PERCHÉ USARE LA CIG COME TRATTAMENTO DI DISOCCUPAZIONE FA DANNO AL LAVORATORE DISOCCUPATO E PRESENTA PER LA COLLETTIVITÀ UN COSTO TRIPLO
Intervista a cura di Raffaella Giuri, pubblicata sul sito Senza Filtro il 15 luglio 2015.
Siamo tornati a parlare con Pietro Ichino, professore di Diritto del Lavoro, avvocato, senatore, che il 25 giugno 2015 ha svolto la relazione sullo schema di decreto attuativo della legge n. 183/2014 in materia di Cassa integrazione (A.G. n. 179/2015) all’11ma Commissione permanente del Senato, Lavoro e Previdenza Sociale.
Lei sostiene che la Cassa Integrazione non è lo strumento giusto per affrontare le crisi occupazionali, mi spiega perché?
Perché la Cig è nata come strumento per il sostegno del reddito dei lavoratori nei casi di crisi temporanea dell’impresa: quando, cioè, c’è una ragionevole prospettiva di ripresa del lavoro nella stessa azienda. La sua funzione è quella di tenere legato il lavoratore all’impresa, per evitare la dispersione di professionalità specifica che altrimenti si verificherebbe. Quando, invece, siamo in presenza di una crisi occupazionale, occorre attivare immediatamente la ricerca della nuova occupazione: in questo caso mettere i lavoratori in Cig significa nasconderne lo stato di disoccupazione, causando un progressivo aggravamento del problema occupazionale.
Quali abusi si sono fatti in passato?
Si è trasformato in un protocollo di applicazione generale il collocare in Cig dei lavoratori interessati da crisi occupazionali aziendali, e tenerli in quella condizione, come in freezer, per anni e anni. Anche dieci, in alcuni casi persino venti.
Lei ha portato l’esempio di Alitalia in cui alcune decine di lavoratori in CIG da anni sono stati scoperti a lavorare per compagnie concorrenti: caso isolato o effetto collaterale diffuso?
Questo comportamento è diffusissimo. Si è parlato addirittura di due terzi di cassintegrati maschi impegnati in rapporti di lavoro irregolare.
Ma poi al di là dei soliti furbi, quanto costa allo Stato e quindi al cittadino?
Il costo è triplo: è quello dell’integrazione salariale pagata a fondo perduto, quello dei contributi figurativi che vengono accreditati in capo alla persona interessata a spese dell’Erario, e quello di una persona che esce per anni dal mercato del lavoro regolare, per rimanere inattiva o per alimentare il mercato del lavoro nero.
Come funziona negli altri Paesi? Ci sono esempi di efficienza a cui possiamo guardare?
In tutti i Paesi del centro e nord-Europa, quando è certo che non ci sia prospettiva di ripresa del lavoro nella vecchia azienda, si chiamano le cose con il loro nome: il lavoratore viene licenziato, ma gode di un forte sostegno del reddito, in genere tra il 70 e l’80 per cento dell’ultima retribuzione, a condizione che si attivi effettivamente nel mercato del lavoro. Quando, dopo i primissimi mesi di disoccupazione, la nuova occupazione non arriva, gli viene offerto un servizio di assistenza intensiva nella ricerca. Questo fa sì che il tasso di disoccupazione di lunga durata in quei Paesi sia molto più basso che da noi.
Quali novità porta la riforma e quali saranno i problemi di applicazione e, invece, i vantaggi?
Mentre il decreto sulla Cig riconduce questo istituto alla sua funzione originaria, della quale abbiamo parlato all’inizio, il decreto sull’assicurazione contro la disoccupazione introduce un trattamento di livello europeo, sia per l’entità, sia per la durata, che può arrivare a un massimo di 24 mesi, seguiti da un periodo in cui il trattamento assicurativo è sostituito da un trattamento di natura assistenziale. E il decreto sui servizi per l’impiego istituisce il “contratto di ricollocazione”, per offrire al lavoratore in difficoltà un servizio di assistenza intensiva, fornito da un’agenzia specializzata scelta da lui stesso tra quelle accreditate.
In che modo questa parte della riforma potrà contribuire davvero a far ripartire l’economia?
L’allineamento del nostro ordinamento rispetto ai migliori standard europei, in materia di licenziamenti e mercato del lavoro, contribuisce già ora ad aumentare notevolmente l’attrattività del nostro Paese per gli investitori stranieri, con conseguente aumento della domanda di lavoro. Ma la maggiore fluidità del tessuto produttivo e del mercato del lavoro avrà anche l’effetto di migliorare l’allocazione delle risorse umane e di aumentare la produttività media del lavoro in Italia.