LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE LAVORO SACCONI SUL DECRETO SUL “RIORDINO CONTRATTUALE”

IL TESTO LEGISLATIVO PRESENTATO AL PARLAMENTO PROPONE UNA PRIMA STESURA, NON SCEVRA DA DIFETTI ANCHE ASSAI RILEVANTI, DEL PROVVEDIMENTO ATTUATIVO DELLA DELEGA IN MATERIA DI TIPI DI RAPPORTO DI LAVORO: SARANNO OPPORTUNI ALCUNI INTERVENTI MIRATI A RENDERLO MEGLIO CORRISPONDENTE AI CONTENUTI DELLA DELEGA

Relazione svolta dal presidente Maurizio Sacconi alla Commissione Lavoro del Senato sullo schema di decreto attuativo della legge-delega 10 dicembre 2014 n. 183, approvato dal Governo il 20 febbraio 2015 e presentato al Parlamento il 10 aprile 2015.

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Relazione sullo schema di decreto legislativo recante
il testo organico delle tipologie contrattuali
e revisione della disciplina delle mansioni, Atto del Governo n. 158

 

Contenuto della disciplina di delega

Lo schema di decreto legislativo in esame è stato predisposto in attuazione della normativa di delega di cui all’art. 1, comma 7, alinea e lettere a), b), d), e), h) ed 1i), della L. 10 dicembre 2014, n. 183.

Tale disciplina di delega prevede l’adozione di un testo organico semplificato sulle tipologie contrattuali ed i rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principii e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali:

 

  • l’individuazione e l’analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo, nazionale ed internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali (lettera a);

 

  • la promozione, in coerenza con le indicazioni europee, del contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto, in termini di oneri diretti e indiretti (lettera b));

 

  • il rafforzamento degli strumenti per favorire l’alternanza tra scuola e lavoro[1] (lettera d));

 

  • la revisione (lettera e)) della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, nell’ipotesi di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (individuati sulla base di parametri oggettivi), con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, contemplando, in ogni caso, limiti alla modifica dell’inquadramento. Tale revisione deve prevedere anche la possibilità che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a livello interconfederale o di categoria, individui ulteriori ipotesi, rispetto a quelle suddette.

Si ricorda che l’attuale ordinamento[2] prevede, con sanzione di nullità di ogni patto contrario, che: il lavoratore dipendente sia adibito alle mansioni per le quali sia stato assunto ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione; nel caso di assegnazione a mansioni di livello superiore, il dipendente abbia diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione stessa diventi definitiva – sempre che la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di un lavoratore assente e con diritto alla conservazione del posto – dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e, in ogni caso, non superiore a tre mesi[3]. Inoltre, la giurisprudenza, in genere, ammette le ipotesi di demansionamento (cioè, di attribuzione di mansioni inferiori) per motivi di salute o per evitare il licenziamento;

 

  • la possibilità (lettera h)) di ampliamento dell’applicazione dell’istituto del lavoro accessorio, per le attività lavorative discontinue ed occasionali nei diversi settori produttivi – con contestuale rideterminazione delle relative aliquote previdenziali e ferma restando la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati – (tale ampliamento deve essere operato secondo linee coerenti con il principio di delega di cui alla precedente lettera a)).

Si ricorda che l’istituto del lavoro accessorio riguarda prestazioni retribuite mediante buoni orari dal valore unitario prefissato, il cui importo complessivo annuo non può superare determinati limiti, relativi sia a ciascun lavoratore sia alle sole prestazioni rese dal lavoratore in favore di un singolo committente (imprenditore o professionista);

 

  • l’abrogazione esplicita delle disposizioni incompatibili, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative ed applicative (lettera i)).

 

Contenuto dello schema di decreto legislativo

 

 

Contratto di lavoro a tempo indeterminato

 

L’articolo 1 dello schema afferma – in conformità con il principio di delega di cui all’art. 1, comma 7, lettera b), della L. n. 183 del 2014 e con l’attuale norma di cui all’art. 1, comma 01, del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni – che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro.

 

 

Contratto di lavoro a tempo parziale

 

Gli articoli da 2 a 10 riguardano il contratto di lavoro subordinato a tempo parziale.

 

Rispetto all’attuale disciplina dell’istituto, stabilita dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, emergono le seguenti differenze:

 

  • nel rapporto a tempo parziale di tipo orizzontale (tipologia in cui la riduzione di orario rispetto al tempo pieno è operata in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro), la nuova disciplina non dispone più[4] che i contratti collettivi[5] definiscano le causali in relazione alle quali sia consentito al datore di lavoro di richiedere lo svolgimento di lavoro supplementare (cioè, oltre l’orario di lavoro stabilito dal contratto); resta, invece, fermo che i contratti collettivi stabiliscono il numero massimo delle ore di lavoro supplementare effettuabili[6], nonché le conseguenze del superamento di tale limite (articolo 4, comma 2, dello schema).

Riguardo all’ipotesi in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non contenga una regolamentazione del lavoro supplementare (sempre con riferimento ai rapporti di tipo orizzontale), lo schema, da un lato, conferma – articolo 4, comma 3 – la condizione vigente del consenso del lavoratore interessato, ma, dall’altro lato, consente – articolo 4, comma 5 – che, nella medesima ipotesi, il datore di lavoro richieda lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare, entro il limite del 15 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. Pertanto, sembrerebbe opportuno un più chiaro coordinamento delle due disposizioni.

Qualora il datore si avvalga della facoltà introdotta dal suddetto comma 5, il lavoro supplementare è retribuito con una percentuale di maggiorazione sull’importo della retribuzione oraria globale di fatto pari al 15 per cento; tale maggiorazione è comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti;

 

  • riguardo alle cosiddette clausole flessibili o elastiche (relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione stessa o anche, nei rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto[7], alla variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa), la nuova disciplina, pur continuando ad esigere (articolo 4, comma 7) la forma scritta delle medesime, non richiede più[8] che esse siano oggetto di uno specifico patto scritto, anche contestuale al contratto di lavoro (reso, su richiesta del lavoratore, con l’assistenza di un componente della rappresentanza sindacale aziendale indicato dal lavoratore medesimo).

Inoltre, lo schema di decreto introduce (articolo 4, comma 10) una nuova ipotesi di ammissibilità delle clausole flessibili o elastiche, con riferimento ai casi in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non rechi una regolamentazione in materia; in questa nuova fattispecie, le clausole sono sottoscritte dalle parti dinanzi ad una delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro[9] e non possono prevedere una misura massima dell’aumento superiore al 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale (come già ricordato, una clausola di variazione in aumento è ammessa solo per i rapporti a tempo parziale di tipo verticale o misto). Per le modifiche dell’orario in applicazione delle clausole (nella nuova fattispecie introdotta), il lavoratore ha diritto ad una maggiorazione della retribuzione oraria pari al 15 per cento, comprensiva dell’incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti;

  • il diritto alla revoca del consenso prestato alle suddette clausole flessibili o elastiche è esteso – ai sensi del comma 11 dell’articolo 4 – ai soggetti affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, rientranti nella relativa nozione di cui all’articolo 6, comma 3, nonché ai lavoratori il cui coniuge o un cui figlio o genitore sia affetto dalle suddette patologie;

 

  • in merito ai principii di non discriminazione ed al trattamento del lavoratore a tempo parziale, il comma 2 dell’articolo 5 estende alla fattispecie dell’infortunio la possibilità (già contemplata dalla norma vigente per le ipotesi di malattia[10]) che i contratti collettivi[11] rimodulino, con riferimento ai contratti a tempo parziale di tipo verticale, la durata del periodo di prova e quella del periodo di conservazione del posto di lavoro;

Il medesimo comma 2 prevede che il trattamento economico e normativo del lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa;

  • il diritto di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale (nonché, in base ad eventuale successiva richiesta, di nuova trasformazione a tempo pieno) è esteso in favore dei soggetti affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, rientranti nella relativa nozione di cui all’articolo 6, comma 3. Analogamente, il diritto alla priorità nella trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale è esteso alle ipotesi in cui il coniuge o un figlio od un genitore del lavoratore sia affetto dalle suddette patologie (articolo 6, comma 4);
  • riguardo al diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo pieno, si rileva, in primo luogo, che lo schema di decreto (articolo 6, comma 6) conferma tale diritto (per l’espletamento delle stesse mansioni o di mansioni di pari livello) in favore del lavoratore che abbia trasformato il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale;
  • si introduce il diritto per il lavoratore di richiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale[12], la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo corrispondente, con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento (articolo 6, comma 7);

 

  • riguardo all’ipotesi di determinazione da parte del giudice delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, l’articolo 8, comma 2, dello schema fa riferimento al criterio della valutazione equitativa;
  • con riferimento sia all’ipotesi suddetta di determinazione giudiziale delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale sia all’ipotesi di determinazione giudiziale della durata della prestazione lavorativa (sempre a tempo parziale), lo schema conferma (articolo 8, comma 2) il diritto del lavoratore, per il periodo precedente la data della pronuncia, ad un ulteriore emolumento – in aggiunta alla retribuzione dovuta per le prestazioni effettivamente rese (ed ai relativi contributi previdenziali) – a titolo di risarcimento del danno, senza far riferimento (come invece fa la corrispondente norma vigente[13]) al criterio della valutazione equitativa.

 

Riguardo alle disposizioni di rinvio per il pubblico impiego, di cui all’articolo 10 dello schema, esse sono sostanzialmente identiche a quelle già stabilite dall’art. 10 del citato D.Lgs. n. 61 del 2000, a parte l’introduzione dell’esclusione dell’applicazione delle norme di cui ai commi 5 e 10 del precedente articolo 4.

Lo schema di decreto legislativo nel complesso conferma sostanzialmente l’attuale disciplina, mantenendo il ruolo assegnato alla contrattazione collettiva sulla materia.

 Tuttavia, si deve constatare che le restrizioni introdotte nel 2000 alla possibilità di stipulazione di clausole elastiche nei rapporti di lavoro a tempo parziale hanno determinato l’insorgenza di problemi di notevole rilievo in diversi settori, tra i quali quelli del turismo, della ristorazione e dello spettacolo. Lo stesso contratto di lavoro intermittente ne è stata una necessaria conseguenza. Una regolamentazione più flessibile delle clausole elastiche si potrebbe allineare a quanto prescritto dalla corte costituzionale (sentenza n. 210/199). Questa opzione implica che la clausola elastica sia consentita sotto condizione che la variazione del tempo di lavoro sia sottratta al mero arbitrio del datore di lavoro, essendo collegata a “eventi oggettivamente predeterminati o predeterminabili”come prescritto dalla sentenza.

Per quanto riguarda la maggiorazione della retribuzione oraria spettante al lavoratore in caso di modifiche dell’orario in applicazione delle suddette clausole (articolo 4, comma 10), potrebbe essere ritenuto opportuno specificare se, anche in tal caso, si intenda far riferimento (come base di calcolo) alla retribuzione oraria globale di fatto. Si potrebbe, inoltre, esplicitare se, nel contesto della nuova disciplina, il requisito della forma scritta sia posto a pena di nullità delle clausole.

Con riferimento all’articolo 5, comma 2, che prevede che il trattamento economico e normativo del lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, potrebbe essere ritenuta opportuna una più chiara definizione di tale principio, con riguardo al trattamento “normativo”, considerato che la corrispondente norma vigente[14] fa riferimento al “trattamento”, “in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa; l’importo della retribuzione feriale; l’importo dei trattamenti economici per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità”.

 

Per quanto riguarda l’estensione del diritto di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale previsto dall’articolo 6, comma 3, in favore dei soggetti affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, essa consente di sopperire alla frammentazione delle diverse tutele esistenti a livello legislativo e alla poca chiarezza terminologica che ha caratterizzato le disposizioni a livello contrattuale. Non facendo differenze tra patologie, ma considerando solo la gravità delle stesse nel singolo caso, il criterio delle “gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti” offre la possibilità di uno sviluppo positivo sul fronte dell’ampliamento del part-time flessibile e sul versante della tutela più ampia e uniforme della disabilità.

Per quanto riguarda il diritto del lavoratore di richiedere la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, in luogo del congedo parentale, per un periodo corrispondente, con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento (articolo 6, comma 7), sarebbe utile uno stretto coordinamento con il riordino dei congedi parentali.

In merito all’abrogazione esplicita del citato D.Lgs. n. 61 del 2000 (posta dall’articolo 46, comma 1, lettera a)), si segnala che potrebbe essere opportuno escludere il quinto periodo dell’art. 9, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 61, il quale reca una novella di coordinamento al testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari, di cui al D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797.

 

 

Contratto di lavoro intermittente (o a chiamata)

 

Gli articoli da 11 a 16 riguardano il contratto di lavoro intermittente (o a chiamata).

Si ricorda che mediante tale contratto – il quale può essere a tempo indeterminato o a termine – un lavoratore “si pone a disposizione” di un datore di lavoro, per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente.

 

Rispetto all’attuale disciplina dell’istituto, stabilita dagli artt. da 33 a 40 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, emergono le seguenti differenze:

 

  • in base alla formulazione di cui all’articolo 12, comma 1, dello schema, sembrerebbe che si subordini (ferma restando l’autonoma ipotesi di cui al successivo comma 2[15]) alle determinazioni dei contratti collettivi (stipulati dalle associazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale) anche l’ammissibilità dell’ipotesi di contratto intermittente relativo a periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, mentre l’attuale disciplina consente in via diretta quest’ipotesi di contratto intermittente;
  • il divieto di ricorso al lavoro intermittente nelle fattispecie di cui all’articolo 12, comma 4, lettera b), dello schema (sussistenza di licenziamenti collettivi o di trattamenti di integrazione salariale) viene posto in termini tassativi, mentre la corrispondente norma vigente[16] fa salva l’ipotesi di una diversa previsione da parte degli accordi sindacali;

 

  • in merito all’ipotesi di rifiuto ingiustificato, da parte del lavoratore, rispetto all’obbligo, contrattualmente assunto, di “rispondere alla chiamata” del datore di lavoro, si conferma (articolo 14, comma 5) che esso può costituire un motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità relativa al periodo successivo all’ingiustificato rifiuto, ma non si fa riferimento (come invece prevede la corrispondente norma vigente[17]) anche ad un “congruo risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi o, in mancanza, dal contratto di lavoro”;

 

  • il criterio di computo – confermato dall’articolo 16 dello schema – dei lavoratori intermittenti nell’organico dell’impresa è esteso alle ipotesi in cui il computo rilevi per l’applicazione di una disciplina di fonte contrattuale (mentre la corrispondente norma vigente[18] fa riferimento solo all’applicazione delle “normative di legge”).

 

 La disciplina del lavoro intermittente non subisce modifiche rispetto alla legge Fornero, già intervenuta su questo istituto con previsioni che ne hanno di fatto ridotto l’applicazione per una più complessa burocrazia gestionale.

Occorrerebbe una formulazione più chiara dell’articolo 12, comma 1, dal momento che, per presumibile errore materiale, i “periodi predeterminati” a cui si riferisce l’ammissibilità del contratto intermittente vengono riferiti alla stipulazione del contratto, anziché alle prestazioni del lavoratore.

Sotto il profilo meramente formale, si segnala che nell’articolo 13, comma 1, lettera d), dello schema, la locuzione “delle modalità di rilevazione” dovrebbe essere sostituita con la locuzione “modalità di rilevazione”.

 

 

Contratto di lavoro a tempo determinato

 

Gli articoli da 17 a 27 riguardano il contratto di lavoro dipendente a tempo determinato.

 

Rispetto all’attuale disciplina dell’istituto, stabilita dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, emergono le seguenti differenze:

 

  • in merito all’ipotesi di un ulteriore contratto a termine, in deroga al limite complessivo di durata di 36 mesi, si prevede (articolo 17, comma 3, dello schema) che esso abbia una durata non superiore a 12 mesi, mentre la norma vigente[19] demanda ad avvisi comuni delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale la determinazione della durata massima dell’ulteriore contratto;

 

  • il divieto di stipulazione di un contratto a termine nella fattispecie di cui all’articolo 18, comma 1, lettera b), dello schema (sussistenza di licenziamenti collettivi) viene posto in termini tassativi, mentre la corrispondente norma vigente[20] fa salva l’ipotesi di una diversa previsione da parte degli accordi sindacali;

 

  • il divieto di stipulazione di un contratto a termine nelle fattispecie di cui all’articolo 18, comma 1, lettera c) (sussistenza di trattamenti di integrazione salariale) – posto in termini identici a quelli della corrispondente norma vigente[21] – è esteso – in base alla norma di abrogazione di cui al successivo articolo 46, comma 1, lettera d) – per il personale delle società di gestione aeroportuale e delle società da queste derivate e per il personale, anche navigante, dei vettori aerei e delle società da questi derivate (settori, in base alla norma di interpretazione autentica[22] oggetto di abrogazione, esclusi dall’àmbito del divieto in esame);

 

  • riguardo alla disciplina delle proroghe, confermata dall’articolo 19, comma 1, dello schema, si specifica che, qualora il complesso dei contratti a termine tra datore di lavoro e lavoratore sia interessato da un numero di proroghe superiore a cinque, il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla data della sesta proroga (tale profilo non è esplicitamente disciplinato dalla normativa vigente[23]);

 

  • si abroga la norma che esclude la possibilità di stipulazione di un successivo contratto a termine senza soluzione di continuità con il precedente (in tal caso, secondo la norma vigente[24], ora rientrante nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di decorrenza del primo contratto);

 

  • ai fini dell’applicazione delle norme di deroga (confermate dall’articolo 19, comma 3, e dall’articolo 21, comma 2, lettera b), dello schema), relative ai contratti a termine stipulati da parte di imprese start up innovative, si sopprime la condizione che il contratto abbia una durata minima di sei mesi (condizione posta dall’art. 28, comma 3, del D. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, e che rientra nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46, comma 1, lettera e));

 

  • in merito al limite percentuale, per ogni datore di lavoro, dei contratti a termine (confermato dall’articolo 21 dello schema[25]), si prevede la possibilità di diverse determinazioni (oltre che da parte dei contratti collettivi nazionali) anche da parte dei contratti collettivi aziendali o territoriali (sempre se stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) e si specifica che, qualora il datore di lavoro abbia iniziato l’attività nel corso dell’anno solare, la base di calcolo è costituita dal numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell’assunzione (del lavoratore a termine); si definiscono, inoltre, i criteri di arrotondamento (arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5).

Lo schema, inoltre, conferma (commi 4 e 5 dell’articolo 21) le attuali norme sanzionatorie per la violazione dei limiti in oggetto[26], specificando che essa non comporta la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato.

In merito alle deroghe ai limiti in oggetto, il comma 3 dell’articolo 21 dello schema estende l’esclusione (dall’àmbito di applicazione dei limiti) ai contratti a termine relativi ad attività di insegnamento presso università, pubbliche o private, ovvero ad attività di insegnamento presso enti di ricerca, pubblici o privati[27], nonché ai contratti a termine stipulati da istituti della cultura di appartenenza statale ovvero da enti, sia pubblici sia – qualora derivanti da trasformazione di precedenti enti pubblici – privati, vigilati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – ad esclusione delle fondazioni lirico-sinfoniche[28] – per soddisfare esigenze temporanee, legate alla realizzazione di mostre, eventi e manifestazioni di interesse culturale.

Lo schema (articolo 46, comma 1, lettera c), e comma 2) abroga, con effetto dopo diciotto mesi dall’entrata in vigore del presente provvedimento, le norme speciali sui limiti quantitativi previste dall’art. 2 del D.Lgs. n. 368 del 2001, e successive modificazioni, per i settori del trasporto aereo, dei servizi aeroportuali e delle poste;

 

  • per l’impugnazione giudiziale del carattere a tempo determinato del contratto di lavoro, lo schema (articolo 26, comma 1) eleva il termine (stabilito a pena di decadenza e decorrente dalla cessazione temporale del contratto) da 60 a 120 giorni;

 

  • le norme (di cui all’articolo 27 dello schema) sulle esclusioni dall’àmbito della disciplina generale sul contratto a termine non confermano l’esclusione per i rapporti di lavoro con le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione ed all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli (esclusione prevista dall’ 10, comma 5, del D.Lgs. n. 368 del 2001, ora abrogato dal successivo articolo 46).

 

Per i contratti a termine presso pubbliche amministrazioni, il comma 3 dell’articolo 27 dello schema richiama l’art. 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, il quale, a sua volta, prevede l’applicazione della disciplina generale valida per il settore privato, con alcune deroghe e peculiarità.

 

 

La nuova disciplina in materia di contratto a tempo determinato non modifica nel complesso l’impianto vigente a seguito delle ultime disposizioni (d.l. n. 34/2014), apportando aggiustamenti condivisibili: è il caso, ad esempio, del chiarimento sull’applicazione della sola sanzione amministrativa nell’ipotesi di violazione dei limiti quantitativi o della disciplina più snella per l’individuazione delle attività stagionali.

Con riferimento all’esenzione dall’applicazione del limite percentuale di cui all’articolo 21, comma 1 nonché da eventuali limitazioni quantitative previste da contratti collettivi, si invita a valutare l’opportunità di estendere l’esclusione prevista al comma 2 anche ai contratti a tempo determinato stipulati nell’ambito di programmi di cooperazione internazionale allo sviluppo di cui alla Legge n. 125 del 2014, in ragione delle peculiarità di tale settore.

Con riferimento alle deroghe previste dall’articolo 21, comma 3, occorrerebbe, infine, specificare se e in quali termini restino valide quelle relative al personale delle fondazioni lirico-sinfoniche, deroghe previste dall’art. 11, comma 4, del D.Lgs. n. 368 del 2001 (ora oggetto di abrogazione da parte dell’articolo 46 dello schema) e dall’art. 3, comma 6, del D.L. 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 giugno 2010, n. 100, e dall’art. 40, comma 1-bis, del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98 (queste ultime due norme fanno, peraltro, riferimento testuale al D.Lgs. n. 368 del 2001, ora oggetto di abrogazione da parte dell’articolo 46).  

 

 

Somministrazione di lavoro

 

Gli articoli da 28 a 38 concernono la somministrazione di lavoro, per la quale, analogamente al contratto a tempo a tempo determinato, viene introdotto il criterio dell’acausalità.

 

Si ricorda che tale istituto presenta uno schema trilaterale, che si fonda su due diversi contratti: il contratto di somministrazione di lavoro, stipulato tra l’agenzia somministratrice e il soggetto utilizzatore, con cui la prima pone uno o più soggetti a disposizione del secondo, il quale usufruisce della loro prestazione lavorativa; il contratto (a tempo determinato o indeterminato) tra l’agenzia somministratrice ed il prestatore di lavoro, con il quale quest’ultimo è a disposizione della medesima, ai fini dell’assegnazione presso soggetti utilizzatori.

 

Rispetto all’attuale disciplina dell’istituto, stabilita dall’art. 18, commi 3 e 3-bis, e dagli artt. da 20 a 28 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, emergono le seguenti differenze:

 

  • in merito all’ammissibilità del contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (stipulato, come detto, tra l’agenzia somministratrice e il soggetto utilizzatore), si sopprime, da un lato, la limitazione alle fattispecie di cui all’art. 20, commi 3 e 5-bis, del citato Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni, e si introduce, dall’altro, (articolo 29, comma 1) un limite quantitativo (pari al 10 per cento del numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore, secondo i criteri temporali e di arrotondamento ivi posti) del quale è difficile apprezzare la ragion d’essere e la funzione in un’ottica di protezione del lavoro. Basti osservare in proposito che nell’esperienza del Paese ove lo staff leasing è nato, gli USA, questa forma di organizzazione del lavoro produce i risultati migliori e più interessanti là dove la grande impresa fornitrice somministra alla piccola impresa il personale necessario con il servizio della relativa gestione integrale, offrendo ai lavoratori tutti i vantaggi derivanti dal rapporto con un’impresa di maggiori dimensioni, inclusa la garanzia del regolare pagamento di salari e contributi. Le stesse organizzazioni sindacali statunitensi, pur diffidenti nei confronti della somministrazione, considerano con favore lo staff leasing;

 

  • sono fatte salve le diverse previsioni dei contratti collettivi nazionali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Riguardo a quest’ultimo profilo, si ricorda che la citata norma vigente sulle fattispecie di ammissibilità consente la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato anche in tutti i casi contemplati dai contratti collettivi, anche territoriali o aziendali, conclusi dalle suddette organizzazioni[29];

 

  • il divieto di ricorso (da parte di un utilizzatore) alla somministrazione di lavoro nelle fattispecie di cui all’articolo 30, comma 1, lettere b) e c), dello schema (sussistenza di licenziamenti collettivi o di trattamenti di integrazione salariale) viene posto in termini tassativi, mentre la corrispondente norma vigente[30] fa salva l’ipotesi di una diversa previsione da parte degli accordi sindacali;

 

  • lo schema non conferma la norma di cui all’art. 22, comma 3, terzo periodo, del Lgs. n. 276 del 2003 (norma rientrante nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46), secondo la quale l’indennità di disponibilità (spettante al lavoratore, assunto a tempo indeterminato da un soggetto somministratore, per i periodi di mancato utilizzo) è “proporzionalmente ridotta in caso di assegnazione ad attività lavorativa a tempo parziale anche presso il somministratore”.

 

Potrebbe, pertanto, essere ritenuto opportuno chiarire gli effetti di tale abrogazione.

 

  • Si esclude (articolo 32, comma 2) dall’àmbito di applicazione del limite generale di durata (per i contratti di lavoro a termine), pari a 36 mesi, il contratto a tempo determinato tra somministratore e lavoratore (mentre il limite si applica alle missioni a tempo determinato presso l’utilizzatore, secondo la norma confermata dal precedente articolo 17);

 

  • si esclude (articolo 32, comma 2 citato) dall’àmbito di applicazione dei limiti numerici (di cui al precedente articolo 21) per i contratti di lavoro a termine quelli tra somministratore e lavoratore;

 

  • lo schema non conferma la norma di cui all’ 23, comma 5, del D.Lgs. n. 276 del 2003 (norma rientrante nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46), in base alla quale il contratto di somministrazione può prevedere che gli obblighi di informazione, formazione ed addestramento a carico del somministratore e rilevanti ai fini della sicurezza sul lavoro – obblighi confermati dall’articolo 33, comma 4, dello schema – siano adempiuti dall’utilizzatore (anziché dal somministratore). Si ricorda che restano, in ogni caso, valide le norme sugli obblighi a carico degli utilizzatori, esplicitamente poste dalla disciplina generale in materia di sicurezza sul lavoro (di cui al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81);
  • lo schema non conferma la norma di cui all’art. 23, comma 7-bis, del Lgs. n. 276 del 2003 (norma rientrante nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46);

 

  • lo schema non conferma la norma di cui all’art. 23, comma 9-bis, del Lgs. n. 276 del 2003 (norma rientrante nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46), in base alla quale resta salva la facoltà per il somministratore e l’utilizzatore di pattuire, per i servizi resi a quest’ultimo, un “compenso ragionevole” (in relazione alla missione, all’impiego e alla formazione del lavoratore), con riferimento all’ipotesi in cui, al termine della missione, l’utilizzatore assuma il lavoratore.

 

Potrebbe essere ritenuto opportuno chiarire se, in conseguenza dell’abrogazione, tali patti siano nulli in base alla norma (conforme alla disciplina vigente) di cui all’articolo 33, comma 8, dello schema.

 

  • Lo schema non conferma la norma sanzionatoria di cui all’ 28 del D.Lgs. n. 276 del 2003 (norma rientrante nelle abrogazioni di cui al successivo articolo 46).

 

Riguardo alle pubbliche amministrazioni (in qualità di soggetti utilizzatori), l’articolo 29, comma 3, dello schema conferma l’esclusione dell’istituto della somministrazione a tempo indeterminato[31]; inoltre, per le medesime, l’articolo 36, comma 4, dello schema specifica che è esclusa l’applicazione di precedenti disposizioni di chiusura, contenute nello stesso articolo[32].

 

 

Contratti di apprendistato

 

Gli articoli da 39 a 45 riguardano i contratti di apprendistato.

 

Rispetto all’attuale disciplina, stabilita dal testo unico dell’apprendistato, di cui al D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, emergono, inoltre, le seguenti differenze:

 

  • in merito alle tre tipologie vigenti di contratto di apprendistato – per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e di ricerca -, lo schema modifica la denominazione della prima, che viene ora individuata come “apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale”, mentre la seconda tipologia viene indicata esclusivamente come apprendistato professionalizzante;

 

  • si specifica, inoltre, che la prima e la terza tipologia fanno riferimento ai titoli di istruzione e formazione ed alle qualificazioni professionali contenuti nel relativo repertorio nazionale, di cui all’art. 8 del Lgs. 16 gennaio 2013, n. 13, definito nell’àmbito del Quadro europeo delle qualificazioni (articolo 39, comma 3).

 

L’obiettivo è quello di costruire una esperienza che si avvicini quanto più ai modelli duali sperimentati da tempo in Germania e Svizzera, che appaiono più efficaci nel contenere e prevenire la disoccupazione giovanile. La definizione di un unico apprendistato duale, che si configura a pieno titolo come canale dell’offerta educativa, ripropone l’opportunità di consentirne la stipulazione con giovani a partire dal quattordicesimo anno di età o comunque dalla conclusione del ciclo scolastico di scuola media inferiore in modo da contrastare tempestivamente il fenomeno dell’abbandono precoce dello studio e da consentire la piena scelta tra i diversi percorsi in relazione alla vocazione di ciascuno.

 

  • si specifica che il requisito della forma scritta del contratto di apprendistato è posto ai fini della prova (articolo 40, comma 1);

 

  • si prevede che, nell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale e nell’apprendistato di alta formazione e di ricerca, il piano formativo individuale sia predisposto dall’istituzione formativa di provenienza dello studente con il coinvolgimento dell’impresa (articolo 40, comma 1);

 

  • si specifica che, nell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale, costituisce giustificato motivo di licenziamento anche il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi, attestato dall’istituzione formativa di provenienza (articolo 40, comma 3);

 

  • lo schema conferma, invece, il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere, direttamente o indirettamente, per il tramite delle agenzie di somministrazione, con esclusione delle imprese artigiane, non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il medesimo datore di lavoro. Tale rapporto non può superare il 100 per cento per i datori di lavoro che occupano meno di dieci unità di lavoratori. Rimane invariata la disposizione in base alla quale nell’ipotesi in cui non vi siano lavoratori qualificati o siano meno di tre, il datore di lavoro può comunque assumere fino a tre apprendisti (articolo 40, comma 7);

 

  • rispetto alla norma vigente[33] che subordina, per i datori di lavoro che occupino almeno 50 dipendenti, l’ammissibilità del contratto di apprendistato alla prosecuzione (a tempo indeterminato) del rapporto di lavoro (al termine del periodo di apprendistato), nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti (esclusi dal computo i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa), lo schema (articolo 40, comma 8) limita tale condizione alla sola stipulazione dell’apprendistato professionalizzante. Viene confermata la possibilità, in caso di mancato rispetto della suddetta percentuale, di stipulare un solo contratto di apprendistato professionalizzante;

 

  • la regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale è rimessa – da parte dell’articolo 41, comma 3, dello schema – alle regioni ed alle province autonome, sulla base, tuttavia, delle norme di cui ai successivi commi dello stesso articolo; in assenza di regolamentazioni regionali – come specifica il medesimo comma 3 -, trova applicazione quella stabilita dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con propri atti. La normativa vigente, pur demandando anch’essa la regolamentazione in oggetto alle regioni ed alle province autonome, fa riferimento ad un previo accordo tra lo Stato ed i suddetti enti territoriali, sancito dalla relativa Conferenza permanente, sentite le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e pone alcuni principii e criteri direttivi in materia (stabiliti dall’art. 3, comma 2, del citato testo unico, di cui al Lgs. 14 settembre 2011, n. 167);

 

  • in base alla disciplina posta dal presente articolo 41, il datore di lavoro che intenda stipulare un contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale sottoscrive un protocollo con l’istituzione formativa (a cui lo studente è iscritto), secondo lo schema, i contenuti degli obblighi formativi a carico del datore di lavoro e la durata degli stessi, definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca ed il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome (comma 6).

Il medesimo decreto definisce i criteri generali per lo svolgimento dei percorsi di apprendistato negli istituti tecnici e professionali, e, in particolare, il monte orario massimo del percorso scolastico che possa essere svolto in apprendistato ed i requisiti delle relative imprese. In ogni caso, la formazione esterna all’azienda (comma 6 citato) si svolge nell’istituzione formativa cui è iscritto lo studente e non può essere superiore al 60 per cento dell’orario ordinamentale per il secondo anno e al 50 per cento per gli anni successivi.

Per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa, il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo, salva diversa previsione dei contratti collettivi (comma 7), mentre per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta. La norma vigente[34] riconosce, invece, il diritto alla retribuzione con riferimento ad almeno il 35 per cento del monte ore complessivo della formazione a carico del datore.

Lo schema prevede altresì (comma 4 del presente articolo 41) che i datori di lavoro abbiano la facoltà di prorogare fino ad un anno il contratto di apprendistato dei giovani qualificati e diplomati (che abbiano concluso positivamente i percorsi in oggetto), ai fini del consolidamento e dell’acquisizione di ulteriori competenze tecnico-professionali e specialistiche, rilevanti anche ai fini del conseguimento di certificati di specializzazione tecnica superiore.

In materia di prosecuzione o trasformazione, si conferma poi (comma 9 dell’articolo 41) una norma della disciplina vigente[35], prevedendo che, successivamente al conseguimento della qualifica o diploma professionale, sia possibile, allo scopo di conseguire la qualifica professionale ai fini contrattuali, la trasformazione del contratto in apprendistato professionalizzante e che, in tal caso, la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato non sia superiore a quella individuata dai contratti collettivi (stipulati a livello nazionale dalle organizzazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

 

A tal proposito, potrebbe essere ritenuto opportuno chiarire se il riferimento sia posto anche agli accordi interconfederali, contemplati dall’articolo 40, comma 5.

Inoltre, lo schema consente che il contratto di apprendistato sia prorogato di un anno qualora, al termine del periodo contemplato, l’apprendista non abbia conseguito il titolo di qualifica, diploma o specializzazione professionale (comma 4 citato).

Sempre con riferimento al contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale, lo schema prevede (comma 5 dell’articolo 41) che il medesimo possa essere stipulato, da parte dei giovani iscritti al quarto e quinto anno degli istituti tecnici e professionali (di istruzione secondaria superiore), per il conseguimento del diploma e per l’acquisizione di ulteriori competenze tecnico-professionali rispetto a quelle previste dai vigenti regolamenti scolastici, utili anche ai fini del conseguimento di un certificato di specializzazione tecnica superiore; in tale fattispecie, il contratto non può avere durata superiore a tre anni.

Quest’ultima fattispecie di contratto pone, in termini permanenti – ma con limitato riferimento alla tipologia del contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale -, l’ipotesi introdotta per il triennio 2014-2016 (anche in deroga ai limiti di età stabiliti per l’apprendistato di alta formazione e di ricerca) dall’art. 8-bis, comma 2, del D.L. 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 novembre 2013, n. 128, e successive modificazioni, e dal relativo D.M. attuativo. In ogni caso, la norma transitoria summenzionata non è oggetto di abrogazione da parte del presente schema.

 

A tal proposito, potrebbe essere ritenuto opportuno un più chiaro coordinamento in materia;

 

  • riguardo all’apprendistato professionalizzante, lo schema specifica – rispetto alla disciplina vigente – che la qualificazione professionale al cui conseguimento è inteso il contratto è determinata dalle parti contraenti sulla base dei profili o qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale, stabiliti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (articolo 42, comma 1).

Si sopprime l’ipotesi (di cui all’art. 4, comma 2, del citato testo unico, di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011, e successive modificazioni) che gli accordi interconfederali o i contratti collettivi contemplino una modulazione della durata e delle modalità di erogazione della formazione anche in ragione dell’età dell’apprendista.

Analogamente, si sopprime la norma (di cui all’art. 4, comma 3, del testo unico, di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011, e successive modificazioni) in base alla quale, nell’àmbito della tipologia di apprendistato in oggetto, l’offerta formativa pubblica sia disciplinata dalle regioni anche in relazione all’età dell’apprendista;

 

  • riguardo all’apprendistato di alta formazione e di ricerca, lo schema (articolo 43, comma 1) limita – rispetto alla disciplina vigente – il relativo àmbito ai lavoratori in possesso di un diploma di istruzione secondaria superiore o di un diploma professionale conseguito nei percorsi di istruzione e formazione professionale, integrato da un certificato di istruzione e formazione tecnica superiore.

Il limite minimo di età per l’apprendista in oggetto viene unificato a 18 anni, mentre la norma vigente[36] pone un limite inferiore (pari a 17 anni) per l’ipotesi in cui il soggetto sia già in possesso di una qualifica professionale.

Si sopprimono le ipotesi[37] che la tipologia di apprendistato in esame sia adottata per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore o per lo svolgimento di un praticantato per “esperienze professionali” – mentre è confermata l’ammissibilità per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche -.

Lo schema introduce (commi 2 e 3 dell’articolo 43) alcune norme sulla formazione esterna all’azienda e prevede che per le ore di formazione a carico del datore di lavoro sia riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta (mentre nella disciplina vigente non si prevedono riduzioni quantitative); per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa, il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo, salva diversa previsione dei contratti collettivi.

Si demanda, inoltre, ad un decreto ministeriale (da emanarsi secondo la procedura di cui al comma 2) la definizione sia dello schema del protocollo che il datore di lavoro deve sottoscrivere, ai fini della stipulazione del contratto in esame, con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto, o con l’ente di ricerca, sia dell’entità e delle modalità, anche temporali, della formazione a carico del datore di lavoro sia dei crediti formativi riconoscibili a ciascuno studente per la formazione a carico del datore di lavoro, entro il massimo di sessanta.

Lo schema conferma (commi 4 e 5) le norme già vigenti che demandano (per la tipologia di apprendistato in oggetto) ad altri soggetti e fonti la definizione della disciplina della formazione – fatta salva l’introduzione delle norme summenzionate -;

 

  • in merito all’articolo 44 dello schema, si segnala che: esso demanda ad una decreto ministeriale (da emanarsi secondo la procedura di cui al comma 1) la definizione degli standard formativi per tutte le tipologie di apprendistato, mentre la norma vigente[38], per l’apprendistato professionalizzante e per quello di ricerca (distinto, sul punto, da quello di alta formazione), fa riferimento a contratti o accordi collettivi nazionali (stipulabili anche a livello interconfederale) – riguardo al suddetto decreto ministeriale, cfr. altresì supra, sub l’articolo 41, comma 6 –; individua, a seconda delle fattispecie, diversi soggetti responsabili della registrazione della formazione nel libretto formativo del cittadino;

 

  • l’articolo 45, comma 4, dello schema, da un lato, estende ai soggetti con trattamento di disoccupazione anche diverso dall’indennità di mobilità la possibilità di stipulare un contratto di apprendistato in deroga ad ogni limite di età e, dall’altro, limita l’àmbito della deroga ai limiti anagrafici – nella normativa vigente[39] ammessa, come detto, per i titolari di indennità di mobilità – all’apprendistato professionalizzante.

Riguardo all’applicazione dei contratti di apprendistato nel pubblico impiego, il comma 6 dell’articolo 45 dello schema conferma la disciplina vigente[40].

 

Infine, l’articolo 45, comma 10, dello schema fa rinvio all’esercizio della disciplina di delega sulla razionalizzazione degli incentivi all’assunzione (di cui all’articolo 1, commi 3 e 4, della citata L. n. 183 del 2014) per la revisione degli incentivi (per i datori di lavoro) connessi all’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale ed all’apprendistato di alta formazione e di ricerca.

 

Nel complesso, rispetto al contratto di apprendistato di primo e terzo livello, lo schema di decreto legislativo adotta dei correttivi da tempo auspicati rispetto a vincoli che hanno prodotto il quasi completo inutilizzo dello strumento contrattuale, riducendo ora sia il numero di ore della formazione esterna all’azienda, sia la retribuzione da corrispondere all’apprendista. Si ritiene in particolare condivisibile, per la natura dei percorsi (fortemente strutturati con obbligo di frequenza elevato) e per i suoi destinatari (giovani in obbligo di istruzione e/o diritto-dovere di istruzione e formazione), lo spostamento dell’apprendistato per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore dal III livello al I livello, al fine di disciplinarne gli aspetti comuni in modo coordinato con la qualifica IeFp (Istruzione e Formazione Professionale) e il diploma tecnico professionale.

In ragione della natura dei percorsi formativi dell’apprendistato duale, la responsabilità del piano formativo è correttamente posta in capo all’istituzione che rilascia il titolo di formazione cui il contratto stesso è finalizzato, fermo restando il coinvolgimento dell’impresa. Così si evita che tale adempimento sia gestito, insieme alla comunicazione obbligatoria di assunzione, da intermediari esterni ai processi formativi oggetto del contratto.

Potrebbe essere opportuno, limitatamente ai contratti di apprendistato di I e di III livello, adottare uno sgravio contributivo del cento per cento senza limitazione nel numero di addetti. Si ritiene, infatti, che la flessibilizzazione in entrata e in uscita degli apprendisti e la previsione delle corrette forme di agevolazione fiscale possano incentivare i datori di lavoro a scegliere questa tipologia di contratto.

Con riferimento al numero massimo di apprendisti (articolo 40, comma 7), si valuti la possibilità di consentire alle imprese sociali, che offrono opportunità lavorative in ambiente protetto a ragazzi e persone con disabilità intellettiva relazionale accertata, di usufruire di una deroga al numero complessivo di apprendisti, non computando tali soggetti nel numero del personale apprendista “normodotato”. In secondo luogo, sarebbe opportuno prevedere per esse un periodo di pre-apprendistato della durata di almeno tre anni. Specialmente i ragazzi con residua ma presente capacità lavorativa necessitano di maggior tempo di apprendimento, ragion per cui tale previsione potrebbe risultare opportuna anche al fine di agevolare il datore di lavoro che si prende carico della persona con queste caratteristiche.

Potrebbe, inoltre, essere opportuno valutare l’esigenza di una norma transitoria per il periodo precedente l’emanazione del decreto ministeriale volta a definire i criteri generali per lo svolgimento dei percorsi di apprendistato negli istituti tecnici e professionali e, in particolare, il monte orario massimo del percorso scolastico che possa essere svolto in apprendistato ed i requisiti delle relative imprese. Si osserva, inoltre, che, riguardo alla determinazione del numero di ore di formazione da effettuare in azienda, il successivo articolo 44, comma 1 fa riferimento – anziché al decreto ministeriale di cui al citato comma 6 dell’articolo 41 – ad un altro decreto ministeriale, da emanarsi secondo la procedura ivi contemplata. Appare, pertanto, necessario un più chiaro coordinamento riguardo a tale profilo.

La medesima esigenza di una norma transitoria si pone anche con riferimento al decreto ministeriale che definisce, con riferimento all’apprendistato di III livello, lo schema del protocollo che il datore di lavoro deve sottoscrivere con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto, o con l’ente di ricerca, con riferimento all’entità e alle modalità, anche temporali, della formazione a carico del datore di lavoro e dei crediti formativi riconoscibili a ciascuno studente per la formazione a carico del datore di lavoro, entro il massimo di sessanta.

È inoltre utile chiarire se la disposizione di salvaguardia dei diversi limiti contemplati dai contratti collettivi nazionali di lavoro, confermata dall’articolo 40, comma 8, trovi ora applicazione soltanto per l’apprendistato professionalizzante.

 

Nell’articolo 40, comma 7, il richiamo dell’art. 20 del D.Lgs. n. 276 del 2003 – articolo abrogato dal successivo articolo 46 – dovrebbe essere sostituito con il richiamo delle corrispondenti norme dello schema in esame.

Nell’articolo 41, comma 6, la locuzione “e del 50 per cento” dovrebbe essere sostituita con la locuzione “al 50 per cento”.

Riguardo alle norme sanzionatorie di cui all’articolo 45, comma 2, sembra opportuno chiarire se il riferimento, nel primo periodo, sia posto, oltre che ai contratti collettivi di cui al precedente articolo 40, comma 5, anche agli accordi interconfederali contemplati nel medesimo comma 5.

Si osserva, infine, che il comma 4 dell’articolo 45 sembra estendere gli incentivi connessi all’assunzione di lavoratori in mobilità anche per l’ipotesi in cui l’apprendistato sia stato stipulato da un soggetto titolare di un trattamento di disoccupazione diverso dall’indennità di mobilità. A tal proposito, potrebbe essere ritenuta opportuna una più chiara definizione.

 

 

Norme di abrogazione

In merito all’articolo 46 dello schema (articolo già più volte richiamato), occorrerebbe valutare la congruità dell’abrogazione del comma 1 dell’art. 28 del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, in materia di start up innovative, in quanto tale comma fa riferimento anche a successivi commi (del medesimo art. 28) non oggetto di abrogazione.

Si segnala, inoltre, che il comma 1, lettera m), del suddetto articolo 46 abroga la regolamentazione di fonte legislativa del contratto di lavoro ripartito (noto anche come job sharing), nel quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica obbligazione lavorativa. Si tratta solo di circa 150 lavoratori subordinati per cui si può ritenere che tale opportunità non sia stata apprezzata dal mercato del lavoro.

 

Contratti di collaborazione coordinata e continuativa

 

Gli articoli da 47 a 49 dello schema operano una revisione della disciplina dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

 

Si prevede (comma 1 dell’articolo 47) che tali rapporti, a decorrere dal 1° gennaio 2016, siano inquadrati come rapporti di lavoro dipendente, qualora la collaborazione consista, in concreto, in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e con modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro, fatte salve le seguenti fattispecie (di cui ai commi 2 e 3 dello stesso articolo 47): le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi (stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) prevedano discipline specifiche, riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore; le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali sia necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali; le attività prestate (nell’esercizio della relativa funzione) dai componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; le prestazioni di lavoro rese (ai fini della relativa attività) in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate o agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI; i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con pubbliche amministrazioni, fino al completo riordino della disciplina dell’impiego dei contratti di lavoro flessibile da parte delle pubbliche amministrazioni – in ogni caso, viene posto, per le stesse, un divieto di ricorso ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa a decorrere dal 1° gennaio 2017 -.

 

L’articolo 48 prevede, per i datori di lavoro privati, la possibilità di assumere, a decorrere dal 1° gennaio 2016, con contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, i soggetti già titolari (con i medesimi datori) di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto) o i soggetti titolari di partita IVA, con conseguente estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali, connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso, fatti salvi gli illeciti già accertati a séguito di accessi ispettivi effettuati in data precedente l’assunzione. L’estinzione è subordinata alle condizioni poste dalle lettere a) e b) del comma 1.

 

L’articolo 49 prevede che gli articoli da 61 a 69-bis del D. Lgs n. 276 del 2003 rimangano in vigore esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto, superando in tal modo la presunzione di subordinazione per il lavoro autonomo a collaborazione o a partita IVA in presenza di monocommittenza, introdotta dalla Legge Fornero.

 

E’ una decisione importante perché, contestualmente al ridimensionamento delle forme parasubordinate, libera il lavoro indipendente da un pregiudizio in modo che rappresenti l’alternativa al lavoro dipendente ogni qual volta le prestazioni ne hanno le oggettive caratteristiche.

Fermo restando che la pluralità delle forme contrattuali ha permesso di dare risposta a specifiche esigenze delle imprese per lo svolgimento di attività lavorative che, diversamente, avrebbero trovato una difficile collocazione, il governo ha ora deciso di intervenire per limitarne l’utilizzo. L’intendimento degli estensori dello schema di decreto è di prevenire in radice modalità elusive degli obblighi del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato. Questo obiettivo andrebbe opportunamente perseguito secondo tre modalità: a) rispettando la struttura della prestazione contrattuale voluta dalle parti (in particolare la sussistenza o no del vincolo di orario, o del vincolo di obbedienza); b) evitando attentamente il rischio di un eccesso di rigidità, cioè di impedire od ostacolare anche rapporti di collaborazione che non presentano alcun profilo di possibile pericolosità sociale; c)garantendo protezioni adeguate nel caso di una definita dipendenza socio-economica.

Non si vede la necessità di imporre – come si propone nello schema – la struttura del lavoro subordinato, e in particolare il vincolo dell’eterodirezione, che di per sé costituisce un aggravio della posizione del prestatore, in rapporti nei quali le parti effettivamente non lo hanno voluto, quando basterebbe assoggettare quei rapporti, laddove presentino nel caso concreto i tratti propri della dipendenza, alle protezioni essenziali (in particolare quelle relative a licenziamenti, apposizione del termine, orario, ferie, impedimenti).

Non è in ogni caso soppressa la collaborazione autonoma avente per oggetto un servizio a carattere continuativo (articolo 2222 del Codice civile) anche se potrebbe essere inibita dal timore di un contenzioso indotto dalla immanente, inevitabile, coordinazione tra collaboratore e committente, nonché dall’inevitabile carattere ripetitivo (o ravvisabile come tale da un giudice) dell’attività oggetto della prestazione contrattuale. Ritorna quindi l’esigenza di una disciplina più certa della separazione tra lavoro dipendente e lavoro indipendente, che riduca (e non aumenti, come rischia di fare la formulazione attuale dell’articolo 47 dello schema) la discrezionalità del giudice in proposito e quindi il tasso di contenzioso giudiziale.

La soppressione invece del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro prevista dall’articolo 2549 (cfr. infra) potrebbe rendere ardua la diversa regolazione di particolari rapporti già evidenziati dalla legislazione vigente come quelli relativi alle prestazioni artistiche e inibire genuine opportunità di lavoro caratterizzate da condivisione del rischio d’impresa e da remunerazione connessa ai risultati dell’impresa stessa. Non dovrebbe essere difficile la conseguente attività ispettiva per individuare le associazioni in partecipazione che nascondono lavoro subordinato in quanto esercitato in termini eterodiretti e remunerato (usualmente in modo modesto) con preordinazione mensile. Nei casi di dipendenza socio-economica si potrebbe poi disporre l’applicazione delle sopra dette protezioni.

Con riferimento alle collaborazioni organizzate dal committente (articolo 47), come già detto, non sembra opportuna la scelta di considerare come tratto distintivo decisivo della nuova fattispecie allargata di riferimento per l’applicazione del diritto del lavoro il “contenuto ripetitivo” della prestazione lavorativa (comma 1). Quasi tutte le attività professionali, anche quelle più marcatamente creative, assumono un contenuto nel quale è ravvisabile, da parte di un giudice, in qualche misura, il carattere della ripetitività: qualsiasi giornalista scrive ripetitivamente articoli; qualsiasi avvocato scrive ripetitivamente atti giudiziali; qualsiasi scultore produce ripetitivamente sculture; qualsiasi chirurgo compie ripetitivamente interventi chirurgici. Ma non per questo sarebbe ragionevole sostenere che tutte queste attività possano essere svolte soltanto in forma subordinata! Gli spazi enormi che la formulazione della norma dischiude a un contenzioso giudiziale ad altissimo tasso di aleatorietà non sembrano conciliabili con l’esigenza fondamentale di ridurre, al contrario, il contenzioso giudiziale in materia di lavoro, che in Italia ha raggiunto livelli abnormi proprio in conseguenza di disposizioni “aperte” come questa.                                                                                

L’individuazione dei tratti essenziali della situazione di dipendenza sostanziale del prestatore di lavoro dal creditore, ai fini dell’estensione selettiva della protezione giuslavoristica, costituisce la questione più difficile e delicata in tema di contrasto all’elusione delle protezioni: qui più che mai sembra opportuno specificare ulteriormente la soluzione proposta, mettendo a frutto la riflessione che in proposito è maturata negli ultimi anni ad opera di studiosi, esperti e professionisti che su questo tema hanno lavorato intensamente.

Pur nella consapevolezza della necessità di combatterne l’abuso, si segnala l’esistenza di un lavoro parasubordinato assolutamente genuino, com’è, ad esempio:

– il settore degli enti di formazione che opera su progetti finanziati in relazione ai quali vengono ingaggiati collaboratori con varie funzioni (docenti, organizzatori, ecc.);

– il settore degli enti no profit che si avvale di figure collocate di fatto in una posizione intermedia tra il volontariato e la collaborazione continuativa;

– il settore della ricerca scientifica, nel quale la collaborazione, genuinamente autonoma nella sua struttura, è tipicamente legata a un singolo progetto di ricerca.

E gli esempi potrebbero continuare.

Nell’individuare le ipotesi in cui è consentita la stipulazione di collaborazioni coordinate e continuative, l’articolo 47, comma 2, del decreto, così come formulato, sembrerebbe restringere la possibilità di ricorrere a tale tipologia contrattuale a poche e ben individuate categorie: a quelle collaborazioni regolamentate dagli accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e a specifiche ipotesi ricalcate su quanto previsto dall’articolo 61 del d.lgs. n. 276 del 2003. Inoltre, sul punto si segnala un vuoto normativo in riferimento alle attività rese da coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia, dentro una autonoma organizzazione del tempo di lavoro, ipotesi di esclusione prevista nel d.lgs. n. 276/2003 e non riproposta nello schema di decreto legislativo.

Ad ogni modo, non si può prescindere dal ricorso a questa tipologia contrattuale in alcuni settori in ragione delle loro peculiari caratteristiche.

In primo luogo, risulta opportuno considerare espressamente la normativa specifica per il settore dei call center in outbound, che il legislatore ha introdotto a fronte di un’attività a forte delocalizzazione. Gli operatori telefonici sono oggi per la maggior parte inquadrati come collaboratori a progetto, anche come conseguenza dell’articolo 24-bis del d-l n. 83 del 2012 che ha permesso di continuare ad utilizzare le collaborazioni coordinate e continuative con riferimento a questa tipologia di call center ed ha introdotto per la prima volta in Italia una serie di tutele e garanzie anche per il lavoro parasubordinato, a fronte dell’autonomia nello svolgimento della prestazione da parte del collaboratore che, essendo nella maggior parte dei casi un giovane o una donna lavoratrice, ha bisogno di flessibilità per poter conciliare i propri impegni di studio o di famiglia. Se non si vuole che le aziende di questo settore chiudano in Italia e delocalizzino le proprie attività all’estero, così come se si vuole evitare che i committenti spostino gli investimenti su altri canali di comunicazione, risulta opportuno preservare la possibilità di utilizzare le collaborazioni coordinate continuative almeno in tutti i casi in cui queste siano regolate da un accordo aziendale o, in alternativa, individuare un contratto specifico di settore che tenga conto delle modalità particolari con cui sono erogate le prestazioni dei collaboratori (assenza di vincolo di orario fisso, autonomia nell’organizzazione del lavoro). In ragione delle sue caratteristiche, è condivisibile ritenere che il settore non potrebbe reggere alcun irrigidimento delle regole di gestione del lavoro, tanto meno una trasformazione verso il lavoro subordinato.

Analogamente, modalità peculiari non assimilabili al lavoro subordinato caratterizzano le prestazioni rese da coloro che sono incaricati di svolgere servizi di assistenza al domicilio del soggetto assistito ovvero presso strutture ospedaliere o di degenza, offerti da agenzie, per lo più costituite in forma di cooperative sociali. In assenza di dirigenti o superiori a cui rispondere in via gerarchica, al collaboratore è riconosciuta ampia autonomia tecnica e metodologica, essendo a quest’ultimo rimessa la scelta delle attività socio – assistenziali da porre in essere in funzione delle esigenze riscontrate e delle finalità dell’intervento assistenziale. La peculiarità di tali rapporti di lavoro consiste, infatti, nella circostanza che una volta informati dall’agenzia con cui collaborano della richiesta d’intervento – e solo ove siano disponibili ad accettare la specifica tipologia del servizio – i collaboratori concordano direttamente con l’assistito, ovvero con i suoi familiari, ogni profilo operativo attinente alla tipologia delle prestazioni necessarie, gli orari dell’assistenza, la durata presumibile della stessa, le concrete e mutevoli modalità di erogazione del servizio. A fortiori, il ricorso a tipologie contrattuali flessibili ed autonome per il settore in discussione è stato peraltro riconosciuto pienamente legittimo da alcune pronunzie giurisprudenziali che hanno ritenuto ammissibile l’utilizzo di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa proprio in virtù delle modalità con cui è resa la prestazione.

Adottando lo stesso criterio di analisi, potrebbe infine, risultare opportuno inserire tra le ipotesi di collaborazioni organizzate dal committente esonerate dall’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, una esplicita esclusione con riferimento alle prestazioni di lavoro rese a favore dei soggetti di cui all’articolo 26 della l. n. 125 del 2014 per attività di cooperazione internazionale, in ragione delle peculiari condizioni in cui si trovano a svolgere le proprie prestazioni gli operatori delle organizzazioni non governative e dei soggetti ad esse assimilati.

Una impostazione equilibrata – che eviti, da un lato, la facile strumentalizzazione della flessibilità insita nel lavoro autonomo per perpetuare forme di precariato e, dall’altro, il venir meno della possibilità di operare nel mercato lecitamente e serenamente anche se fuori dalla sfera del lavoro subordinato – potrebbe rendere opportuno:

a) confermare la piena legittimità della prestazione di lavoro delle forme di lavoro autonomo che presentano requisiti di continuità, coordinamento e collaborazione rispetto all’attività del committente, riconoscibile in funzione delle modalità di svolgimento e di gestione della prestazione, in conformità ai criteri di autonomia/subordinazione elaborati dall’ormai costante e consolidata interpretazione giurisprudenziale;

b) salvaguardare la disciplina definita da accordi collettivi di 1° o di 2° livello stipulati con organizzazioni o rappresentanze sindacali – e non solo le confederazioni – comparativamente più rappresentative sul piano nazionali;

c) ferma restando la disciplina definita dagli accordi collettivi di cui al punto precedente, introdurre per le collaborazioni restanti – o, in subordine, per qualunque collaborazione coordinata e continuativa – il criterio legale dell’applicazione di alcune regole di certezza e tutela per il collaboratore, in presenza di una situazione di “dipendenza economica”. Sulla base della definizione di tale fattore di equilibrio/criterio, vanno ricondotte ad equità le collaborazioni che, pur essendo e restando genuinamente autonome (e quindi senza alcuna automatica riqualificazione del rapporto da autonomo a subordinato ex lege), è bene che siano destinatarie di alcune regole – eventualmente mutuate anche dalle diverse tipologie di lavoro dipendente esistenti – al fine di ridurre al minimo il precariato.

Per quanto riguarda la ridefinzione dei confini tra lavoro dipendente e indipendente, lo schema di decreto, come già detto, correggendo la legge Fornero, all’articolo 49, comma 1, riconosce il lavoro autonomo a collaborazione o a partita IVA anche quando il committente è uno solo. Il lavoro che cambia, la nascita di nuovi mestieri e di nuove genuine attività di lavoro autonomo – basti pensare solo al variegato mondo dei makers – sarebbe gravemente penalizzata da una previsione normativa che – introdotta con l’intento di colpire le false partite IVA – finirebbe inevitabilmente con il danneggiare quelle autentiche, portando all’assurda conseguenza di configurare un rapporto di lavoro genuinamente autonomo come rapporto di lavoro subordinato. L’introduzione o la conferma di criteri presuntivi di non genuinità del lavoro autonomo, che renderebbero di fatto impossibile la prova contraria, avrebbe danneggiato la creazione di nuova impresa. E’ un segnale importante che il Governo non abbia ritenuto di penalizzare ulteriormente le c.d. Partite IVA ma, semmai, abbia salutato con favore la possibilità, attraverso un loro adeguato utilizzo, di sviluppare nuove attività imprenditoriali, con attenzione alle nuove professioni.

In conclusione, può comunque risultare opportuno definire in termini più chiari i termini temporali di applicazione della nuova disciplina – in quanto l’articolo 47, comma 1, reca la data del 1° gennaio 2016, mentre l’articolo 49 fa riferimento alla data di entrata in vigore del decreto legislativo – nonché specificare se i contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati prima della medesima data di entrata in vigore e quelli stipulati prima del 1° gennaio 2016 restino assoggettati alle precedenti norme anche dopo il 31 dicembre 2015.

 

Contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro

L’articolo 50 dello schema abroga la fattispecie del contratto di associazione in partecipazione (agli utili dell’impresa o di “uno o più affari”[41]) con apporto di lavoro (o con apporto misto di capitale e di lavoro)[42], limitando tale istituto contrattuale all’ipotesi in cui l’apporto (dell’associato in partecipazione) sia costituito da un capitale.

Ai sensi del comma 3, sono fatti salvi i contratti già stipulati, fino alla loro cessazione.

 

A tal proposito, occorrerebbe esplicitare quale sia la data entro cui i contratti debbano essere o essere stati stipulati, ai fini dell’applicazione della suddetta norma transitoria, e se quest’ultima – considerato il termine “anche” da essa adoperato – concerna pure i contratti di associazione in cui l’apporto consista esclusivamente di lavoro.

Con riferimento alla associazione in partecipazione con mero apporto di lavoro, l’ultimo intervento normativo in materia (Legge n. 92 del 2012), aveva già notevolmente circoscritto con certezza i casi di utilizzo di tale tipologia contrattuale, come dimostrano anche gli esigui numeri relativi all’utilizzo di tale strumento, facilmente verificabili dai dati INPS. In ogni caso, l’eliminazione di questa tipologia – la cui eventuale mancanza di genuinità è facilmente accertabile in sede ispettiva – determina un grave vulnus per chi intenda intraprendere un’attività di lavoro autonomo possedendo capacità e qualificazione professionale, ma non i necessari capitali.

 

 

Contratti di lavoro accessorio

 

Gli articoli da 51 a 54 operano una revisione dell’istituto del lavoro accessorio.

Si ricorda che esso riguarda prestazioni retribuite mediante buoni orari dal valore unitario prefissato, il cui importo complessivo annuo non può superare determinati limiti, relativi sia a ciascun lavoratore sia alle sole prestazioni rese dal lavoratore in favore di un singolo committente (imprenditore o professionista).

 

Rispetto alla disciplina vigente – posta dagli artt. 70, 72 e 73 del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni -, lo schema propone le seguenti modifiche:

 

  • in merito all’ammissibilità del ricorso all’istituto in esame, lo schema eleva (articolo 51, comma 1) a 7.000 euro il limite annuo relativo all’importo complessivo, per ciascun lavoratore, del valore dei buoni orari – tale limite era pari, nel 2014, a 5.050 euro -.

 

Invero, non sembra così necessario imporre un tetto al singolo lavoratore perché ciò che più conta è evitare, oltre una certa soglia, l’elusione da parte del committente dell’obbligo di strutturare in modo appropriato il rapporto di lavoro con un singolo prestatore. A questo proposito, il valore complessivo dei buoni impiegati dal singolo committente (imprenditore o professionista), nei confronti del medesimo lavoratore, ha qui un limite annuo di 2.000 euro, mentre il valore per il 2014 era pari a 2.020 euro (in conseguenza degli aggiornamenti annui dell’importo di 2.000 euro, originariamente fissato dalla norma). Si segnala che tale limite potrebbe essere portato a 5000 euro per esigenze di coerenza con quanto stabilito dal DL 269/03 convertito in L 326/03 e dalla conseguente circolare INPS n. 103 del 6 luglio 2004. Secondo tali disposizioni i soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale e gli incaricati alle vendite a domicilio sono iscritti alla gestione separata INPS solo qualora il reddito annuo derivante dalle predette attività sia superiore ad euro 5000. Uniformando il limite si eviterebbe la propensione, al di sotto di esso, ad utilizzare la prestazione occasionale ex art. 2222 del codice civile che è priva, a differenza del voucher, di qualsiasi forma di assicurazione.

Per i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, lo schema pone a regime la norma, già operante per gli anni 2013 e 2014, che stabilisce un limite unico di 3.000 euro annui – con riferimento, cioè, sia al valore dei buoni orari percepiti dal lavoratore sia al valore complessivo dei buoni impiegati dal singolo committente (anche pubblico), nei confronti del medesimo lavoratore -.

 

Si osserva che, per il suddetto limite – al contrario che per i precedenti -, lo schema non prevede un meccanismo di rivalutazione annua.

Si ricorda che tutti i limiti summenzionati sono al netto delle ritenute – in favore degli enti previdenziali – di natura assicurativa e contributiva e per i costi di gestione. Con la locuzione “anno civile”, adoperata dallo schema, si conferma l’interpretazione fin qui seguìta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dall’INPS, in base alla quale i limiti si applicano ad ogni periodo “1 gennaio – 31 dicembre”.

 

L’innalzamento dei limiti economici previsti consentirà di fare emergere un numero più ampio di prestazioni con maggiore certezza giuridica sia per i prestatori che per gli utilizzatori. Potrebbe essere utile allo stesso scopo codificare la irrilevanza della natura delle prestazioni rese, tanto autonome quanto subordinate.

Lo schema, inoltre, introduce (articolo 51, comma 6) il divieto di ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell’àmbito dell’esecuzione di appalti di opere o di servizi, salve specifiche ipotesi, individuate, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo, con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali.

 

Potrebbe essere opportuno specificare se si intenda far riferimento, in tutto o in parte, anche ai casi in cui l’esecuzione riguardi i contratti rientranti nella nozione civilistica di somministrazione[43], anziché di appalto;

  • riguardo alle modalità di acquisto dei carnet di buoni orari, lo schema prevede in via esclusiva l’impiego di modalità telematiche[44], ad eccezione dei committenti non imprenditori né professionisti, i quali possono continuare ad acquistarli anche presso le rivendite autorizzate (articolo 52, comma 1);

 

  • la comunicazione obbligatoria, prima dell’inizio della prestazione, è effettuata, ai sensi del comma 3 dell’articolo 52, alla direzione territoriale del lavoro competente, mentre, nel sistema attuale del lavoro accessorio, essa è effettuata all’INPS. Il comma 3 specifica, inoltre, che la comunicazione deve indicare il luogo della prestazione, con riferimento ad un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi;

 

  • riguardo alla percezione del compenso da parte del lavoratore, lo schema (articolo 52, comma 4) prevede che essa sia possibile (presso il concessionario del servizio) successivamente all’accreditamento dei buoni da parte del committente, mentre la norma vigente la subordina alla restituzione dei buoni da parte del lavoratore (sempre presso il concessionario).

 

Potrebbe essere ritenuta opportuna una più chiara formulazione in merito;

 

  • Resta fermo l’impiego, secondo la previgente disciplina e fino al 31 dicembre 2015, dei buoni già richiesti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo (articolo 54, comma 2).

 

 

 

 

Variazioni di mansioni

 

L’articolo 55 opera una revisione della disciplina sull’attribuzione di mansioni e sulle variazioni delle stesse.

 

Come detto, l’attuale ordinamento[45] prevede, con sanzione di nullità di ogni patto contrario, che: il lavoratore dipendente sia adibito alle mansioni per le quali sia stato assunto ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione; nel caso di assegnazione a mansioni di livello superiore, il dipendente abbia diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione stessa diventi definitiva – sempre che la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di un lavoratore assente e con diritto alla conservazione del posto – dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e, in ogni caso, non superiore a tre mesi[46]. Inoltre, la giurisprudenza ha ammesso ipotesi di demansionamento (cioè, di attribuzione di mansioni inferiori) in alcuni casi, tra cui le situazioni temporanee di necessità, determinate da forza maggiore, o le esigenze di evitare il licenziamento per motivi oggettivi o il collocamento in cassa integrazione[47].

 

La disciplina di delega (di cui all’art. 1, comma 7, lettera e), della L. 10 dicembre 2014, n. 183) prevede una revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, nell’ipotesi di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (individuati sulla base di parametri oggettivi), con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, contemplando, in ogni caso, limiti alla modifica dell’inquadramento. Tale revisione deve prevedere anche la possibilità che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a livello interconfederale o di categoria, individui ulteriori ipotesi, rispetto a quelle suddette.

 

Rispetto alla disciplina vigente, l’articolo 55 dello schema propone le seguenti modifiche:

 

  • si consente (secondo, quarto e sesto capoverso del comma 1) il demansionamento nelle seguenti fattispecie: 1) modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore; 2) ipotesi contemplate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; 3) accordi individuali – conclusi nelle sedi di conciliazione (previste per le controversie in materia di lavoro) ovvero dinanzi alle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro[48] – di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Nelle prime due fattispecie, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (quinto capoverso).

Riguardo alla prima fattispecie, si prevede che il mutamento di mansioni sia accompagnato, ove necessario, dall’adempimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina, in ogni caso, la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni (terzo capoverso);

 

  • in merito alle ipotesi di assegnazione a mansioni di livello superiore, si eleva (settimo capoverso) da tre mesi a sei mesi il periodo di svolgimento oltre il quale l’assegnazione diventa definitiva e si dispone che tale termine si applichi solo in mancanza di determinazione di un diverso termine da parte dei contratti collettivi, mentre la norma vigente prevede che il termine contemplato da questi ultimi non possa essere superiore a tre mesi. La novella specifica, inoltre, che i sei mesi devono essere continuativi – in merito, nell’attuale disciplina, con riferimento al termine di tre mesi, si sono registrate varie interpretazioni, anche da parte della giurisprudenza – e che si fa riferimento esclusivamente ai contratti collettivi (anche aziendali) stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

In base alla novella, la natura definitiva dell’assegnazione non è riconosciuta qualora l’assegnazione medesima abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio; sul punto, la norma vigente adopera la formulazione, parzialmente diversa, di “sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto”.

La novella prevede altresì che (riguardo alla natura definitiva dell’assegnazione a mansioni superiori) sia in ogni caso fatta salva la diversa volontà del lavoratore.

 

Tenuto conto del principio di nullità dei patti contrari, confermato dal nono capoverso del presente articolo 55, comma 1, sembrerebbe opportuno definire in termini più chiari le forme ed i termini temporali di espressione della diversa volontà summenzionata.

 

Il comma 2 dell’articolo 55 abroga i termini temporali specifici, previsti per il passaggio alla categoria dei quadri o a quella dei dirigenti, ai fini della determinazione della natura definitiva dell’assegnazione a mansioni superiori (tale periodo, nella normativa vigente, è pari a 3 mesi o a quello superiore stabilito dai contratti collettivi).

 

 

Si rileva che le novelle sulle variazioni di mansioni non appaiono riguardare i dipendenti pubblici, per i quali la disciplina in materia di mansioni è posta dall’art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.

 

La modifica del divieto di adibire il personale a mansioni inferiori, che viene inserita nello schema di decreto legislativo, si limita a recepire gli orientamenti giurisprudenziali degli ultimi trent’anni lasciando la soluzione delle reali problematiche che quotidianamente si presentano nell’organizzazione aziendale ad accordi collettivi, sempre difficili da raggiungere. Sarebbe, al contrario, opportuno introdurre una reale clausola di flessibilità nello jus variandi che consentisse, anche nell’interesse del lavoratore, di poterne modificare le mansioni ogniqualvolta si sia in presenza di specifiche esigenze (obsolescenza delle competenze professionali o rilevanti innovazioni di processo o di prodotto).

 

 

Copertura finanziaria e clausola di salvaguardia

L’articolo 56 provvede alla copertura finanziaria degli oneri derivanti dai precedenti articoli da 47 a 50, impiegando parte delle risorse del fondo istituito precipuamente per l’esercizio delle deleghe di cui alla citata L. 10 dicembre 2014, n. 183 (fondo di cui all’art. 1, comma 107, della L. 23 dicembre 2014, n. 190) e del fondo sociale per occupazione e formazione.

 

Gli oneri finanziari in esame derivano da una maggiore applicazione – conseguente agli articoli summenzionati – dello sgravio contributivo (di cui ai commi 118 e seguenti dell’art. 1 della L. 23 dicembre 2014, n. 190) concernente i contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati entro il 31 dicembre 2015.

 

Si pongono, inoltre, le clausole di monitoraggio e salvaguardia finanziaria; in merito, il comma 2 prevede – in caso di scostamenti rispetto alle stime – l’introduzione, con decreto ministeriale, di un contributo aggiuntivo di solidarietà in favore delle gestioni previdenziali ed a carico dei datori di lavoro del settore privato e dei lavoratori autonomi.

 

 

Ancorché determinata da esigenze collegate alla certezza della copertura finanziaria, tale clausola è già apparsa in evidente contraddizione con l’indirizzo perseguito dal governo in termini di contenimento del costo indiretto del lavoro. Né aiuta la ripresa del mercato del lavoro una condizione di incertezza sugli oneri futuri a carico dei datori di lavoro. Se ne propone quindi la soppressione o la sostituzione con altre modalità di copertura, invitando il governo a considerare gli effetti complessivi della riforma e di questo decreto sulle entrate contributive. L’ampliamento, ad esempio, delle possibilità di impiego dei buoni prepagati consentirà di attrarre nell’area regolata prestazioni che oggi si collocano tutte nella dimensione sommersa. Per non dire della ragionevole attesa di un più generale sviluppo dell’occupazione regolare nelle diverse modalità consentite.

 

 

Data di entrata in vigore

 L’articolo 57 specifica – in conformità alla norma posta nella disciplina di delega[49] – che il presente provvedimento entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 

 

Conclusioni

Lo schema di decreto si caratterizza per risultati apprezzabili in termini di riduzione del volume della legislazione sulle materie trattate, oltre che per alcuni spunti di alleggerimento dei vincoli vigenti. Tuttavia, l’impianto e alcune tra le scelte contenute presentano i limiti segnalati dei quali si auspica il superamento.

In primo luogo peraltro, avvertiamo il dovere di segnalare che non viene qui compiutamente adempiuta la delega là ove si parla di “testo organico semplificato delle discipline dei contratti e dei rapporti di lavoro”: nei 57 articoli dello schema di decreto è presente solo il riordino delle norme legislative in materia di part-time (nove articoli), lavoro intermittente (sei), lavoro a tempo determinato (undici), somministrazione (undici), apprendistato (sette), collaborazioni continuative autonome (tre), associazione in partecipazione con apporto di lavoro (uno), lavoro accessorio (quattro) e mutamento di mansioni (uno). Si è quindi ancora lontani da un testo organico semplificato dell’intera disciplina richiesto dalla legge delega. Inoltre, pur realizzando una notevole riduzione di volume e un notevole guadagno in chiarezza rispetto alla legislazione vigente, la scrittura di questo schema di decreto è ancora in qualche misura affetta dall’ipertrofia del passato.

 La cultura giuslavoristica che si esprime in questo schema di decreto è, a tratti, ancora legata allo schema inaugurato nella seconda metà degli anni ’70, caratterizzato dalla norma rigidamente restrittiva che può essere derogata solo mediante contratto collettivo nazionale stipulato con i sindacati maggioritari. Disposizioni di questo genere sono presenti nell’intero impianto del decreto. Se la contrattazione di prossimità può certamente consentire la reciproca adattabilità tra le esigenze dell’impresa e quelle dei lavoratori, diventa eccessiva la funzione del sindacato quale unico regolatore della flessibilità nella dimensione generale. In tal modo, non si fa un buon servizio né alle confederazioni sindacali, chiamate ad assumere responsabilità non sempre agevoli, né alle imprese che hanno bisogno di regole semplici e certe per nascere e crescere.

Da alcune disposizioni, infine, emerge ancora diffidenza nei confronti di alcune tipologie di lavoro. Emblematico è lo spazio dedicato alla disciplina del contratto di lavoro a tempo parziale: a differenza degli altri maggiori ordinamenti europei, sono nove lunghi articoli, quando essa può forse, come dimostrano le legislazioni dei maggiori Paesi europei e, in casa nostra, elaborazioni largamente condivise di cui già disponiamo, essere disciplinata in uno solo di una decina di commi brevi.

Quanto infine alla disposizione di cui all’articolo 47, si identificano particolari modalità di svolgimento della prestazione subordinata che si affiancano alla norma codicistica vigente con il pericolo di una incerta individuazione dell’effettivo regime del rapporto di lavoro e del conseguente contenzioso. Il nuovo testo unico dovrà essere invece utile a dare semplicità e certezza alla regolazione del lavoro.

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Note

[1] Per alcune norme in materia, cfr., oltre al testo unico dell’apprendistato, di cui al D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, l’art. 5, comma 4-ter, l’art. 8-bis e l’art. 16, comma 1, lettera g), del D.L. 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 novembre 2013, n. 128, e successive modificazioni.

[2] Cfr. l’art. 2103 del codice civile, come novellato dall’art. 13 della L. 20 maggio 1970, n. 300.

[3] La disciplina di tali termini temporali è diversa per le ipotesi di passaggio alla categoria dei quadri o a quella dei dirigenti, ai sensi dell’art. 6 della L. 13 maggio 1985, n. 190, e successive modificazioni.

[4] Al contrario della norma vigente, posta dall’art. 3, comma 2, del citato D.Lgs. n. 61 del 2000, e successive modificazioni.

[5] Riguardo ai requisiti che devono possedere i contratti collettivi ai fini dell’applicazione della disciplina di cui agli articoli da 2 a 10 in oggetto, lo schema (articolo 2, comma 2, lettera g)) conferma la nozione posta dall’attuale normativa del rapporto di lavoro a tempo parziale.

[6] Entro il limite del tempo pieno, secondo la norma già vigente e confermata dall’articolo 2, comma 2, lettera f), dello schema.

[7] Riguardo alle nozioni di contratti a tempo parziale di tipo verticale o misto, cfr. l’articolo 2, comma 2, lettere d) ed e), del presente schema.

[8] Al contrario della norma vigente, posta dall’art. 3, comma 9, del citato D.Lgs. n. 61 del 2000, e successive modificazioni.

[9] Commissioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni.

[10] Cfr. l’art. 4, comma 2, lettera a), del citato D.Lgs. n. 61 del 2000.

[11] Il riferimento è sempre ai contratti collettivi rientranti nella definizione di cui all’articolo 2, comma 2, lettera g), dello schema, che conferma la nozione posta dall’attuale normativa del rapporto di lavoro a tempo parziale.

[12] Spettante ai sensi del Capo V del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni.

[13] Di cui all’art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 61 del 2000, e successive modificazioni.

[14] Cfr. l’art. 4, comma 2, lettera b), del D.Lgs. n. 61 del 2000.

[15] Il quale ultimo corrisponde, in termini identici, all’art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni.

[16] Di cui all’art. 34, comma 3, lettera b), del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni.

[17] Di cui all’art. 36, comma 6, del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni.

[18] Di cui all’art. 39 del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni.

[19] Di cui all’art. 5, comma 4-bis, del D.Lgs. n. 368 del 2001, e successive modificazioni.

[20] Di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 368 del 2001.

[21] Di cui all’art. 3, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 368 del 2001.

[22] Di cui all’art. 3-bis del D.L. 11 giugno 2002, n. 108, convertito, con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2002, n. 172, e successive modificazioni.

[23] Di cui all’art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 368 del 2001, e successive modificazioni.

[24] Di cui all’art. 5, comma 4, del D.Lgs. n. 368 del 2001.

[25] Per la normativa vigente in materia, cfr. l’art. 1, comma 1, e l’art. 10, comma 7, del D.Lgs. n. 368 del 2001, e successive modificazioni.

[26] Le norme sanzionatorie vigenti sono poste dall’art. 5, commi 4-septies e 4-octies, del D.Lgs. n. 368 del 2001.

[27] Per l’attuale formulazione dell’esclusione per tali datori di lavoro, cfr. l’art. 10, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 368 del 2001.

[28] Riguardo alle fondazioni lirico-sinfoniche, cfr. anche la parte della presente scheda relativa all’articolo 27 dello schema.

[29] Cfr. la lettera i) del citato art. 20, comma 3, del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni.

[30] Di cui all’art. 20, comma 5, lettera b), del D.Lgs. n. 276 del 2003, e successive modificazioni.

[31] Esclusione che, nella normativa vigente, è posta dall’art. 86, comma 9, del D.Lgs. n. 276 del 2003.

[32] Riguardo a tali disposizioni di chiusura, nella normativa vigente, cfr. l’art. 27, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 276 del 2003.

[33] Di cui all’art. 2, comma 3-bis, del citato testo unico, di cui al D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, e successive modificazioni.

[34] Di cui all’art. 3, comma 2-ter, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011.

[35] Di cui all’art. 3, comma 2-bis, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011.

[36] Di cui all’art. 5, comma 1, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011.

[37] Di cui al citato art. 5, comma 1, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011.

[38] Di cui all’art. 6, comma 2, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011.

[39] Di cui all’art. 7, comma 4, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011, e successive modificazioni.

[40] Di cui all’art. 7, comma 8, del testo unico di cui al D.Lgs. n. 167 del 2011.

[41] Secondo la terminologia di cui all’art. 2549 del codice civile.

[42] Riguardo alla disciplina di tale fattispecie, cfr. il citato art. 2549 del codice civile e l’art. 1, comma 30, della L. 28 giugno 2012, n. 92.

[43] Riguardo alla nozione di contratto di somministrazione, cfr. l’art. 1559 del codice civile.

[44] Queste ultime sono già operanti.

[45] Cfr. l’art. 2103 del codice civile, come novellato dall’art. 13 della L. 20 maggio 1970, n. 300.

[46] La disciplina di tali termini temporali è diversa per le ipotesi di passaggio alla categoria dei quadri o a quella dei dirigenti, ai sensi dell’art. 6 della L. 13 maggio 1985, n. 190, e successive modificazioni. Cfr. infra, in merito.

[47] In merito all’eventuale demansionamento per esigenze di salute, cfr. l’art. 7 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, e l’art. 42, comma 1, del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, e successive modificazioni. Un’altra norma specifica in materia di demansionamento è posta, con riferimento agli accordi sindacali per il riassorbimento delle eccedenze, dall’art. 4, comma 11, della L. 23 luglio 1991, n. 223.

[48] Commissioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni.

[49] Norma di cui all’art. 1, comma 15, della L. 10 dicembre 2014, n. 183.

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