SE IL GIUDICE DEL LAVORO IMPEDISCE ALL’IMPRESA DI PREVENIRE LA PROPRIA CRISI

UNA SENTENZA DI CASSAZIONE AFFERMA CHE L’AGGIUSTAMENTO DEGLI ORGANICI NON È CONSENTITO SE IL BILANCIO DELL’IMPRESA NON È GIÀ IN PERDITA

Articolo pubblicato su il Garantista, 3 maggio 2015 – Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento v. anche È “giusto” o no licenziare il centralinista monoglotta?, nota tecnica, 28 settembre 2014; Le questioni aperte in materia di licenziamento per motivo oggettivo, intervento al Congresso nazionale di diritto del lavoro di Venezia, 25 maggio 2007, in Argomenti di diritto del lavoro, 2007, n. 2; Alcuni interrogativi sulla giurisprudenza della Cassazione in materia di licenziamento per motivi economici, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2004, I, n. 1; Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, nella stessa rivista, 2002, n. 1

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In una recentissima sentenza (16 marzo 2015 n. 5173) la Corte di Cassazione è tornata ad affermare un principio di diritto in materia di licenziamento per motivo oggettivo, cioè non disciplinare, che è tanto diffusamente condiviso dai giudici del lavoro quanto privo di fondamento nella legge che regola la materia: “Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – dice la Cassazione – è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto […] che non può essere meramente strumentale a un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti”.

Il significato pratico della massima è questo: finché il bilancio è in attivo, l’impresa non può licenziare per motivi organizzativi o economici, perché in questo caso l’atto sarebbe finalizzato ad aumentare gli utili. L’impresa può invece licenziare se il bilancio è in rosso, perché in questo caso l’atto è finalizzato a ridurre una perdita. Per capire meglio, consideriamo il caso dell’impresa A, che produce zuppiere, piatti e bicchieri, ma decide di chiudere il reparto di produzione dei bicchieri per concentrarsi su piatti e zuppiere, e decide conseguentemente di licenziare i quattro operai dipendenti da quel reparto. Vietato: prima di poterlo fare l’impresa deve aspettare che la situazione peggiori al punto che il bilancio vada in rosso. Se non va in rosso, deve rassegnarsi a pagare le perdite del reparto bicchieri con un sovrapprezzo su zuppiere e piatti: cioè rassegnarsi a essere meno competitiva nel comparto in cui potrebbe essere più forte nel mercato.

La legge, però, non dice questo. L’articolo 3 della legge n. 604/1966 dice che è legittimo il licenziamento motivato da”ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. E un principio sempre ribadito dalla Corte costituzionale e dalla stessa Corte di Cassazione sancisce l’insindacabilità in giudizio delle scelte gestionali aziendali. Che al datore di lavoro sia consentito compiere una scelta organizzativa, ivi compresa la soppressione di un posto di lavoro (o la sostituzione di un dipendente con un altro dotato di competenze diverse) solo se il bilancio è in perdita, non sta scritto proprio da nessuna parte.

La sentenza della Cassazione n. 5173/2015 disattende platealmente il principio costituzionale della insindacabilità delle scelte gestionali dell’imprenditore. Altro che insindacabilità! All’imprenditore è inibito persino di compiere le scelte necessarie per prevenire una crisi economica della propria azienda. I giudici della Cassazione, come già diffusamente quelli di Tribunali e Corti d’Appello che hanno seguito questo orientamento,  sembrano non rendersi conto  che la possibilità di aggiustamento degli organici deve essere assicurata all’impresa in tempo utile per prevenire la crisi: dunque prima che l’azienda si trovi in una situazione di difficoltà, o addirittura pre-fallimentare. Costringerla a tenersi il personale eccedentario in attesa che la situazione peggiori, fino a diventare critica, non ha soltanto l’effetto di indebolire la sua capacità di reagire agli shock economici o tecnologici, ma anche quello di ridurre la produttività media del lavoro: perché in quella media confluisce la bassa o nulla produttività di tutte le persone che vengono temporaneamente mantenute in una posizione improduttiva, in attesa di un aggiustamento degli organici che alcuni giudici consentono soltanto nelle dimensioni e nella forma esplosiva del licenziamento collettivo.

Occorrerebbe poi spiegare perché, nel caso a cui abbiamo fatto sopra riferimento, all’impresa A dovrebbe essere vietato chiudere il reparto bicchieri finché il bilancio generale non vada in rosso, mentre le sarebbe pacificamente consentito chiuderlo se esso fosse intestato a una società controllata, per il solo fatto che il bilancio di quella società fosse in perdita.

In realtà, per fortuna, molti giudici del lavoro non applicano il principio enunciato da quest’ultima sentenza della Cassazione. Ma proprio il fatto che su di una disposizione di importanza così cruciale possano registrarsi degli sbandamenti così rilevanti della giurisprudenza spiega perché finora l’articolo 18 dello Statuto abbia avuto, almeno fino alla legge Fornero del 2012 che ne ha attenuato il rigore, l’effetto di rendere quasi impraticabile il licenziamento per l'”aggiustamento fine” degli organici: l’imprevedibilità dell’esito del giudizio combinata con le conseguenze gravissime della soccombenza (reintegrazione della persona licenziata, anche a distanza di molti anni, con risarcimento pari a tutte le retribuzioni perdute più i relativi contributi, più le sanzioni per i contributi omessi) faceva sì che l’aggiustamento stesso non si potesse compiere se non nelle dimensioni e nella forma esplosiva del licenziamento collettivo, sulla cui motivazione la legge non prevede alcun controllo giudiziale. La legge Fornero, comunque, ha ridotto in qualche misura gli effetti della possibile soccombenza in giudizio, ma non ha risolto il problema alla radice, perché ha di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice l’applicazione della sanzione reintegratoria.

Queste considerazioni sottolineano l’opportunità della riforma varata nelle settimane scorse dal legislatore, che nel caso del licenziamento per motivo economico od organizzativo esclude la reintegrazione, prevedendo soltanto un indennizzo predeterminato, proporzionato all’anzianità di servizio del lavoratore, come costo della soccombenza dell’impresa nel giudizio sul licenziamento. In modo che sia un costo predeterminato del licenziamento stesso, e non l’opzione interpretativa del giudice totalmente imprevedibile, a costituire il filtro delle scelte imprenditoriali, nell’area della fisiologica gestione organizzativa.

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