sindacato
1. Un’esigenza di coerenza interna del sistema
2. Un’esigenza di coerenza con la scelta del sistema monetario unico continentale
3. Un’esigenza di coerenza etico-sociale e di razionalità economica
4. Un’esigenza connessa strettamente con la globalizzazione del mercato del lavoro (e il corollario della necessità del salario minimo orario)
5. Hire your best employer!
6. La vicenda Fiat del 2010 e il mestiere del sindacato nel XXI secolo
7. La questione della selezione dell’agente contrattuale
Sono quattro i motivi essenziali a sostegno del passaggio, in Italia, a un sistema di contrattazione collettiva nel quale il contratto aziendale possa non solo derogare parzialmente (cosa già consentita dall’accordo interconfederale del 2011), ma anche sostituire integralmente il contratto collettivo nazionale, come in Germania è consentito dal 2002.
1. Un’esigenza di coerenza interna del sistema – Il nostro sistema delle relazioni industriali è di fatto caratterizzato da una tendenza generale alla conservazione in vita a tutti i costi delle strutture produttive di dimensioni grandi o medie, anche quando si rivelano incapaci di reggere il mercato. Invece il modello centralistico di determinazione degli standard di trattamento dei lavoratori – che applichiamo a parole, attribuendo valore dominante ai minimi tabellari fissati inderogabilmente da un contratto collettivo nazionale – si fonda sul principio opposto: quello per il quale, quando una azienda non riesce a reggere lo standard di trattamento minimo, è bene che essa chiuda e che ciascuno dei suoi dipendenti migri verso un’azienda più forte, capace di valorizzare meglio il suo lavoro.
In Italia questa implicazione fondamentale del sistema di determinazione centralizzata degli standard minimi non è mai entrata a far parte della cultura delle relazioni industriali. Ancor meno siamo disposti ad accettare che, in forza di quel principio, si attivino dei robusti flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord: al punto che ci siamo assuefatti a un Mezzogiorno nel quale metà del tessuto produttivo funziona sotto-standard, quindi al di fuori delle regole stabilite centralmente. Se così è, logica vuole che ne traiamo le conseguenze, accettando che il contratto nazionale svolga soltanto la funzione di disciplina di default, cioè applicabile nei casi in cui faccia difetto un contratto stipulato a un livello più vicino al luogo di lavoro.
2. Un’esigenza di coerenza con la scelta del sistema monetario unico continentale – Il secondo motivo nasce invece, per così dire, come corollario della scelta di aderire al sistema monetario europeo. Quell’adesione ha comportato la rinuncia a disporre al livello nazionale di due strumenti di governo dell’economia che avevano svolto fino a quel momento un ruolo indispensabile: la manovra del cambio monetario e l’aiuto di Stato alle imprese inidonee a camminare sulle sole proprie gambe. Persa la disponibilità di quei due strumenti, ha perso la sua ragion d’essere la determinazione degli standard retributivi al livello centrale, alla quale il Governo frequentemente partecipava più o meno esplicitamente in veste di mediatore, proprio in quanto titolare di quelle due leve.
Per altro verso, la BCE ci ammonisce periodicamente ricordandoci che, disattivate quelle due leve al livello nazionale, il superamento della rigidità degli standard retributivi verso il basso, ovvero l’adozione di un meccanismo di determinazione di standard retributivi capace di adattarli rapidamente alle congiunture negative, è diventata una necessità ineludibile, se nei periodi di vacche magre vogliamo evitare forti aumenti della disoccupazione e l’avvitarsi della crisi.
3. Un’esigenza di coerenza etico-sociale e di razionalità economica – L’Italia è un Paese nel quale si registrano forti differenze di potere d’acquisto della moneta. La vita in una città del Nord costa fino a un terzo in più rispetto a una città del Sud; col risultato che applicare lo stesso salario nominale in tutto il Paese significa di fatto retribuire il lavoro in misura nettamente superiore al Sud rispetto al Nord. Cosa iniqua sul piano sociale, ma anche dannosa sul piano economico, se è vero che al Sud il tasso di disoccupazione è molto maggiore che al Nord. Dannosa in primo luogo per i lavoratori: per tutti, se è vero che i minimi tabellari fissati dai nostri contratti nazionali non sono oggi soltanto troppo alti per il Sud, ma anche troppo bassi per il Nord.
Contro questo argomento la cultura sindacale diffusa fa barriera obiettando che esso tenderebbe a un ritorno alla pratica ante-’68 delle “gabbie salariali” (ovvero della fissazione dei minimi tabellari nei contratti nazionali sulla base della divisione del Paese in 14 zone, a ciascuna delle quali veniva attribuito un parametro salariale diverso in relazione alle condizioni economiche). Ma questo terzo argomento a sostegno del decentramento della determinazione degli standard, lungi dal tendere a un ritorno alle “gabbie salariali”, tende al contrario a “sgabbiare la contrattazione”, cioè a consentire che sia la contrattazione decentrata a stabilire il costo del lavoro in riferimento alle circostanze concrete della zona o della singola azienda. Certo, questo decentramento implica l’applicazione di un adeguato criterio di selezione dell’agente contrattuale legittimato: è infatti questa l’altra parte del nuovo capitolo della politica del lavoro del Governo che si sta aprendo. Di questo parleremo tra breve.
4. Un’esigenza connessa strettamente con la globalizzazione del mercato del lavoro – Siamo così arrivati al quarto motivo, probabilmente il più importante, per completare il processo di decentramento della contrattazione avviato con l’accordo interconfederale del 2011: consentire che il contratto nazionale venga, all’occorrenza, non solo parzialmente derogato ma anche integralmente sostituito dal contratto aziendale è indispensabile per reggere le sfide della globalizzazione e rafforzare, nel contesto che ne nasce, la posizione dei lavoratori. Cerco di spiegare perché in poche parole. La globalizzazione ha, come è noto, l’effetto di aumentare enormemente la concorrenza tra i lavoratori di tutto il mondo, non solo perché beni e servizi prodotti a qualsiasi latitudine e longitudine possono competere con quelli prodotti in casa nostra, ma anche perché è enormemente aumentata la mobilità geografica dei lavoratori stessi. Con il conseguente ridursi del potere contrattuale degli italiani nei confronti dei propri datori di lavoro, soprattutto nelle fasce professionali più basse. Questo, per i lavoratori di tutto l’Occidente industrializzato, è l’aspetto negativo della globalizzazione. Ma potrebbe essercene uno di segno opposto e di peso anche maggiore: la globalizzazione, nel mercato del lavoro, non consente la concorrenza senza frontiere soltanto fra i lavoratori, ma anche fra gli imprenditori. E la concorrenza tra gli imprenditori – nel mercato del lavoro, si badi bene – dove si attiva rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, produce un miglioramento dei loro trattamenti. Ora, nei decenni passati noi italiani siamo stati particolarmente impegnati a erigere barriere per impedire questa concorrenza, per ostacolare l’ingresso in Italia delle imprese straniere, che sono per lo più delle multinazionali. Non soltanto barriere politico culturali (da sinistra la fatwa contro le multinazionali, viste come espressione del capitalismo imperialista, da destra la difesa dell’“italianità” come qualità positiva essenziale delle imprese operanti sul territorio nazionale), ma anche barriere istituzionali; e fra queste un ruolo – certo non esclusivo, ma assai importante – è svolto proprio dall’inderogabilità del contratto collettivo nazionale, con le sue centinaia di regole minuziose in materia di livelli e struttura delle retribuzioni, inquadramento professionale, organizzazione del lavoro, distribuzione degli orari, e così via.
Ogni multinazionale ha il proprio modello di organizzazione del lavoro e di struttura della retribuzione: non ama vedersi imporre schemi, magari vecchi di decenni, comunque negoziati a tavoli ai quali non ha neppure partecipato. Qui dunque emerge un aspetto della questione tanto importante quanto poco diffusamente considerato nella nostra cultura delle relazioni industriali: il contratto collettivo nazionale non svolge soltanto la funzione di limitare la concorrenza nel mercato del lavoro tra i lavoratori, ma anche quella di limitarla tra gli imprenditori. È in qualche misura tranquillizzante per l’imprenditore italiano sapere che nessun altro imprenditore, magari forestiero, potrà conseguire un vantaggio competitivo dall’introduzione – per esempio – di un sistema retributivo fondato su di un diverso inquadramento professionale, o nel quale la parte fissa dei salari è più bassa ed è più ampia quella variabile in relazione a indici di produttività o redditività aziendale.
L’apertura alla concorrenza dell’imprenditore straniero, invece, serve proprio a questo: a consentire l’ingresso nel nostro sistema di innovazioni che rendono il lavoro più produttivo, che consentono quindi anche di aumentarne la retribuzione complessiva, ma che richiedono forme di organizzazione del lavoro e della retribuzione diverse da quelle canoniche, imposte da decenni dai nostri contratti collettivi nazionali. Con l’ovvio corollario della derogabilità dei minimi tabellari stabiliti dai contratto collettivi nazionali, costituito dalla necessità della fissazione in sede legislativa o amministrativa di un salario minimo orario assoluto (in termini di potere di acquisto reale).
5. Hire your best employer! – Emerge così anche un nuovo paradigma del mercato del lavoro: esso non è più soltanto il luogo dove l’imprenditore, titolare della cattedrale nel deserto, sceglie i dipendenti che intende assumere nell’esercito dei disoccupati e dei sotto-occupati agricoli (il modello del monopsonio, per la correzione del quale è nato il movimento sindacale e il diritto del lavoro), ma è ora anche il luogo dove ai lavoratori è sempre più largamente possibile essere loro a scegliere l’imprenditore da cui far valorizzare il proprio lavoro (Hire your best employer!).
I lavoratori scelgono l’imprenditore non soltanto quando scelgono il settore in cui lavorare, o migrano verso un’impresa piuttosto che un’altra: lo scelgono anche quando i loro rappresentanti politici e/o sindacali selezionano l’imprenditore cui affidare il risanamento e la gestione di un’azienda decotta (così, per esempio, nel 2008 furono i lavoratori di Alitalia – per mezzo dei loro rappresentanti sia sindacali, sia istituzionali – a preferire come datore di lavoro l’italianissima C.A.I., che non aveva mai fatto volare un aereo, a Air France-KLM, ovvero al più grande vettore aereo del mondo); scelgono l’imprenditore quando votano “sì” o “no” su di un piano industriale: nel 2010 furono i lavoratori della Fiat a scegliere come datore di lavoro, nei referendum di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, tra Marchionne e lo Stato, se è vero che a un ipotetico successo del “no” avrebbero probabilmente fatto seguito il disimpegno della multinazionale guidata dall’italo-canadese e la nazionalizzazione dell’impresa.
6. La vicenda Fiat del 2010 e il mestiere del sindacato nel XXI secolo – La vicenda Fiat del 2010 ha assunto il valore di una grande svolta nel sistema delle relazioni industriali italiano proprio perché allora per la prima volta i lavoratori di una grande azienda hanno deliberatamente scelto di contravvenire al principio dell’inderogabilità del contratto collettivo nazionale. La sinistra politica e sindacale qualificò le deroghe al contratto nazionale richieste dal piano industriale di Marchionne come “attacco ai diritti fondamentali dei lavoratori”, e gran parte dei media le andò dietro; ma la maggioranza dei lavoratori – anche, va detto, per merito di Cisl e Uil – capì che il piano era buono, che valeva la pena di scommettere su di esso. E i fatti, poi, hanno dato loro ragione: tre anni dopo lo stabilimento di Pomigliano è stato premiato come il più avanzato in Europa non solo sul piano tecnologico, ma anche su quello ergonomico, cioè su quello della sicurezza e dello star bene dei lavoratori; e oggi quell’impresa ha assunto un ruolo di leader in diversi segmenti del mercato automobilistico, con effetti eccellenti di traino anche in altri settori. All’incirca la stessa vicenda, mutatis mutandis, era accaduta nella prima metà degli anni ’90 quando il Nuovo Pignone venne ceduto dall’IRI alla General Electric, osteggiata dalla sinistra politica e sindacale in quanto multinazionale yankee: oggi l’azienda fiorentina ha un fatturato quadruplo rispetto ad allora, ed è diventata la capofila della divisione Oil & Gas della multinazionale.
Nel 2010 sentimmo dire dal vertice del Pd, a denti stretti, che le deroghe al contratto nazionale proposte da Marchionne dovevano essere accettate, ma solo “in via eccezionale”. Invece noi dobbiamo costruire un sistema di relazioni industriali nel quale la possibilità di negoziazione a 360 gradi su di un piano industriale innovativo sia la regola, non l’eccezione. Vogliamo 10, 100, 1000 casi come quelli della Fiat/F.C.A. o del Nuovo Pignone. Ma per questo il sindacato italiano deve imparare il nuovo mestiere che gli è riservato nell’era della globalizzazione: quello di costituire l’intelligenza collettiva capace di guidare i lavoratori nella valutazione dei piani industriali e dell’affidabilità tecnica, professionale e anche morale di chi li propone, quale che ne sia la nazionalità; e, se la valutazione è positiva, il mestiere di rappresentarli nella negoziazione a 360 gradi della scommessa comune con l’imprenditore su quel piano. Anche se esso comporta una nuova struttura della retribuzione, un nuovo sistema di inquadramento professionale, una organizzazione del lavoro radicalmente diversa da quella conosciuta fin qui.
Senza innovazione, non può esserci aumento duraturo della produttività e quindi dei livelli retributivi. Certo, non tutto il nuovo è buono; ma spetta appunto a un sindacato che sappia fare bene il suo mestiere distinguere l’innovazione buona da quella cattiva. D’altra parte, se per paura di quella cattiva ci chiudiamo anche a quella buona, il nostro Paese continuerà a ristagnare ancora a lungo. Abbiamo dunque bisogno di un sistema delle relazioni industriali strutturalmente, per vocazione esplicita, aperto all’innovazione buona. A questo deve tendere il nuovo modello della contrattazione collettiva che ci proponiamo di costruire.
7. La questione della selezione dell’agente contrattuale – Spostare il baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia presuppone che il sistema si doti di un criterio semplice e applicabile in modo universale di selezione dell’agente contrattuale al livello aziendale, ed eventualmente anche regionale. Con gli accordi interconfederali 2011, 2013 e 2014 Confindustria e sindacati confederali hanno compiuto un passo avanti importante su questo terreno; ma il criterio che hanno adottato, fondato sulla combinazione del dato elettorale con quello delle iscrizioni, è attualmente bloccato dall’impossibilità di ottenere quest’ultimo dato dalla maggioranza delle imprese. Questo potrebbe indurre il legislatore, se le parti sociali non troveranno un’altra soluzione, a limitare il riferimento al solo dato dei consensi ottenuti da ciascun sindacato nell’ultima consultazione per la costituzione delle r.s.a. o della r.s.u. (previa riscrittura della relativa disciplina contenuta nell’articolo 19 dello Statuto), col vincolo che questa si sia tenuta entro l’ultimo triennio.
Quanto al rischio del proliferare di un sindacalismo aziendale con confini poco chiari rispetto al fenomeno del “sindacato di comodo”, la soluzione potrebbe consistere nel porre il requisito del radicamento del sindacato stipulante in almeno tre o quattro regioni. Un requisito, cioè, che non impedisca il nascere di un sindacato per così dire specializzato nel compito di promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno e quindi di attirare nelle zone più arretrate del Paese il meglio dell’imprenditoria disponibile, italiana e no. Perché su questo terreno il sindacato confederale purtroppo si sta rivelando più un ostacolo che un fattore di sviluppo.
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