A UN INSEGNANTE PUBBLICO NON È CONSENTITO DI NON AMARE IL PROPRIO LAVORO, E ANCOR MENO DI ESSERE INCAPACE DI SVOLGERLO
Lettera pervenuta il 10 agosto 2015 – Segue la mia risposta
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Caro Professor Ichino, conceda una riflessione a una persona con forte passione per l’insegnamento che si è allontanata dalla scuola perché non ha saputo reggerne il clima. Finita l’Università, in attesa del concorso, presentai domanda a tutte le scuole della città dove risiedevo e, dopo qualche mese, venni chiamata per una supplenza. Erano passati solo pochi anni da quando anch’io ero stata una liceale (mi ero diplomata nel 1980), ma era come fosse passato un secolo. Lasciamo da parte la classe che mi era stata affidata: ragazze maleducate, capeggiate dalla solita sbruffoncella che si faceva forte di un po’ di faccia tosta e dell’adorazione di papà e mamma: qualcosa si sarebbe potuto fare. Il vero problema era il corpo insegnante: persone totalmente disinteressate agli studenti, ai programmi e a tutto ciò che non riguardasse come scambiarsi le ore, come sfruttare a proprio vantaggio la burocrazia e, soprattutto, come ottenere l’agognato posto fisso. Invano ho cercato qualcuno con cui poter parlare di come interessare le studentesse allo studio. Lo ammetto, non ho resistito: quella è stata la mia prima e ultima supplenza. Uscita da quella scuola ho abbandonato l’idea di insegnare. Non perché non fossi sicura di come avrei potuto gestire le classi ma perché mi aveva distrutto la sala insegnanti. Amiche di università che hanno proseguito la carriera di insegnante mi narravano di colleghe/i che spiegavano agli alunni che Carlo Magno era una figura mitologica, oppure facevano imparare a memoria agli alunni il parere espresso da Giotto sull’opera di Michelangelo! Con il passare degli anni, osservando ormai le cose dall’esterno, mi sono formata un’opinione: non è un insegnante colui/colei che sa (matematica, storia, geografia): è un insegnante colui/colei che sa insegnare. Che sa creare un rapporto con ogni singolo studente e con l’intera classe, che sa capire come ciascuno apprenda in maniera diversa e vada stimolato in maniera diversa. Che sappia far collaborare gli studenti fra di loro, tirando fuori il meglio che c’è in ciascuno. Un insegnante non è solo bravo nella sua materia, è anche uno psicologo e un sociologo, è una persona che instaura un rapporto emotivo con gli altri, è una persona che intuisce per cosa lo studente è portato e lo aiuta ad approfondire ciò che più gli interessa, aiutandolo a intraprendere una carriera che, assecondando la propria natura e le proprie inclinazioni, lo renderà un adulto professionalmente appagato. Intendiamoci: so che esistono tantissimi insegnanti di questo genere, e che sono sostenuti da presidi adeguati. Ho avuto un sussulto di gioia quando ho appreso che ai presidi sarebbero stati conferiti poteri manageriali. Se un preside può scegliersi il proprio corpo insegnante, allora può decidere che tipo di scuola può offrire. E credo che finalmente gli insegnanti veri potranno avere una chance. Fare l’insegnante non è un lavoro per tutti, così come non lo è fare il medico o l’avvocato. Se ciascuno seguisse la propria vocazione, e gli/le venissero offerte opportunità di mettersi in gioco per ciò che veramente sa e può fare, credo che l’intera società ne guadagnerebbe.
Mi è parso di capire, da quanto leggo sui giornali, che i sindacati la pensano in maniera diametralmente opposta.
Buon Ferragosto e, per favore, non smetta di lottare! Grazie per l’attenzione e a presto,
Carolina Baioni
Ciò che ha – giustamente – disgustato l’autrice di questo messaggio, nel comportamento delle colleghe insegnanti, ha un nome tecnico: difetto di diligenza. Di questa espressione i non giuristi non conoscono il significato preciso, che merita invece di essere ben messo a fuoco, perché è ricco di implicazioni anche molto precise, incisive e per certi aspetti anche sorprendenti. La diligenza è la qualità più importante che connota il modo in cui deve essere adempiuta qualsiasi prestazione contrattuale, in particolare quella di lavoro, e in modo particolarissimo quella dell’insegnante. Il termine deriva dal latino diligere, che vuol dire amare; e fin dai tempi del diritto romano classico i giureconsulti individuavano il livello di diligenza dovuto nell’adempimento dell’obbligazione assumendo come parametro il modo in cui il “buon padre di famiglia” si comporta verso i propri familiari: la diligenza dovuta è quella del buon padre di famiglia. Non di un genitore qualsiasi, ma di un “buon” genitore: il quale antepone il bene dei propri familiari al proprio e orienta tutto il proprio comportamento al soddisfacimento delle loro esigenze. Così deve comportarsi – per tornare al discorso della nostra lettrice – qualsiasi insegnante: deve curare la scuola come fosse la propria casa, trattare ogni studente come fosse un proprio figlio. Deve ingegnarsi, come farebbe con un figlio, per far sì che ciascuno studente non solo apprenda ciò che deve apprendere, ma anche impari ad amare lo studio, ci si appassioni; e, come il buon genitore, il buon insegnante sa che il modo migliore per ottenere questo è testimoniare personalmente ogni giorno la stessa passione. Il buon genitore pensa prima a questo obiettivo da raggiungere per i propri figli, tutto il resto viene dopo; altrettanto deve dunque fare l’insegnante. E questo vale, come è ovvio, a tutti i livelli dell’istruzione, università compresa. In aggiunta alla diligenza del buon padre di famiglia, ogni lavoratore deve poi applicare nello svolgimento della propria prestazione la diligenza tecnica (articolo 21o4 del Codice civile), che presuppone la capacità di eseguire il lavoro a regola d’arte: in altre parole, non basta l’amore del buon genitore, ma occorre anche la professionalità specifica: quella che manca drammaticamente all’insegnante di lettere o storia dell’arte che non conosce la differenza tra il tempo di Giotto e quello di Michelangelo; ma che similmente manca anche a troppi nostri insegnanti: mia figlia ha avuto per un anno, al liceo, un professore di filosofia che dichiarava apertamente di non sapere un’acca della propria materia (a seguito delle proteste dei genitori e degli studenti non è stato licenziato per radicale inidoneità professionale: è stato soltanto trasferito, a far danni in un altro liceo). Ecco, nella scuola pubblica italiana da molto tempo non è più richiesta agli insegnanti né la diligenza del buon padre di famiglia né la diligenza tecnica. Esse sono gradite, beninteso, e da molti docenti praticate, ma non fanno parte di ciò cui l’insegnante è davvero obbligato. Il difetto dell’una o dell’altra diligenza non comporta alcuna sanzione. Neppure la minima differenza di trattamento. Al Governo, che si propone di reintrodurre con mille cautele una possibilità di valutazione della didattica, troppi insegnanti oppongono un rifiuto drastico, motivato con la pretesa incompatibilità tra la valutazione e la “libertà di insegnamento”. Se malauguratamente questa opposizione dovesse prevalere, ne conseguirebbe la perpetuazione di un handicap grave della scuola pubblica rispetto alle private. Parificate e no. (p.i.)