I NO-GLOBAL CONTESTANO EXPO 2015 SENZA ACCORGERSI CHE, PARADOSSALMENTE, LE LORO POSIZIONI SONO IN LARGA PARTE CONDIVISE NELLA “CARTA DI MILANO” LANCIATA IN CONCOMITANZA CON L’ESPOSIZIONE – MA PER LA LIBERAZIONE DEL MONDO DALLA FAME FA DI PIÙ PROPRIO LA GLOBALIZZAZIONE DI QUANTO FACCIANO LE LORO MANIFESTAZIONI
Editoriale di Alberto Mingardi pubblicato su La Stampa del 1° maggio 2015
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C’è chi dice no: anche se non sa tanto bene a che cosa. Il caso dell’Expo è interessante. Appena incominciato, ha già trovato i suoi contestatori. I quali, se li si prende sul serio, pare abbiano in mente un altro modello di sviluppo: che finisce per essere proprio lo stesso che hanno in mente i sostenitori dell’Expo.
Questi ultimi hanno tarato la loro «Carta di Milano» su un concetto studiatamente opaco: quello di «sostenibilità». La parola suona bene ma più o meno significa: cari signori dei Paesi in via di sviluppo, sviluppatevi, ma per favore né troppo né troppo in fretta. Per gli estensori della «Carta di Milano», il cibo è una risorsa scarsa. Dedicano grande attenzione al tema dello spreco, nella convinzione che una migliore direzione della produzione possa evitarlo e meglio avvicinare prodotti alimentari e bocche da sfamare.
È questo che ci insegna la nostra storia?
Nel ventesimo secolo, il problema della penuria di cibo ha smesso di essere la prima preoccupazione di buona parte dell’umanità. La crescita della popolazione aveva suscitato le più fosche profezie. Nel suo «Un ottimista razionale» (Codice edizioni), Matt Ridley ricorda che l’agronomo e ambientalista Lester Brown ha vaticinato che la produzione agricola non potesse tenere il passo della domanda nel 1974, nel 1984, nel 1989, nel 1994 e ancora nel 2007. E invece siamo ancora qua.
La verità è che gli ultimi cent’anni di storia sono stati uno straordinario successo, nella lotta alla fame, del quale non ci vantiamo solo perché non c’è nessuno che alzi la mano per rivendicarne il merito. Non è questione del modo in cui sono tagliate le fette: è che la torta si è allargata. Ciò non è avvenuto sotto la direzione di un apposito dipartimento del ministero dell’Industria, ma semplicemente in risposta alla domanda di mercato.
Nella nostra parte di mondo, abbiamo vissuto un progresso senza precedenti. Progresso nei trasporti, che hanno reso possibile, per esempio, che il pesce non sia più un alimento «a chilometro zero», nel senso di consumabile soltanto da chi vive nei pressi del mare. Progresso nella produzione agricola, a cominciare dallo sviluppo dei fertilizzanti. Progresso nel trattamento dei cibi, a partire dalla pastorizzazione del latte e dalla diffusione di ingredienti a basso contenuto di grassi. Progresso nella conservazione degli alimenti: il frigorifero si diffonde negli anni Cinquanta. Conservare la carne è stato un incubo per la più parte della storia umana, ora è una banalità. Oggi abbiamo una dieta incredibilmente più varia di quella dei nostri nonni: e, a differenza loro, spendiamo per mangiare all’incirca il 15% del nostro reddito e non quasi la metà.
Tutto questo lo diamo per scontato, ma così non possono fare gli emissari dei Paesi in via di sviluppo che visiteranno Expo. Costoro saranno accolti da alti proclami per garantire il «diritto al cibo» (non è chiaro a spese di chi) e una «sovranità alimentare» che allude a un mondo di frontiere chiuse. A loro le frontiere servirebbero aperte: per trovare mercati di sbocco per i loro prodotti, arricchirsi e avere, quindi, più cibo (e tanto altro) a loro disposizione. Per imparare, insomma, da quanto di buono abbiamo saputo fare. Che non è necessariamente quel che troveranno nei nostri sermoni.
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