L’ARRIVO DALL’ESTERO DI INVESTIMENTI, CON IL LORO CORREDO DI CAPITALI, DI PIANI INDUSTRIALI E DI MANAGEMENT DOTATO DI COMPETENZE PROFESSIONALI ECCELLENTI, COSTITUISCE QUASI SEMPRE UN FATTO MOLTO POSITIVO PER L’ECONOMIA DEL NOSTRO PAESE
Articolo di Benedetto Della Vedova pubblicato su l’Unità del 30 luglio 2015.
La lettura anti-tedesca dell’investimento della Heidelberg in Italcementi da parte del segretario della Lega Nord Matteo Salvini e di altri esponenti dell’attuale centrodestra è purtroppo provinciale, ricorda la demagogia autarchica d’altri tempi e diffonde un’immagine sbagliata di ostilità verso gli investitori esteri. In alcuni settori dell’economia mondiale assistiamo a processi di concentrazione e di internazionalizzazione delle imprese con grandi acquisizioni. A volte le aziende italiane sono acquisite da gruppi stranieri o internazionali, altre volte sono gli italiani ad acquisire imprese estere, come ha fatto la Fiat con la Chrysler, la Ferrero con l’inglese Thorntons o tante altre medie e grandi aziende in giro per il mondo: nel solo 2014 gli investimenti italiani all’estero sono stati pari a 12,5 miliardi, nel 2015 siamo già oltre i 9 miliardi. Ci sono stati investimenti giapponesi in Ansaldo o cinesi in Pirelli, imprenditori asiatici e americani hanno comprato squadre della Serie A di calcio, oggi c’è l’ingresso di capitali tedeschi in Italcementi. In questo ultimo caso, peraltro, la pressoché totale integrazione del mercato europeo deve farci considerare gli investimenti provenienti da altri paesi UE alla stregua di investimenti domestici. È così anche quando le “nostre” Unicredit o Banca Intesa acquisiscono istituti di credito nei paesi europei centro-orientali, o quando la famiglia Agnelli pensa di entrare nel capitale dell’Economist. L’arrivo di capitali stranieri è quasi sempre una buona notizia per le aziende stesse, per i loro lavoratori e per il futuro dell’economia nazionale. L’entrata di Etihad nel capitale di Alitalia, ad esempio, rappresenta la leva per un rilancio della compagnia, la sua competitività sul mercato globale e dunque la sua capacità di creare valore e lavoro in Italia. Abbiamo ancora molto da fare: nel 2013, secondo i dati Unctad rielaborati dal servizio studi BNL, il nostro Paese attrae una quota degli investimenti diretti esteri globali molto esigua (1,6%), se paragonata a quella della Francia (4,2%), della Spagna (2,8%) o della Germania (3,3%). Ma in questi ultimi due anni stiamo notando una ripresa significativa e incoraggiante, a maggior ragione perché siamo di fronte a investimenti industriali, non solo finanziari e immobiliari, segno che le riforme in corso stanno rendendo l’Italia più attraente e “fertile” per i capitali mondiali.
Dobbiamo impegnarci per mettere le nostre imprese in grado di essere competitive e di crescere anche in termini di dimensione, in modo da giocare un ruolo non solo difensivo sui mercati globali. Questo è certo. Ma rammaricarsi perché un impresa tedesca (in quanto tedesca) investe con una acquisizione in Italia (con il consenso degli azionisti, peraltro) è un modo talmente singolare di affrontare il tema da risultare un po’ comico.
Sintetizziamola così, con un gioco di parole: l’Italia investe sempre di più nel mondo e, grazie all’investimento politico nelle riforme strutturali, sempre di più il mondo investe in Italia. La sfida dell’internazionalizzazione dell’economia è difficile: si può e si deve vincere, altrimenti si perde. Ma non partecipare, come vorrebbero alcuni, semplicemente non è possibile.
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