SCUOLA, NON C’È QUALITÀ SENZA VALUTAZIONE

PER MIGLIORARE L’INSEGNAMENTO I PAESI AVANZATI PUNTANO MOLTO SULLA VALUTAZIONE DEL LAVORO DEI PRESIDI E DEI DOCENTI – È LA DIREZIONE IN CUI SI MUOVE LA NOSTRA RIFORMA 

Articolo di Attilio Oliva, Presidente dell’Associazione TreeLLLe, pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 giugno 2015

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Caro direttore, è tempo di affrontare un grande paradosso: la scuola pubblica è di fatto un luogo molto «privato», nel senso che nessuno, al di fuori degli addetti, sa cosa vi avvenga. Ne sanno qualcosa quei genitori che si preoccupano di scegliere una buona scuola per i propri figli. Nei Paesi più avanzati invece si punta su articolati sistemi di ispezione delle scuole che ne rendono pubblici i risultati; si valutano i presidi sulla efficace realizzazione dei piani di miglioramento concordati e si valutano i singoli insegnanti meritevoli con riflessi sulla retribuzione e sulla carriera. L’obiettivo non è la sanzione, ma la spinta al miglioramento, sostenuta da una formazione in servizio obbligatoria assicurata in ogni scuola dai colleghi più esperti e di miglior reputazione.
In proposito il Governo sembra finalmente aver preso la giusta strada, grazie a ricerche e dibattiti sviluppatisi negli ultimi 10 anni: ma incontra grandi resistenze, principalmente da parte dei sindacati che da troppi anni cogestiscono ogni aspetto della vita scolastica, inclusi aspetti chiave impropri come la formazione e l’organizzazione della didattica. Questi ambiti andrebbero riservati a chi deve assicurare la qualità di un vero e proprio «bene pubblico» come la scuola che non appartiene a chi vi lavora, ma alla comunità civile nel suo insieme.
Va detto chiaro che una buona scuola è soprattutto fatta da buoni insegnanti e buoni presidi; ed è tanto migliore quanto più numerosi sono gli ottimi piuttosto che gli onesti esecutori che possono e devono migliorare. Quanto a coloro (per fortuna, pochissimi) che costituiscono un danno per i loro alunni, una buona scuola dovrebbe allontanarli dall’insegnamento per impedire loro di nuocere (cosa che da noi non avviene…). Tutte le indagini internazionali ci dicono che, a parità di contesti ambientali e socioeconomici, le scuole danno risultati molto diversi: evidentemente la variabile decisiva è la qualità di chi le dirige e di chi vi insegna.
Riguardo allo scontro in corso, occorre sfatare alcuni luoghi comuni, tanto diffusi quanto duri a morire.
1) Si dice: «la scuola non è un’azienda». È ovvio, ma si tratta comunque di una «impresa sociale » che richiede lavoro di gruppo, coordinamento ed una guida autorevole e legittimata, in grado di organizzare in modo efficiente le risorse disponibili e di dedicare attenzione allo sviluppo professionale di tutti gli insegnanti.
2) Si dice: «il sistema scolastico rischia di essere privatizzato». Si tratta di un grossolano abbaglio: il 95% delle scuole è gestito dallo Stato e solo il 5% da scuole paritarie. Una percentuale minima, che rischia di azzerarsi in breve tempo per le alte rette che le famiglie non riescono a sostenere. Il rischio vero non è la privatizzazione ma quello del monopolio statale, con tutte le conseguenze dannose dei monopoli, pubblici o privati che siano: rigidità, scarsa innovazione, costi crescenti e servizi sempre meno qualificati.
3) Si grida alla minaccia di un «preside sceriffo»: ma il preside non potrà mai essere un autocrate solitario. Intorno a lui è prevista una rete di quadri, che svolgono funzioni intermedie di natura organizzativa e didattica (la cosiddetta «leadership distribuita») e comunque esiste un Consiglio di istituto (da rinnovare) a cui rendere conto. Certo, occorre migliorare le modalità per il reclutamento dei presidi: e uno dei modi consiste nel selezionarli tra i quadri già verificati per le capacità e per l’attitudine dimostrata ad assumersi responsabilità organizzative e di coordinamento.
4) Si dice ancora: gli insegnanti fanno tutti lo stesso mestiere: come e chi li può valutare e premiare? È vero: fanno tutti lo stesso lavoro, ma sono 700.000 e non sono tutti uguali, né per attitudini, né per competenze, né per impegno. Il nuovo fondo per il «riconoscimento del merito» che il progetto di legge mette a disposizione (200 milioni) sarebbe insignificante se distribuito a pioggia, ma può essere efficace se destinato a quel 10-15% di docenti che svolgono incarichi speciali o godono di indiscussa reputazione. Se ciò accadesse, sarebbe una svolta storica e si supererebbe l’egualitarismo che scoraggia i meritevoli e alimenta una mentalità impiegatizia.
Se alcune misure attualmente al vaglio del Parlamento si realizzassero senza troppe mediazioni al ribasso, la qualità della scuola ne trarrebbe sicuro giovamento, anche grazie al rilancio dell’autonomia che non ha potuto fin qui dare i suoi frutti in assenza dei necessari strumenti di valutazione di sistema. Questi strumenti, seppur con diverse modalità, esistono in tre quarti dei Paesi avanzati di Europa, America e Asia. Sembra più che lecito allora chiedersi se a sbagliare siano i tre quarti del mondo avanzato o se non valga la pena di allineare il nostro sistema a quelli, visto che in tutte le indagini comparative internazionali gli apprendimenti dei nostri studenti risultano al di sotto della media.

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