BOMBASSEI: NON SPETTA ALLE IMPRESE ATTIVARE I SERVIZI NEL MERCATO DEL LAVORO

IL VICEPRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA TORNA SUL PROGETTO FLEXSECURITY SOSTENENDO CHE SPETTA ALLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E NON ALLE IMPRESE ATTIVARE I SERVIZI DI ASSISTENZA NEL MERCATO DEL LAVORO, RIQUALIFICAZIONE E RICOLLOCAZIONE DEI LAVORATORI CHE PERDONO IL POSTO

Articolo pubblicato su il Riformista il 26 maggio 2009

Stimo molto il senatore Pietro Ichino per il suo indiscusso valore di giuslavorista e per la lungimiranza con la quale ha posto al centro del dibattito politico e sindacale temi di grande rilievo: dalla rappresentatività dei sindacati alla misurazione del  merito e della professionalità nel pubblico impiego. Da tempo sta proponendo una riforma della disciplina dei licenziamenti individuali scritta nel 1970 per un mondo del lavoro totalmente diverso dall’attuale, per un modo di produrre che non esiste più, per un mercato delle merci che da rionale è divenuto mondiale. E’, come tutti sanno, un’operazione non semplice tanto per gli aspetti giuridici quanto, se non soprattutto, per gli effetti politici e sociali che l’argomento trascina con sé. E, non dimentichiamolo mai, con prezzi assurdi come il sacrificio della vita di Marco Biagi.

Io non sono un giurista e quindi posso far seguito al cortese articolo del prof. Ichino (“Quanto costa licenziare? Una risposta a Bombassei “ ne il Riformista di venerdì 15 maggio) parlando come imprenditore che, per di più, ha l’onore e l’onere di dover rappresentare, sulle questioni sindacali e del lavoro, il pensiero dei tanti imprenditori, piccoli medi e grandi, associati a Confindustria. Il progetto è interessante e certamente ben costruito ma troppo complesso e, insisto, troppo costoso. La proposta, se mi è consentito semplificarla, dice che in caso di licenziamento non disciplinare – e quindi per motivi economici, tecnici od organizzativi – il lavoratore non solo ha diritto a tante mensilità quanti sono gli anni di anzianità, ma anche ad un “contratto di ricollocazione” che è un’ottima idea di ispirazione europea che ha l’unico difetto di essere posta tutta a carico delle imprese. Insomma l’impresa dovrebbe comunque pagare un costo per un licenziamento e non solo quando il licenziamento risulti illegittimo o peggio discriminatorio. Interessante è la tecnica legislativa che si vorrebbe adottare per attuare questa riforma: meno invasività del legislatore e più spazio all’autonomia collettiva nella costruzione di un contratto collettivo di transizione al nuovo sistema di protezione del lavoro. C’è solo un dubbio: con quale sindacato si può realizzare tutto questo? Il prof. Ichino rafforza qui la sua idea circa la funzione primaria di “coalizioni sindacali intelligenti” pronte a scommettere sulla bontà di certe sfide innovative delle imprese. Ma ci sono le condizioni perché questo si realizzi oggi? La riforma dovrebbe partire adesso e non fra dieci anni; e adesso quante sono le possibilità perché si formino coalizioni di organizzazioni sindacali senza che il tutto si trasformi in conflittualità permanente da far preferire un tradizionale intervento di legge? Ma ammettiamo pure che lo schema per la formazione di questo nuovo sistema di protezione del lavoro possa partire. Allora chiedo: per quale motivo le imprese dovrebbero sostituirsi alle inefficienze del servizio pubblico? Perché in effetti il cuore della proposta, condivisibile nell’obiettivo ma non negli strumenti, è di costituire degli enti bilaterali che dovrebbero garantire ai futuri licenziati (solo per motivi non disciplinari, perché per gli altri casi resta la reintegrazione) il sostegno del reddito ed una “assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore”. Siamo consapevoli dei costi che un ente di questo tipo (e poi quanti? uno per ogni settore che fa un contratto collettivo di categoria; uno per ogni grande comparto merceologico? uno solo nazionale?) dovrebbe sostenere? Giustamente nel suo progetto il prof. Ichino prevede anche un “valutatore indipendente” che dia i voti all’ente bilaterale sui risultati conseguiti e sul “tasso di coerenza fra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi”. Riconosco che l’impianto proposto richiama i modelli nord-europei di workfare e quindi l’efficienza dei servizi all’impiego e la verifica dei risultati. Non credo che debba essere il sistema delle imprese a doversi sostituire ad attività che dovrebbero essere proprie del sistema pubblico. Perché dovremmo rinunciare a quello che il prof. Ichino definisce “un improbabile scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro”? Se così dovesse essere allora la soluzione è presto detta: finanziamo i servizi resi dal privato con tutti i risparmi che deriverebbero direttamente dalla chiusura definitiva di tutte le strutture pubbliche che oggi per legge dovrebbero fornire i servizi che giustamente invoca il prof. Ichino per assicurare la più rapida transizione da un posto di lavoro ad un altro. Altrimenti le inefficienze dei servizi pubblici continueranno a permanere ed a gravare anche sui costi  delle imprese che dovrebbero in più farsi carico dei nuovi costi di supplenza. Le imprese private possono fare attività sussidiaria ma non di supplenza al pubblico e quindi da vita ad una bilateralità, efficiente e trasparente, che si ponga anche in concorrenza con il pubblico in modo da offrire, complessivamente, servizi all’altezza di un paese che si pregia ancora di far parte del G8. Un’ultima osservazione sui soggetti destinatari delle nuove tutele: non i lavoratori in forza. Infatti questi, tranne poche eccezioni di quanti volessero chiedere di entrare in questo nuovo meccanismo, è difficile che rinuncino alla tutela dell’art. 18. Restano solo le nuove assunzioni (sempre che avvengano in aziende che partecipano al nuovo “contratto di transizione”) che saranno tutte a tempo indeterminato. Se ho ben capito, un domani le imprese potrebbero assumere con contratto di apprendistato o con contratto a termine per poche predefinite causali e poi solo con contratto a tempo indeterminato. Quindi, sempre se ho ben capito, la riforma della parziale attenuazione e limitazione degli effetti dell’art. 18 – con i costi di gestione detti prima e quelli per l’indennizzo del lavoratore – potrebbe interessare con una gradualità ultradecennale una parte dei dipendenti ma nell’immediato ridurrebbe le assunzioni con contratto a termine e impedirebbe definitivamente l’instaurazione di rapporti di collaborazione? Se questi sono gli effetti è chiaro il motivo per cui ho detto, sia pure un po’ sbrigativamente, che è una riforma che toglie flessibilità organizzativa ed è troppo costosa. E questo lo dico io che appartengo ad un mondo, quello delle imprese di Confindustria, dove la flessibilità rappresenta solo un 5% dell’occupazione complessiva e dove oltre la metà delle assunzioni a termine viene trasformata a tempo indeterminato nell’arco di 18-24 mesi. L’ho affermato più volte: quel po’ di flessibilità organizzativa che è stata introdotta negli ultimi dieci anni non deve essere demonizzata. Non è lì la precarietà, specie dopo tutti gli interventi correttivi di legge e di contratto che hanno reso il tutto molto più tutelato anche se, ovviamente, molto più rigido. Si intervenga sugli abusi, sugli usi impropri, laddove si delinque e si sfrutta il lavoratore. Tutte situazione che niente hanno a che fare con l’economia sana che applica le leggi che – anche per i lavori cosiddetti atipici – assicurano tutele e garanzie. Se poi si vuole affrontare l’art. 18 credo che il nodo non sia la reintegrazione in sé, ma i tempi del processo (oggi, cinque-sei anni fra primo e secondo grado) e la possibilità del giudice di disporre alternativamente reintegrazione o risarcimento del danno. È, come sempre, una questione delle quantità in gioco. Nel progetto del prof. Ichino ne ballano di veramente significative: oltre all’integrazione del trattamento di disoccupazione (con decalage per quattro anni), un notevole prolungamento del periodo di preavviso dovuto ai lavoratori da licenziare e l’obbligo di corrispondere, comunque, un’indennità di fine lavoro commisurata sull’ultima retribuzione e, per tanti dodicesimi quanti sono gli anni di anzianità di servizio. Lo ha già detto la presidente Emma Marcegaglia e lo confermo: piena disponibilità a discutere ed approfondire ogni ipotesi di riforma. Però non vorrei dover anch’io parlare di una “trappola per le imprese” come  titolò  Il Corriere della Sera il commento che il prof. Ichino fece, nel 2001, alla riforma del contratto a termine con la quale si dava finalmente attuazione ad una intesa raggiunta in sede europea.

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