PIENA CONCORDANZA CON QUANTO IL PAPA AFFERMA IN TEMA DI ETICA DEL LAVORO; FORTE PERPLESSITÀ SUGLI INTERVENTI DEI VESCOVI GALANTINO E BAGNASCO SU TEMI CHE ATTENGONO ALL’AUTONOMIA DELLA SFERA POLITICA E LEGISLATIVA
Lettera pervenuta il 21 agosto 2015 – Seguono la mia risposta, la replica della lettrice, tre mie precisazioni e una ulteriore replica della lettrice
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Gentile senatore, da un po’ di tempo, seguo il Suo blog, ricco di argomenti e temi interessanti. Apprezzo la Sua cultura e il Suo impegno politico. Mi colpisce però il Suo assoluto silenzio su quanto Papa Francesco ha dichiarato di recente sui temi del lavoro. Ricordando la Sua estrazione cattolica, mi interessa sapere cosa ne pensa su quanto il Papa dichiara ovvero: ” La gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un mercato divinizzato”. Abbiamo divinizzato il mercato del lavoro, senatore? Aggiunge inoltre il Santo Padre: “Solo nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale l’essere umano accresce ed esprime la dignità della propria vita”. Per il Papa il lavoro “può essere una via di santità se è svolto come continuazione dell’opera creatrice di Dio”. Secondo Lei, la solidarietà nel lavoro è una via di santità, come afferma Papa Francesco? Cos’è per Lei la solidarietà nel lavoro? E’ un valore? Sarò lieta di conoscere la Sua opinione al riguardo, magari leggendola direttamente sul Suo blog. Con stima
Elisabetta Sarto
Sul punto che il mercato in generale, e quello del lavoro in particolare, non debbano essere divinizzati non ho alcun dubbio sul piano teologico. Mi spingo anzi a considerare come essenziale, nell’eredità biblica cui cerco di ispirare la mia vita, il rifiuto di divinizzare e quindi assolutizzare qualsiasi cosa appartenente a questo mondo. Se poi spostiamo il discorso dal piano teologico a quello economico-sociale, ho sempre pensato (e scritto) che, rispetto ad altri mercati, quello del lavoro sia assai più profondamente caratterizzato da imperfezioni che postulano e giustificano interventi correttivi sia sul piano della disciplina giuridica del contratto di lavoro, sia sul piano dell’intervento pubblico volto a innervare questo mercato di servizi capaci di compensare il difetto di informazione, di formazione specifica e di mobilità. Che è il difetto tipico della metà più debole dei lavoratori. Sulla prima affermazione di Papa Francesco citata dalla lettrice mi sento dunque in piena sintonia anche come studioso dei problemi e del diritto del lavoro. Concordo anche con la seconda affermazione del Papa, citata dalla lettrice, secondo cui “solo nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale l’essere umano accresce ed esprime la dignità della propria vita”; e non soltanto sul piano etico, ma anche su quello giuridico, poiché vedo questi quattro aggettivi qualificativi come altrettante specificazioni della diligenza (dal latino diligere, cioè amare) che deve caratterizzare sia la prestazione contrattuale del lavoratore sia quella dell’imprenditore: rinvio su questo punto alla risposta data a un’altra lettrice due settimane fa. È proprio la diligenza intesa in quel senso originario ciò che rende “creativo” anche il lavoro più umile; e rende “solidale” l’atteggiamento reciproco non solo tra datore e prestatore, ma anche tra gli stessi e i destinatari dei beni o servizi prodotti nell’azienda. La terza affermazione del Papa citata dalla lettrice si colloca invece su di un piano diverso sia rispetto a quello etico sia rispetto a quello giuridico. Affermare che il lavoro “può essere una via di santità se è svolto come continuazione dell’opera creatrice di Dio” implica la fede nella capacità di ogni nostro atto di connotare – nel bene e nel male – il senso ultimo della nostra vita, assumendo un valore che non si esaurisce nel tempo e nello spazio. Qui c’è qualche cosa di più anche rispetto a quell’amore per il proprio lavoro e per i suoi beneficiari in cui si concreta la diligenza menzionata oggi dal Codice civile e due millenni fa dai giureconsulti romani.
Detto tutto questo, aggiungo però che la pastorale del lavoro – sia essa del Sommo Pontefice, della Conferenza Episcopale, o di qualsiasi altro singolo esponente del magistero ecclesiastico – deve rispettare i confini indicati dalla Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, cioè mantenersi sul piano della guida morale e teologica, rinunciando a limitare l’autonomia della sfera tecnica, politica e legislativa. In altre parole, deve astenersi dal fornire indicazioni specifiche circa il modo e gli strumenti con cui il legislatore, l’amministratore, le associazioni sindacali o imprenditoriali, i servizi per l’impiego pubblici e privati, devono operare per correggere o compensare i difetti di funzionamento tipici del mercato del lavoro. Il discorso vale anche in riferiment0 alle forti sollecitazioni che in questi giorni sono venute dal magistero ecclesiastico sul terreno della politica dell’immigrazione e su quello della legislazione in materia di diritti civili. Sia sul primo terreno, sia sul secondo, una cosa è indicare il precetto morale cui deve attenersi chi aspira a conformare al Vangelo il proprio comportamento verso gli immigrati o nei rapporti familiari e sessuali (sempre, peraltro, tenendo presente la folgorante lezione di Dietrich Bonhoeffer sui rapporti tra morale e politica); una cosa molto diversa e sicuramente estranea ai compiti di una Conferenza Episcopale, è indicare la soluzione legislativa o amministrativa dovuta su queste materie dal cristiano in quanto tale. In questo senso mi è parso un po’ inappropriata l’invettiva lanciata nei giorni scorsi contro il ceto politico italiano dal segretario della Conferenza Episcopale Italiana monsignor Galantino in tema di immigrazione, così come mi è parsa mal formulata la dichiarazione del Cardinal Bagnasco in tema di unioni civili. La laicità, come metodo fondamentale della buona politica, sta proprio nella rinuncia da parte di ciascuno a possedere verità rivelate, ad altri precluse, circa i contenuti concreti, in un dato contesto storico-politico, della buona legislazione o della buona amministrazione. (p.i.)
LA REPLICA DELLA LETTRICE
Gentile professore
ho letto la Sua risposta con vivo interesse e particolare attenzione dovuta, forse, alla professione che svolgo (psicologa del lavoro). Apprezzo molto la Sua puntualità e la Sua celerità nel rispondermi con un garbo che mi stupisce in un politico e in un periodo non di elezioni! Mi perdoni la battuta.
Entro nel merito della Sua “articolata” risposta. Riguardo alla mia domanda in tema di “divinizzazione del mercato”, il Suo pensiero è da me pienamente condiviso perché Lei afferma la necessità dell’intervento pubblico rivelando così una visione “keynesiana” del mercato (in questo caso, del mercato del lavoro) che, se lasciato a se stesso, danneggerebbe la parte debole dei lavoratori.
Raffigurandomi così la Sua stessa visione, mi riprometto quindi di meglio approfondire le ultime decisioni governative a riguardo, togliendomi gli occhiali del pregiudizio e sforzandomi di superare il mio scettismo. Sulla solidarietà, Le confesso che in un primo momento ho letto la Sua risposta come una “non risposta” avendo svolto una riflessione piuttosto sulla diligenza e non sulla solidarietà vera e propria. Seguendo lo stesso Suo cammino di riflessione, sono allora andata a cercare il significato etimologico di solidarietà. Solidarietà deriva dal termine francese “solidaritè” che indica impegno etico-sociale in favore di altri. E’ un concetto nuovo e moderno quindi rispetto al concetto di diligenza, di derivazione latina. Per me, solidarietà è empatia verso il prossimo, è atteggiamento di benevolenza e comprensione, sforzo attivo e gratuito teso a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che ha bisogno di aiuto. Nel mondo del lavoro, solidarietà è accettare di ridurre il proprio salario e orario di lavoro se significa evitare il licenziamento di altri (emblematici i contratti di solidarietà). Solidarietà è anche non approfittare, nella stessa azienda, della propria posizione di vantaggio in termini di diritti a discapito di chi quei diritti non li ha perché entrato in azienda all’epoca del Jobs Act. Dal lato del datore di lavoro, solidarietà è accettare di vedere ridotto il proprio profitto (che pur sempre deve rimanere perché l’imprenditore non è certo un benefattore dell’umanità) se ciò significa salvare il posto dei lavoratori. Quindi ricerca del profitto si, ma non unico scopo a discapito di altri umanamente preziosi, come ha fatto osservare Papa Francesco.
Dal lato del lavoratore, la solidarietà si traduce nei confronti del datore di lavoro accettando la flessibilità all’interno della stessa “casa” azienda in termini di orario di lavoro e mansioni se ciò consente il salvataggio dell’imprenditore prossimo a un fallimento. Sappiamo quanto un fallimento possa destabilizzare in maniera grave un imprenditore e conosciamo anche lavoratori pronti al sacrificio pur di aiutare il datore di lavoro a non fallire. È però pur vero che solidarietà è condividere propositi e responsabilità, è complicità e intesa volta a raggiungere gli stessi obiettivi.
E allora chi ha ragione tra Lei e me? Sono arrivata alla conclusione che abbiamo ragione entrambi se uniamo le nostre diverse visioni di solidarietà, senza escludere nessuna. Insomma, per avere una visione completa della solidarietà dovremmo essere noi solidali nel concepirla nei diversi punti di vista ma pur sempre in un unicum. Io la Sua visione l’ho intesa e confido che anche la mia non Le sia indifferente. Lieta dell’incontro epistolare, forse un giorno avremo occasione di conoscerci personalmente.
Elisabetta Sarto
TRE PRECISAZIONI
1. Non occorre essere “keynesiani” per essere convinti delle numerose distorsioni che strutturalmente possono ridurre l’efficienza di un mercato del lavoro, in assenza di interventi correttivi: tutta l’economia del lavoro dell’ultimo mezzo secolo riconosce e studia quelle distorsioni.
2. Concordo con quanto esposto in questa replica in tema di solidarietà, salvo un solo punto: in un mercato del lavoro ben funzionante, che l’impresa dissestata fallisca può essere un bene non solo per l’impresa (che può talvolta ripartire, liberata dai debiti pregressi, con un nuovo imprenditore), ma anche per il lavoratore che venga debitamente sostenuto nel passaggio a un’impresa meglio capace di valorizzare il suo lavoro. Non concordo, dunque, con l’idea, maggioritaria in Italia e sostenuta dalla “pastorale del lavoro” di molte diocesi, secondo cui è sempre un bene che un’impresa decotta venga tenuta in vita: questa idea nuoce allo sviluppo del Paese (v. il mio editoriale telegrafico del 10 agosto, Per avere più lavoro e migliore occorre anche saperlo perdere. La solidarietà con i lavoratori, nelle crisi aziendali, deve consistere nel sostegno che si dà loro nel passaggio a un nuovo lavoro in condizioni di sicurezza economica e professionale.
3. Mi sembra che il concetto di solidarietà cui E.S. fa riferimento si collochi principalmente sul piano della morale individuale, mentre – come ho precisato nella mia risposta – quello della diligenza cui ho fatto riferimento io si colloca esclusivamente sul piano giuridico: due piani diversi, sui quali si svolgono due discorsi diversi, ancorché tra loro complementari e caratterizzati da molti evidentissimi punti di contatto. Il dover essere giuridico è (o dovrebbe essere) sempre caratterizzato da una forte interazione e tendenza alla sovrapposizione con il dover essere morale. (p.i.)
LA NUOVA REPLICA
Gentile Senatore, Leggo solo ora le Sue puntuali precisazioni e sono nuovamente a ringraziarLa per il tempo che mi sta dedicando a riprova della Sua gentilezza e dedizione nell’interloquire con i Suoi lettori. Non dimenticando mai l’obiettivo di trovare gli orizzonti che ci uniscono e non le strade che ci separano, in un’ottica di un dialogo costruttivo e sereno, mi consenta di replicare alle Sue osservazioni. Lascio ancora una volta a Lei la decisione di pubblicarLe laddova voglia rendere, come spero, questo nostro dialogo pubblico e trasparente.
1. Definendo “keynesiana” la Sua visione, era mio intento dare un giudizio positivo. Per me, Keynes è un grande economista e le sue teorie sono immortali e continuano, forse in fasi alterne della Storia, ad essere considerate importanti. Ho come l’impressione che l’aggettivo “keynesiano” sia per Lei negativo (come se l’avessi definita “comunista” quando Lei, così come ha ben ricordato ai Suoi lettori, comunista non lo è mai stato avendo militato nel Pci con animo liberal-democratico). Per me, non lo è. Ma al di là delle personali convinzioni (io keynesiana, e Lei no; io orgogliosamente ex comunista e Lei orgogliosamente eterno liberal-democratico), Le chiedo: non crede che tutta l’economia del lavoro dell’ultimo mezzo secolo, che riconosce e studia quelle distorsioni, si fondi imprescindibilmente su un approccio keynesiano? Altrimenti mi dica a quali economisti del lavoro ” non keynesiani” che studiano le distorsioni del mercato, Lei si riferisce e verificherò se sono di scuola keynesiana oppure no. Se non lo sono, sarò pronta a ricredermi dall’aver definito la Sua visione ontologicamente keynesiana. Diversamente, rimarrò nella mia opinione.
2. Prendo atto che Lei concorda con quanto da me esposto in tema di solidarietà e quindi, sebbene Lei non lo espliciti chiaramente ma lo sottintenda, concorda sul fatto che ho chiaramente descritto ovvero che solidarietà è anche, dal lato datoriale, accettare di veder ridotto il proprio profitto se significa salvare i posti di lavoro. Non posso quindi che accogliere con gioia questo Suo “melius re perpensa” considerati i tempi che corriamo.
3. Lei non concorda in un unico punto con me ovvero quello di vedere come una accezione negativa il fallimento di un’azienda potendo essere lo stesso un bene anche per il lavoratore che venga sostenuto nel passaggio ad altra impresa. Siamo d’accordo purchè, come Lei stesso premette, ci si trovi in un mercato del lavoro ben funzionante. Ma di fatto, ed è questo il grosso problema, così non è o non lo è ancora. Ad oggi, sebbene ci siano stati continui sforzi legislativi, il mercato del lavoro non solo non funziona ma è altresì gravemente totalmente assente una politica industriale concreta nel nostro Paese. Per cui, sento mia la pastorale del lavoro (di cui confessa, in un impeto sincero che apprezzo, di non condividere) quando ritiene che sia un valore salvare i posti di lavoro tenuto conto che siamo lontani dal mercato del lavoro ben funzionante che Lei auspica. Non sono però indifferente alla Sua vocazione solidale nei confronti dei lavoratori e che si esplicita nell’aiutarli nel passaggio ad un altro lavoro. E’ un’alta e rispettabile concezione di solidarietà. Io credo che entrambe le azioni solidali (salvataggio dei posti di lavoro o aiuto ai lavoratori finalizzato a una loro ricollocazione) possano essere perseguite distinguendo caso per caso e non ritenendo una azione migliore dell’altra per pregiudizio ideologico. Da parte mia alcuna pregiudiziale ideologica e mi piace pensare che non la nutri neanche Lei. A Lei sembra che il mio concetto di solidarietà si collochi su un piano morale mentre il suo concetto di diligenza si colloca su un piano giuridico. Su questo, dissento. Il principio solidaristico è un valore giuridico poichè è posto dalla nostra Costituzione (art. 2) tra i valori fondanti del nostro ordinamento tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito come diritto inviolabile. Quindi, non sposti sul piano morale ciò che è su un piano giuridico. Rimaniamo sullo stesso piano. Forse il mio concetto di solidarietà è più caldo ( concepito da una generazione di giovani giuristi antifascisti) rispetto a quello più freddo della diligenza (concepito da una generazione di bravissimi giuristi dell’epoca fascista). Comprendo come la Costituzione possa essere poco digerita dalla attuale classe politica ma rimane, piaccia o non piaccia, la nostra Grundnorm e il principio di solidarietà il leitmotiv (parole del costituzionalista Barile) della nostra Carta. Tra la mia “calda” opinione della solidarietà e la Sua “fredda” definizione di diligenza, possiamo trovare un punto incontro delle nostre strade parallele? Cordiali saluti
Elisabetta
Non attribuisco alcuna valenza negativa all’aggettivo “keynesiano”; penso soltanto che la sinistra post-marxista si fregi di questo attributo senza aver considerato a fondo il contenuto della ricetta keynesiana (la quale si propone come un rimedio alla rigidità verso il basso dei salari nominali). Riconoscono le distorsioni che caratterizzano il mercato del lavoro anche numerosi economisti contemporanei che oggi non considerano attuali, in riferimento al contesto italiano ed europeo, la ricetta keynesiana. Per il resto, anch’io non vedo contrasti sostanziali tra quello che pensa Elisabetta (cui vanno i miei ringraziamenti per questo scambio) e quello che penso io. (p.i.)
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