UN BREVE SAGGIO SUL RUOLO DEI LIBERAL-DEMOCRATICI NEL CENTROSINISTRA ITALIANO, SULLE SUE DIFFICOLTÀ E SUI SUOI PRODOTTI CONCRETI
Introduzione di Alessandro Maran – confluito con tutto il Gruppo dei senatori SC in quello del Pd nel febbraio 2015 e nel giugno successivo eletto vicepresidente di quest’ultimo Gruppo – al proprio E-Book Una lunga fedeltà. La fatica di Sisifo di chi vuole cambiare le cose, luglio 2015.
«La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente»
John Maynards Keynes
Questo libro è una scatola colma di ritagli di giornale e di vecchie foto che raccontano le battaglie riformiste che ho combattuto negli ultimi anni. Le racconto a modo mio, ovviamente. Il volume raccoglie, appunto, alcuni discorsi parlamentari e una selezione degli articoli che ho scritto sui giornali. Gli interventi sono raggruppati per argomenti e all’interno di ogni capitolo l’ordine è cronologico. Qualsiasi riorganizzazione tematica di materiali pubblicati in sedi diverse e senza l’idea di essere poi raccolti in un libro, è inevitabilmente imprecisa e presenta sovrapposizioni e ripetizioni. Di queste mi scuso con i lettori, che tuttavia sapranno facilmente riconoscerle e ricostruire l’argomento come loro fa comodo.
Leggendo Raymond Carver abbiamo capito che quando i fatti esplodono non è l’esplosione ad essere decisiva, bensì il momento in cui è stata accesa la miccia, il momento in cui è stata preparata, il momento in cui a qualcuno è saltato in testa di prepararla, ecc. E rileggendo tutti insieme i pezzi da inserire in questa raccolta sono stato io stesso sorpreso dall’evidenza di un tema che ricorre con poche variazioni da un articolo all’altro: come dare finalmente alla sinistra quel volto moderno che ancora non riesce ad avere; come trovare il modo di parlare alle nuove generazioni e all’insieme della società proponendosi come agente del cambiamento e non della conservazione.
Si tratta di una raccolta di interventi il cui tema centrale è la società italiana, i suoi mali, le sue inquietudini; e il Pd resta l’oggetto della frequentazione più costante. Perché per affrontare le componenti essenziali della crisi italiana, le riforme bisogna farle davvero. E senza un partito riformista degno di questo nome, le riforme, quelle vere, si stenta a farle. Il guaio è che se non si prende sul serio la necessità di cambiare, non si sente l’esigenza di una sinistra adeguata all’oggi, adatta cioè al moderno conflitto politico e sociale. E si finisce per continuare, come se nulla fosse, con la tradizione politico-sindacale più consolidata: quella che, per intenderci, vuole che a far crescere la pecora «da tosare» pensi il padrone. Questo libretto è, innanzitutto, la cronaca di un cambiamento molte volte promesso e altrettante volte rinviato e contraddetto. Infatti, non è un mistero per nessuno che i parlamentari di Scelta Civica che sono confluiti nel gruppo parlamentare del Pd e tornano nel partito che hanno contribuito a fondare, hanno anticipato le riforme del governo Renzi quando erano tra i pochi «renziani»; e non è un mistero che ora le stanno sostenendo con determinazione molto maggiore di quanto non stia facendo la minoranza Pd.
L’appello che ci ha rivolto il segretario del Pd apre la raccolta e ha un significato niente affatto scontato: nel Pd, le idee liberal-democratiche che costituiscono il patrimonio di Scelta Civica, hanno pieno diritto di cittadinanza. Un punto politico che, a modo suo, Stefano Fassina (che infatti ora ha lasciato il Partito democratico), ha riconosciuto:«A mio avviso si è data una rilevanza politica eccessiva all’arrivo di alcuni parlamentari nelle fila del Pd. In realtà è il Partito democratico che in questi mesi si è spostato sulle posizioni di ex montiani come Ichino. Il punto politico per noi è lo spostamento dell’asse programmatico culturale del Pd verso l’agenda Monti. Questa è la questione. Che poi arrivino dei naufraghi questo è un aspetto davvero secondario e non cambia nulla dei termini del nostro dibattito. Il punto fondamentale è appunto lo spostamento del Pd» (Libero, 11 febbraio 2015).
Il fatto é che il nostro sistema politico sta finalmente evolvendo verso un bipolarismo moderno caratterizzato dalla competizione diretta tra i due partiti maggiori, giocata sulla conquista del «centro». Una cosa completamente diversa dal bipolarismo del 2013 (Bersani-Vendola contro Berlusconi-Maroni) tutto giocato sulla conquista dei voti sulle ali. Diciamoci la verità: era ora. E che si tratti di una nostra vecchia fissazione lo testimonia Chiara Geloni: «Trovo che ciò che è interessante, nel modo di ragionare di Maran e nei suoi articoli, è come cerca di risolvere, considerandola fondamentale, la questione dell’identità del partito nuovo. La sua idea di vocazione maggioritaria non ha niente da spartire con certe liquidatorie leggerezze post identitarie; la sua esigenza di innovazione, nei contenuti e nella classe dirigente, non è lontanamente parente dei nuovismi radicaleggianti alla moda. Tutto quello che Maran pensa e scrive è figlio di una lettura approfondita, e spesso della conoscenza diretta, delle esperienze in corso negli altri paesi, soprattutto europei. Di come le “vecchie” socialdemocrazie hanno saputo conquistare il “centro”, in senso non geometrico o politologico, ma nel senso pienamente politico di saper essere centrali nella società. Per questo Maran ha creduto nella piattaforma del Lingotto e nella nuova stagione veltroniana, ha vissuto la delusione per il suo spegnersi ed è preoccupato per il nuovo corso del Pd in cui teme che possa prevalere la sfiducia nella capacità espansiva del partito nuovo, portato a delegare agli alleati quello che invece dovrebbe puntare esso stesso a rappresentare» («La mia Europa», 2009).
Molte delle battaglie che hanno animato gli interventi raccolti in questo volumetto non hanno perso di attualità. Le tracce di quelle battaglie si possono trovare nelle cose che il presidente del Consiglio sta provando a realizzare adesso: le riforme istituzionali, la riforma del mercato del lavoro, una visione economica adeguata alla modernità globale, la giustizia. Per non parlare del rifiuto della demonizzazione dell’avversario e degli eccessi giustizialisti; dell’auspicare per il Pd di una rappresentatività oltre i confini della sinistra tradizionale; della tenacia con cui viene posto il tema delle riforme economiche respingendo corporativismi e ristrettezze classiste; della difesa di un impianto europeista pur in presenza di forze ostili all’euro; della collocazione del Pd nel campo del socialismo europeo. In generale, la lotta contro il massimalismo conservatore della sinistra. Lo stesso che anima gli avversari interni di oggi di Matteo Renzi. È questa la ragione per cui ho pensato di raccogliere gli interventi in volume.
A ben guardare, lo scontro nella sinistra è ancora quello tra Bernstein e Lenin. Tra una sinistra liberale e una sinistra radicale che, come sempre, afferma di incarnare la «vera sinistra» e che, come sempre, ricorre ad una retorica della rottura radicale con il capitalismo (oggi si preferisce parlare di «liberismo selvaggio»). Lo abbiamo visto in questi giorni. Anche in Italia erano in parecchi a sperare che Syriza guidasse la Grecia al trionfo e alla rivoluzione, assestando un colpo decisivo al capitale finanziario internazionale. Anche se in realtà le forze principali della sinistra europea non sono affatto disponibili a seguire l’utopia di Syriza, come dimostra l’atteggiamento della Spd che non si è affatto discostato da quello esigente di Angela Merkel. Ma è proprio questa sinistra europea (ed europeista) che nei salotti non piace più. Per non parlare degli europei dell’est (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, ecc.), più poveri della Grecia e perlopiù «di sinistra», che in quegli stessi salotti non trovavano difensori neppure quando erano schiacciati dall’Urss. Ma si tratta, come ha scritto il settimanale Le Point, di una «gigantesca impostura».
L’avvento di Tsipras avrebbe dovuto cancellare d’un tratto la troika, i memorandum, il debito e l’austerità, aprendo le porte di un futuro economico e sociale radioso. In soli sei mesi la demagogia populista di una coalizione che ha unito destra e sinistra estreme nel rifiuto delle riforme, ha messo la Grecia in ginocchio. E alla fine è stato Tsipras a cedere al panico di fronte alla recessione, alla fuga dei capitali, alle file ai bancomat, scegliendo di prescrivere una cura di austerità più dura degli otto miliardi di tagli e tasse a cui i greci hanno detto «Oxi» nel referendum. Se Tsipras avesse accettato a febbraio meno austerità di quella a cui è costretto oggi, ora la Grecia si troverebbe nella posizione di Irlanda e Portogallo, l’economia crescerebbe del 2,5 per cento, la disoccupazione sarebbe in calo e le file si vedrebbero solo sui moli di imbarco dei turisti al Pireo. Al dunque, tuttavia, Tsipras ha capito che fuori dall’euro c’è più austerity che nell’euro. L’accordo ha seppellito la brigata internazionale dei Vendola, dei Fassina e dei Grillo, accorsa ad Atene per l’eroico referendum del 5 luglio scorso e quella che Mark Mazower, che insegna alla Columbia University, sul New York Times, ha definito «worst excesses of student politics», puntualizzando: «una cultura studentesca che assegna un valore aggiunto all’attivismo e che intravede un potenziale rivoluzionario in ogni occupazione scolastica».
Da qui le sparate contro i creditori «terroristi», il Fmi «criminale», il referendum convocato per dire no all’Europa dell’austerità, ecc. Ma secondo Le Point, questo è «uno scontro storico», che non finisce con l’Iva o l’età pensionabile alzate ai greci. Non c’è dubbio che per tenere assieme l’area monetaria ci vuole maggiore convergenza, maggiore cessione di sovranità, e che questa deve essere accompagnata da un rafforzamento della legittimità democratica dei centri decisionali europei e da meccanismi solidaristici e di distribuzione del rischio tra i Paesi membri. Ma fateci caso: in Grecia, la bancarotta (dello Stato) è colpa del liberismo selvaggio. E anche in Italia, dove la mano pubblica arriva dappertutto e provoca voragini, dove lo Stato è onnipresente, la colpa è sempre del liberismo selvaggio; e una nuova teoria, quella del «benecomunismo», consacra il dirigismo statalista come l’unica ricetta per tenere a bada il liberismo imperante. Siamo alle solite. E, ancora una volta, la prospettiva, per arginare la sbandata populista, resta semplice e seria: rappresentare e costruire effettivamente quella sintesi tra cultura liberale e socialista che è una forma storica concreta del riformismo europeo.
E’ una vecchia storia, si sa: mentre negli altri paesi dell’Europa occidentale – con la sola eccezione della Francia – la sinistra riformista, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stata grandemente maggioritaria, da noi essa è stata sempre minoritaria e, di conseguenza, sempre perdente. E’ accaduto così che la sinistra italiana si è scissa in due grandi famiglie: la famiglia di coloro che hanno avuto ragione ma che, per il loro scarso peso politico, non hanno fatto la storia e la famiglia di coloro che non hanno avuto ragione, ma che, forti del sostegno delle grandi masse, hanno fatto la storia. Con la conseguenza che sia i riformisti che i massimalisti sono risultati sconfitti. I primi sono stati dei riformisti senza riforme; i secondi dei rivoluzionari senza rivoluzione. Non per caso, la conclusione che Massimo Salvadori estrae dalla sua lucida ricostruzione dell’anomalia permanente che è stata la storia della sinistra italiana è che l’unico porto che gli ex comunisti «possono trovare aperto è quello idealmente apprestato da quel socialismo riformista e liberale che in Italia ha avuto ragione ma non ha fatto la storia». È, in fondo, la vecchia battaglia della corrente liberal-socialista del Pci. Non per caso, come sostiene Claudio Cerasa, gli unici ex Pci con cui Renzi si trova in sintonia sono «miglioristi». Ora la storia ha dato loro ragione. E Renzi può realizzare le idee che i «miglioristi» non hanno saputo realizzare.
Non ci riuscirono anche perché restarono prigionieri del mito dell’unità del partito. Per cui ad un certo punto, si rinunciava alla battaglia delle idee e ci si adeguava. Ma oggi non può più essere così. Il partito non è più «casa, chiesa e famiglia»; non è più oggetto di un atto di fede. Di più: non cambi l’Italia se non cambi la testa degli elettori del Pd. Perciò, quel che davvero conta è battersi fino in fondo per le proprie convinzioni. Le persone (e i progetti che queste sostengono) devono venire prima dei partiti. E il Pd di oggi può sconfiggere la vecchia sinistra con le riforme. Certo, con le sue capacità di rivolgersi direttamente al pubblico e di coglierne gli umori profondi, senza distinzioni di destra e di sinistra, Renzi ha dato nuova vita e forza ad una idea programmatica da tempo esistente nel Pd (e largamente minoritaria), ma quel che più conta è che ha finalmente messo in pratica quella «vocazione maggioritaria» che Veltroni aveva solo evocato producendo la rivolta degli oligarchi della ditta. È qui la vera innovazione di Renzi: la rottura della regola feudale dei poteri di veto nel partito, la messa in soffitta dell’oligarchia che governava il Pd secondo un principio di equilibrio (e dunque di paralisi) tra i diversi gruppi.
Aggiungo che tutta l’analisi andrebbe oggi aggiornata ai grandi mutamenti del mondo. E molte parole stanche andrebbero rivitalizzate, ripensate, abolite. Anche perché cresce il mercato globale delle idee; ed è una buona notizia. Anche per questo, mi piace ricordare un vecchio libro di John F. Kennedy (non su Kennedy). Si intitola «Profiles in courage» (Ritratti del coraggio). Il libro venne insignito del Premio Pulitzer e, a cinquanta anni di distanza, è uno di quei libri che ogni americano tiene nella propria libreria. Racconta le storie di otto senatori degli Stati Uniti che «al loro tempo riconobbero ciò che andava fatto e lo fecero»; «uomini i quali, mettendo a rischio se stessi, il proprio futuro e, addirittura, il benessere dei propri figli, sono rimasti fedeli a un principio».
Oggi che il discredito dei partiti e della politica ha raggiunto vette altissime, ci siamo dimenticati che il coraggio è parte integrante della vita pubblica. Eppure, come scrive Kennedy, «in quale altra professione, se non in quella politica, in regimi non totalitari, ci si aspetta che un individuo sacrifichi tutto, compresa la carriera, per il bene della nazione? Nella vita privata, come nell’industria, ci sia spetta che l’individuo porti avanti il proprio illuminato interesse, nel rispetto della legge, per raggiungere il successo assoluto. Ma nella vita pubblica ci aspettiamo che gli individui sacrifichino i loro interessi privati per permettere al bene nazionale di progredire. In nessun’altra professione, a parte la politica, ci sia aspetta da un uomo che sacrifichi gli onori, il prestigio e tutta la sua carriera per difendere una singola proposta di legge. Avvocati, uomini d’affari, insegnanti, medici, tutti prima o poi, affrontano personalmente decisioni difficili sulla questione della propria integrità, ma soltanto pochi, se non addirittura nessuno, le affronta sotto la luce accecante dei riflettori, come accade a chi occupa una carica pubblica; pochi, se non addirittura nessuno, affrontano una decisione altrettanto terribile, per la sua irreparabilità, come succede ad un senatore quando è chiamato a un importante appello nominale. Potrebbe volere un po’ più tempo per decidere, potrebbe credere che c’è ancora qualcosa da dire da una parte o dall’altra, magari potrebbe avere l’impressione che basterebbe un piccolo emendamento per togliere ogni difficoltà, ma quando sarà chiamato a quel voto non si potrà nascondere, non potrà sbagliarsi, non potrà temporeggiare, mentre avrà la sensazione che il suo elettorato, proprio come il corvo nella poesia di Poe, stia appollaiato lì, sul suo seggio in Senato, gracchiando ‘mai più’, mentre sta per dare il voto sul quale si sta giocando il suo futuro politico». A tutti, una volta eletti, tocca fare i conti con le pressioni che disincentivano il coraggio: il desiderio di piacere, il desiderio di essere rieletti, la pressione esercitata dal proprio elettorato, ecc. E, prima o dopo, capiterà a tutti di dovere scegliere tra quel che dice la coscienza, tra le proprie convinzioni e la via più facile, l’approvazione degli amici e dei colleghi, la popolarità.
Per questo, vale la pena di ricordare le storie degli otto uomini politici americani, «che mostrarono il vero significato del coraggio e della fiducia concreta nella democrazia». E, soprattutto, vale la pena di rammentare che il coraggio, ciascuno, dovrà cercarlo dentro se stesso. Certo, mentre «la locomotiva ha la strada segnata», sappiamo che «il bufalo, può scartare di lato e cadere». Ma qualunque cosa si dica in giro, le parole e le idee possono cambiare il mondo.
Gorizia, 17 luglio 2015
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