SI PUÒ CONSIDERARE IL LAVORO COME UNA MERCE?

INTERVISTA COLLETTIVA SUL SENSO DEL JOBS ACT SECONDO LE VECCHIE CATEGORIE DI GIUDIZIO DELLA SINISTRA ITALIANA E ALLA LUCE DEI NUOVI PRINCIPI DELLA FLEXSECURITY

Quelle che seguono sono le domande che mi sono state rivolte nel corso di un incontro pubblico promosso a Milano dalla associazione Arimo il 25 maggio 2015, con le risposte che in parte ho potuto dare direttamente a voce, in parte ho redatto nei giorni successivi e inviato agli organizzatori – Numerose altre domande e risposte sullo stesso argomento sono contenute nel libro uscito in libreria in questi giorni, Il lavoro ritrovato.

Nel trentennio successivo alla dichiarazione di Filadelfia del ’44, relativa alla costituzione dell’Ilo, si era registrata una crescita mondiale generalizzata, a seguito della quale l’Italia si è data la legge n. 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. La parola d’ordine di allora fu: “Il lavoro non è una merce.” Dagli accordi del luglio 1993 ad oggi, la vulgata italiana di giuristi, politici e industriali è stata: “Il lavoro è tornato a essere una merce!”. Che cosa ne pensa?
A me sembra che la domanda utile, quella che ci serve per capire meglio come vanno le cose e perché, anche per farle andare meglio dove possibile, non sia se il lavoro sia o no una merce, ma se le relazioni tra lavoratori e imprenditori nelle quali si negoziano le prestazioni di lavoro e le relative retribuzioni presentino o no delle analogie rispetto a quello che accade nei mercati dei beni e dei servizi. A questa domanda io rispondo senza esitazioni “sì, queste analogie esistono e sono molto rilevanti”. Anche alle dinamiche di quelle relazioni si applicano le leggi della domanda e dell’offerta studiate dagli economisti, anche in quelle dinamiche si verificano distorsioni che si verificano in altri mercati. Dunque parlare di quelle relazioni in termini di “mercato del lavoro” non è arbitrario, né fuorviante: non significa affatto considerare il lavoro come una qualsiasi merce, ma soltanto utilizzare uno schema concettuale e dei modelli che ci aiutano a conoscere i meccanismi di ciò che accade, a prevedere i fenomeni, ad adottare misure che producano il risultato voluto e non risultati opposti. Ripeto: non si tratta affatto di equiparare il lavoro a una qualsiasi merce; anche perché tanti economisti, a cominciare da Robert Solow, ci hanno avvertiti di quante e quali differenze caratterizzino il mercato del lavoro rispetto agli altri mercati. Ma non possiamo privarci di strumenti che consentano di illuminare alcuni aspetti fondamentali del funzionamento del mercato del lavoro. Rinunciare a quegli strumenti comporta, per esempio, il grave rischio di adottare misure finalizzate a proteggere i lavoratori, che hanno l’effetto di fare grave danno ai lavoratori stessi, in termini di esclusione di fatto dal tessuto produttivo, o di riduzione del reddito che essi possono trarre dal proprio lavoro.

A otto anni di distanza dal Grande Crack economico-finanziario, insieme ai “Chicago boys”, chi possiamo buttare giù dalla torre?
Se la domanda può essere intesa nel senso di “chi è il vero responsabile” della crisi e dei danni che ne sono conseguiti, la mia risposta è questa: come quando accadono grandi catastrofi naturali, anche in questo caso possiamo individuare i responsabili di una parte dei danni, ma chiedersi chi sia responsabile della catastrofe stessa non ha molto senso. Con le conoscenze di cui la scienza economica dispone, il cataclisma scatenato dal fallimento di Lehman Brothers poteva essere previsto – ed effettivamente qualcuno lo ha previsto – un anno prima del suo verificarsi, ma a quel punto era molto difficile evitarlo. Per evitarlo sarebbe stato necessario prevedere con diversi anni di anticipo, in modo che potessero adottarsi le misure preventive, le integrazioni della disciplina dei mercati finanziari, che sono state adottate dopo il 2008, quando la crisi era già scoppiata. Ma prendersela con l’economia di mercato non ha molto senso: rinunciare ad essa, nei decenni passati, avrebbe recato molti più danni all’umanità di quanti ne abbia recati questa grande crisi. Altrimenti non si spiegherebbe perché tutti i Paesi che in passato hanno preferito la pianificazione statale all’economia di mercato abbiano finito per abbandonare quella scelta, e non abbiano alcuna intenzione – neppure dopo la grande crisi – di tornare indietro.

Jobs Act, flessibilità in uscita e formazione professionale finanziata: come allineare l’offerta formativa, e conseguentemente a ciò il ruolo svolto degli Operatori Accreditati (Centri di Formazione Professionale, Agenzie private per l’impiego, Enti bilaterali e di altro genere, ecc.), rispetto alla domanda di professionalità specifiche da parte delle aziende presenti sul territorio? Chi è in grado di garantire efficacemente le performances degli Operatori?
Occorre, innanzitutto, una rilevazione sistematica, a tappeto, del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi delle persone che ne hanno fruito. Questa rilevazione, che comporta il censimento della situazione occupazionale di ogni persona che abbia terminato un corso, a sei mesi e possibilmente anche a tre anni dalla cessazione del corso stesso, consentirebbe di distinguere i corsi efficaci da quelli inutili; e aiuterebbe molto gli interessati nella scelta del percorso formativo. Occorre, poi, la volontà e capacità politico-amministrativa di smettere di finanziare i centri di formazione i cui tassi di coerenza risulteranno intollerabilmente bassi. Quanto alle agenzie private per l’impiego, se le si retribuiscono soltanto a risultato, questo avrebbe l’effetto di tagliare fuori automaticamente quelle incapaci di ricollocare i lavoratori.

In quale modo possono coesistere le garanzie della formazione permanente con i consistenti tagli operati all’interno della Regione Lombardia?
Un’esigenza di riqualificazione della spesa pubblica in questo settore c’è. Ma non la si può soddisfare con il sistema dei “tagli orizzontali”, o “lineari”: occorre tagliare là dove la formazione non funziona. Per questo è indispensabile rilevare i tassi di coerenza tra formazione finanziata con il denaro pubblico e sbocchi occupazionali effettivi. Altrimenti l’unico modo per ridurre la spesa sono i tagli lineari, che penalizzano indiscriminatamente tutti i fornitori di servizi di formazione.

Jobs Act ed effetti distorsivi: come possono coesistere, in un’azienda con più di 15 dipendenti, lavoratori messi apparentemente sullo stesso piano ma sottoposti a “vincoli di contratto” differenti, in particolare a discipline del licenziamento diverse?
È curioso che questa domanda venga posta con tanta insistenza soltanto ora, in riferimento ai primi effetti di questa riforma, mentre nessuno se la è posta nei decenni passati, quando nella stessa azienda coesistevano, svolgendo talvolta le stesse identiche mansioni, i lavoratori protetti dall’articolo 18 e i “paria” assunti con contratti precari. Forse che allora le differenze di disciplina non erano molto più marcate di quanto non siano oggi tra nuovi e vecchi assunti a tempo indeterminato? D’altra parte, quando si modifica la disciplina di un contratto di durata, cioè di un contratto che ha per oggetto una prestazione protratta nel tempo, come il contratto di lavoro o quello di locazione, è inevitabile che ci si trovi di fronte alla scelta tra applicare le nuove norme ai vecchi rapporti modificando il contenuto di posizioni giuridiche già esistenti, oppure limitarne l’applicazione ai nuovi rapporti, dando luogo a una transitoria disparità di trattamento fra contratti vecchi e nuovi. La giurisprudenza costituzionale fino a oggi ha legittimato entrambe le scelte, ma ha tendenzialmente favorito la seconda. Resta comunque il fatto che, nel caso delle nuove norme in materia di licenziamento, la disparità di disciplina tra vecchi e nuovi è destinata a essere superata nel giro di pochi anni, per effetto del turnover della forza-lavoro. Aggiungo che questa disparità è cosa ben diversa dal regime di apartheid che è stato in vigore fin qui fra protetti e non protetti: d’ora in poi ci sarà la giustapposizione di un regime di protezione vecchia maniera, basato sull’ingessatura del posto di lavoro, e un regime di protezione nuovo, basato sulla sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato. I giovani che si affacciano sul mercato del lavoro hanno capito benissimo che oggi è meglio questo.

Jobs Act e riforma delle politiche attive del lavoro: quale sarà la configurazione della nuova Agenzia Nazionale dell’Occupazione? Sono previsti nodi regionali?
Una delle cause istituzionali del malfunzionamento dei servizi per l’impiego in Italia sta nell’assegnazione – per norma costituzionale – allo Stato centrale della competenza per le cosiddette “politiche passive” del lavoro, cioè per il sostegno del reddito per i disoccupati, e alle Regioni della competenza per le “politiche attive”, cioè per le misure mirate al reinserimento dei disoccupati nel tessuto produttivo. Le due cose dovrebbero essere invece strettamente collegate tra loro, perché il sostegno del reddito in caso di disoccupazione, se non è rigorosamente condizionato alla ricerca effettiva e alla disponibilità per la nuova occupazione da parte della persona interessata, produce l’effetto perverso dell’allungamento dei periodi di disoccupazione e di una progressiva riduzione dell’occupabilità dei percipienti. In attesa che questo problema venga risolto dalla riforma costituzionale sulla quale il Parlamento è impegnato in questi mesi, la legge-delega n. 183/2014 si propone di anticiparne in qualche misura gli effetti con l’istituzione di un’agenzia centrale, partecipata da Stato e Regioni, cui verrà affidato il compito di coordinare l’operato degli organi ministeriali e di quelli regionali nel mercato del lavoro, stabilendo gli standard di efficienza ed efficacia dei servizi regionali per l’impiego, controllando il loro rispetto da parte di ciascuna Regione e, dove essi non siano rispettati, surrogandosi alla Regione inadempiente. Negli intendimenti del legislatore dovrà essere comunque una struttura leggera, composta soprattutto da personale già impiegato presso il ministero del Lavoro, Italia Lavoro e Isfol, senza aggravio di spese per l’Erario. La scelta compiuta con la legge delega è infatti – come si è visto – nel senso di non investire su di un aumento del personale dipendente, direttamente o indirettamente, dallo Stato o dalle Regioni, ma su di una collaborazione e integrazione tra la rete dei Centri per l’Impiego e le agenzie specializzate del settore, secondo il modello olandese. Questa parte della delega sarà attuata da un apposito decreto che è ancora in fase di elaborazione: un primo schema del decreto verrà probabilmente approvato dal Governo nei giorni prossimi, per essere poi sottoposto al previsto esame dei due rami del Parlamento.

Contratto di ricollocazione: in che modo viene promosso questo strumento? Come faranno le Regioni a finanziarlo?
Il contratto di ricollocazione in Italia è disegnato per funzionare così: la persona che ha perso il posto si reca al Centro per l’impiego, dove viene individuato il suo grado di collocabilità e sulla base di questo le viene attribuito un voucher, proporzionato alla difficoltà del collocamento, per la remunerazione dei servizi di assistenza intensiva resi dalle agenzie specializzate. La persona stessa sceglie l’agenzia tra quelle accreditate presso la Regione, stipula con essa e con il Centro per l’impiego il contratto, viene quindi affiancata da un tutor che la consiglia sugli itinerari da percorrere e la segue continuativamente, eventualmente denunciando la sua non disponibilità effettiva per la ricerca o per le iniziative di riqualificazione necessarie. L’incentivo a farlo per davvero nasce dal fatto che la maggior parte del voucher sarà pagabile solo a risultato ottenuto. E se il disoccupato non è davvero disponibile per la ricerca, il risultato non può essere ottenuto. Questo è un primo pezzo, apparentemente piccolo ma molto importante, della riforma del lavoro. Perché il contratto di ricollocazione può costituire al tempo stesso:
– il modo per offrire al lavoratore che perde il posto un servizio di assistenza intensiva efficace, con la possibilità di scelta dell’agenzia specializzata tra quelle accreditate;
– il modo per riqualificare la spesa pubblica in questo settore, essendo l’agenzia scelta dal lavoratore retribuita con un voucher pagabile per la maggior parte solo a risultato ottenuto;
– il modo per realizzare l’indispensabile integrazione e cooperazione tra Centri per l’impiego e agenzie private specializzate;
– il modo per rendere finalmente effettiva la condizionalità del sostegno del reddito dei disoccupati: presupposto indispensabile per poter rafforzare il trattamento senza che questo produca un allungamento dei periodi di disoccupazione.
Il contratto di ricollocazione costituisce, effettivamente, un metodo raffinato per l’attivazione di una condizionalità equa e al tempo stesso effettiva nell’erogazione del sostegno del reddito della persona che ha perso il lavoro. Esso infatti istituisce un incentivo forte per l’agenzia che lo ha stipulato a denunciare l’eventuale rifiuto ingiustificato opposto dalla persona assistita a iniziative necessarie di ricerca o riqualificazione, oppure all’offerta di un’occasione di lavoro: l’agenzia che applicasse un criterio troppo lasco e tenesse un comportamento troppo indulgente finirebbe col lavorare in perdita. Per altro verso, se essa applicasse un criterio troppo severo, sarebbero i lavoratori interessati a non sceglierla, preferendo le sue concorrenti. Questo meccanismo di quasi-mercato determina dunque automaticamente il grado di disponibilità richiesto al lavoratore, in relazione alle condizioni effettive del mercato del lavoro locale, molto meglio di quanto non possano fare i regolamenti burocratici che fissano distanze massime tra casa e lavoro, o differenze massime tra livello professionale e retributivo precedente e nuovo. Il contratto di ricollocazione è dunque uno strumento cruciale per la soluzione del problema della condizionalità del trattamento di disoccupazione.
Qui però sorge un problema grosso come una casa: perché in Italia questa condizionalità non ha mai funzionato: non conosco un solo caso in mezzo secolo di disoccupato italiano cui il sostegno del reddito sia stato ridotto o interrotto in conseguenza del suo rifiuto ingiustificato di una occupazione, o di una attività necessaria per rioccuparsi. Questo fa sì che molte delle persone cui questa misura viene offerta la rifiutino, per paura di infilarsi in un meccanismo che le costringerà ad accettare un lavoro inadeguato alle loro aspirazioni, o più lontano da casa del precedente, o più precario, o meno retribuito.
È ancora fortemente radicata e diffusa in Italia l’idea che l’unica riparazione possibile, per un licenziamento, sia un lavoro nello stesso luogo e nello stesso settore produttivo, con lo stesso inquadramento professionale e la stessa retribuzione di prima. Ma questa è la premessa per periodi di disoccupazione lunghissimi, destinati a terminare soltanto con il pensionamento se nel frattempo la contribuzione figurativa ha continuato a maturare. Firmare un contratto di ricollocazione implica, al contrario, proprio l’accettazione della necessità di allargare molto gli orizzonti della ricerca e l’impegno a rendersi disponibili per un’esplorazione delle possibilità esistenti in tutte le direzioni. Questo è il motivo principale per cui, nella prima fase di applicazione della riforma, il contratto di ricollocazione faticherà ad affermarsi come strumento principale per l’assistenza ai disoccupati in difficoltà. La sua diffusione implica una piccola rivoluzione culturale che è appena incominciata ed è assai lontana dall’essersi compiuta. D’altra parte, senza questa rivoluzione culturale nessuna riforma del nostro mercato del lavoro può dirsi veramente tale, né può avere successo.

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