LE ACCUSE DI ATTENTATO ALLA DEMOCRAZIA, CHE VENGONO MOSSE AL DISEGNO DI LEGGE APPROVATO DAL SENATO, ORA IN TERZA LETTURA ALLA CAMERA, NON REGGONO A UN ESAME ATTENTO E SPASSIONATO (MENTRE IL RISCHIO DI LASCIARE IL PAESE PRIVO DI UNA LEGGE ELETTORALE PRATICABILE È GRAVISSIMO E INCOMBENTE)
Appunti di Augusto Barbera, professore di diritto costituzionale all’Università di Bologna, e memoria di Carlo Fusaro, professore di diritto costituzionale nell’Università di Firenze, per le audizioni sulla legge elettorale, svoltesi alla Camera dei Deputati rispettivamente il 13 e il 15 aprile 2015 .
APPUNTI DI AUGUSTO BARBERA
Eviterò una tentazione: quella di basare il giudizio sul testo in corso di esame a Montecitorio sulla base delle mie personali preferenze in ordine ai sistemi elettorali. Ho fatto battaglie nel movimento referendario per i collegi uninominali maggioritari e non le rinnego ma il testo in discussione è il frutto di dinamiche politiche e di equilibri politici di cui bisogna tenere conto: l’alternativa è l’impotenza parlamentare e il discredito delle istituzioni politiche.
Non credo peraltro che questo testo ponga problemi di legittimità costituzionale. Anzi colgo l’occasione per dissociarmi da quei colleghi costituzionalisti che con troppa leggerezza mettono in campo la Carta costituzionale. Se problemi ci sono essi vanno valutati in termini di coerente “politica costituzionale”, non in termini di “diritto costituzionale”.
Due regole non mi convincono: la pluralità delle candidature e la clausole di esclusione , perché la prima interrompe il rapporto diretto con gli elettori del collegio pluri-nominale e perché la clausola troppo bassa (il 3%) non incentiva l’aggregazione di uno schieramento alternativo. Ma mi rendo conto che modificando questi punti verrebbe ad alterarsi la base parlamentare che sostiene questo progetto (la clausola bassa è stata voluta dalla minoranza interna del PD e dai Partiti alleati di governo) e credo che in politica bisogna arrendersi di fronte al principio di realtà.
Dico subito che, con questo spirito, da cittadino, guarderei con preoccupazione alla modifica del testo faticosamente approvato dal Senato, e quindi alla possibile riapertura di logoranti discussioni.
Ma dico questo non in via pregiudiziale ma perché non mi convincono le motivazioni di chi vorrebbe modificare il testo. Li raggruppo per questioni.
Premio alla lista più votata e non alla coalizione di liste ?
È una soluzione che tiene conto di una critica martellante che negli anni scorsi veniva rivolta a tutti i sistemi maggioritari (o parzialmente maggioritari): quella di dare vita a coalizioni rabberciate idonee a vincere ma non in grado di governare . Critiche non infondate, che infatti portarono alcuni di noi all’iniziativa referendaria del 2009 (c.d. referendum Guzzetta) che passò il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale (Sentenza n.15 del 2008), ebbe la stragrande maggioranza dei votanti ma non ottenne il prescritto quorum degli aventi diritto al voto. Quel referendum, incidendo con un taglio sull’espressione “premio alla lista o alla coalizione di liste”, tendeva ad assegnare il premio alla lista più votata. Scorrendo i nomi dei promotori vedo non pochi critici della attuale soluzione (allora si dichiararono favorevoli sia Veltroni, che schierò a favore larga parte dei DS ma tuttavia non firmò per non indebolire la variegata coalizione che sosteneva il governo Prodi, da Mastella a Turigliatto; sia lo stesso Berlusconi che non firmò preoccupato dei buoni rapporti con la Lega Nord). Allora si trattava di coalizioni presenti in una competizione a turno unico: ancor peggio sarebbe se – come prospettato da taluni – si desse la possibilità di dare vita a coalizioni fra il primo e il secondo turno, in una fase in cui l’affanno è maggiore e maggiore la rendita di posizione di taluni partiti. Vedo ora che c’è chi dice che la soluzione in questione sarebbe concepita a favore del Pd, oggi primo partito. Ma quando si svolse il referendum nel 2009 molti sostenevano che fosse su misura del Pdl che superava allora di più di 10 punti il Pd. Bisogna stare attenti – io credo – ai ragionamenti di breve periodo, frequenti nel dibattito sulle leggi elettorali.
Per me è un’ ottima soluzione, che non esclude – è vero – che la coalizione di liste possa essere soppiantata da una “lista di coalizione”; ma si tratterebbe di una lista pur sempre legata al medesimo programma e al medesimo leader, con non pochi benefici per la stabilità e la governabilità.
Faccio una obiezione a me stesso: ma nelle elezioni comunali è prevista la possibilità di ridefinire le coalizioni fra il primo e il secondo turno? A parte il fatto che trattasi di una soluzione poco praticata va sottolineato che gli effetti disgregativi di coalizioni non omogenee sono fortemente contenute dalla elezione diretta del Sindaco e dalla presenza della clausola “simul stabunt, simul cadent”.
Possibile debolezza della base elettorale di chi vince al secondo turno?
Potrebbe aversi una caduta della partecipazione? Normalmente così non è allorché al secondo turno si profila una reale competizione. Ma, peraltro, quale, in regimi a turno unico, la base elettorale che elegge i Presidenti degli Stati Uniti (un quarto degli elettori per lo più) o che investe il partito maggiore nel Regno Unito (con il 37%-40% ottennero importanti vittorie elettorali Margaret Thatcher o Tony Blair)?
Potrebbe verificarsi – viene aggiunto – una dis-proporzionalità fra i voti ottenuti al primo turno (magari non elevati, comunque inferiori al 40%) e quelli ottenuti al secondo turno ? Francamente non capisco questa obiezione ! Chi vince il ballottaggio otterrebbe almeno più del 50% dei votanti e avrebbe, comunque, un premio assai modesto rispetto ai voti ottenuti (fino a potere essere dis-proporzionale rispetto ai voti ottenuti al secondo turno).
E’ nella logica del ballottaggio (per quanti, almeno, guardano con favore a qualsiasi doppio turno) che al secondo turno l’elettore possa cambiare il proprio voto , per esempio votando il candidato o il partito meno sgradito. Ma, lo dico più in generale, la funzione dei sistemi elettorali, ci ricordava Maurice Duverger, non è quella di un “appareil photografique” ma quello di fungere da “transformateur d’energie” della sovranità che spetta al popolo. E’ impossibile rappresentare tutti gli interstizi di una società (lo possono talvolta fare i “sondaggi”) ma è già un successo democratico consentire ai cittadini di decidere scegliendo la “più forte delle minoranze”.
Preferenze?
Vantaggi e svantaggi del sistema delle preferenze sono arcinoti. Da male “assoluto” non possono trasformarsi in “bene assoluto”. I Capilista nominati? Forse ricordo male: ma nella prima Repubblica dove i voti di preferenza contavano (nel bene e nel male) c’è mai stato un capilista che non sia stato eletto? Ma ciò non avveniva proprio perché collocato dal proprio partito (“quindi nominato“) in quella posizione di visibilità e preminenza?
Chiedo ai sostenitori dell’allargamento delle “preferenze”: non temono che il nuovo reato di “scambio politico elettorale” (la nuova formulazione dell’art.416 ter approvato nell’aprile 2014) possa appesantire il lavoro della Procure della Repubblica? Fino a qualche anno fa si consideravano virtuose le regioni ove si registrava un minor numero di preferenze esprimibili (il 15% circa in Lombardia o Veneto rispetto all’80% circa dei territori meridionali), perché meno inquinate da voti clientelari; ma oggi, viste le infiltrazioni criminose anche nelle regioni settentrionali, non deve preoccupare ancor più lo scarso ricorso al voto di preferenza che finisce per dare ancora più risalto al controllo di poche centinaia di voti da parte di gruppi di pressione (non sempre limpidi)?
E che dire del colpo definitivo che il ricorso in larga scala alle preferenze può infliggere ai partiti , già per vari versi indeboliti, a vantaggio di “fondazioni” e comitati elettorali vari?
Forma di governo “ in senso presidenziale”?
Si obbietta che il combinato legge elettorale-unicameralismo politico venga ad alterare la forma di governo, realizzando un “presidenzialismo di fatto” senza i contrappesi necessari. Non capisco il riferimento al “presidenzialismo”, sistema che fa perno sul capo dello stato come organo di governo. Mi piace invece ricordare che saremmo di fronte ad un rafforzamento del Primo Ministro che è , da tempo , la caratteristica di tutti i sistemi parlamentari funzionanti (Regno Unito, Cancellierato tedesco, premierato spagnolo). Agli inizi degli anni Novanta questo sistema fu alla base del movimento referendario in alternativa al presidenzialismo di Craxi o di Cossiga ma era anche stato alla base della elaborazione di Roberto Ruffilli (il “cittadino come arbitro”). Fu una delle due alternative su cui lavorò la Commissione D’Alema ed è stata, infine, la formula adottata a larga maggioranza all’interno della Commissione dei 35 Saggi voluta dal Governo Letta. Fu una formula di compromesso fra chi voleva mantenere i tratti assemblearistici della nostra forma di governo (sia pure “razionalizzati”) e chi invece preferiva una forma di governo semipresidenziale (peraltro votata dal Senato allo scadere della XVI legislatura).
L’assenza di “contrappesi”?
Non voglio mancare di rispetto ai parlamentari e agli autorevoli commentatori (compreso qualche costituzionalista) che riprendono questo argomento ma a me pare un logoro “luogo comune” .
Ma quali sono i contrappesi nel Regno Unito dove il Primo Ministro decide l’ordine del giorno di Westminster (per i tre quarti del tempo), dove tramite il Cancelliere dello Scacchiere può porre il veto su qualunque emendamento che aumenti la spesa o diminuisca l’entrata, dove il Capo dello Sitato (a differenza dell’Italia) ha solo funzioni simboliche, dove non esiste una Corte costituzionale (ora stanno tentando di costruire una Suprema Corte ), ove i Magistrati non hanno le garanzie che assicura la Costituzione italiana (gli inquirenti sono in pratica funzionari del governo o la stessa polizia), ove non esistono i referendum di tipo abrogativo, dove non vigono, perché non sottoscritte, le parti dei Trattati europei che delineano la Carta dei diritti, ecc. ecc. Né, credo, che la Camera dei Lord possa oggi rappresentare un contrappeso rispetto alla Camera dei Comuni, maggiore di quanto non possa il Senato regionale.
Si ricorda talvolta il presidenzialismo americano che conosce un contrappeso nelle due Camere ma si dimentica di sottolineare che i Presidenti godono di un potere di veto inimmaginabile in un sistema parlamentare. In ogni caso la forma parlamentare di governo stabilisce un legame fra governo e maggioranza parlamentare attraverso il rapporto di fiducia. Quindi non ha senso cercare i contropoteri nel Parlamento inteso in un tutto unico (la letteratura europea e lo stesso Leopoldo Elia hanno sempre sostenuto che il “governo è il comitato direttivo della maggioranza”) ma piuttosto nei poteri che vengono riconosciuti ai singoli parlamentari e alle opposizioni. Sulla base del principio posto dal testo di riforma costituzionale sullo “Statuto delle opposizioni” potrebbe essere possibile in sede di riforma regolamentare dare qualche forma di riconoscimento preferenziale alla minoranza che è andata al ballottaggio, anche rispetto alle ulteriori minoranze, rimediando quindi alla possibile frammentazione indotta tra i perdenti dalla soglia bassa del 3%,
Non va dimenticato peraltro che il progetto di riforma costituzionale: valorizza l’attività parlamentare ponendo limiti alla decretazione d’urgenza e prevedendo, appunto, prerogative specifiche per le opposizioni;
valorizza la partecipazione popolare rendendo più agevole il raggiungimento del quorum per le consultazioni referendarie e assicurando termini certi per la discussione dei progetti di legge di iniziativa popolare.
E infine, il progetto eleva le soglie per la elezione del Capo dello Stato (e, lo dico rapidamente , il regolamento del Parlamento in seduta comune potrebbe – forse – andare oltre, imponendo il preventivo deposito di candidature e introducendo forme di voto “alternativo” che valorizzino l’apporto dei singoli parlamentari rispetto agli accordi fra i partiti).
MEMORIA DI CARLO FUSARO
Introduzione
Ringrazio per avermi convocato una volta di più in questa sede. L’ultima volta – su questa materia – ci si vide nel gennaio 2014. In quella circostanza conclusi il mio intervento auspicando che fosse l’ultimo: ciò non è stato, ma va detto che in questo caso il percorso parlamentare della legge elettorale davvero non è stato inutile e ha condotto a un risultato di grande rilievo che risponde praticamente a tutte le preoccupazioni e le segnalazioni che mi ero permesso di fare, sia pure in parte “al buio”. All’epoca si discuteva infatti ancora in forma relativamente generica di un ventaglio di ipotesi avanzate in sede politica – con slancio e determinazione, va detto – ma senza che si fosse addivenuti a formulazioni precise. Queste sono poi venute, hanno subito una prima serie di aggiustamenti, dopo di che il testo approvato dalla Camera è approdato al Senato, dove sono state fatti altri importanti cambiamenti: a questi, in particolare, rivolgerò la mia attenzione, cercando di riallacciarmi, in estrema sintesi, ad alcune delle osservazioni svolte quindici mesi fa.
Metodo: analisi, obiettivi, priorità, vincoli, parametri di riferimento e di giudizio
Primo. Allo studioso sta suggerire un metodo. Si tratta di definire in primo luogo, con chiarezza, gli obiettivi che con l’intervento normativo ci si propone di perseguire, rispetto ad un’analisi oggettiva delle caratteristiche e dei difetti della legislazione in vigore; in secondo luogo si tratta di individuare i vincoli sia giuridici sia soprattutto politici che costituiscano i necessari paletti nel rispetto dei quali l’intervento riformatore deve trovare luogo; ciò porta con se la necessità di tener conto del contesto nel quale ci si trova ad operare; in terzo luogo, si tratta ordinare obiettivi e vincoli secondo un preciso ordine di priorità, avendo riconoscendo che vi possono essere obiettivi fra loro non compatibili o non del tutto compatibili.
Secondo. Non bisogna trascurare la specificità della forma di governo parlamentare. Essa, fondata com’è sul rapporto fiduciario che lega il governo al Parlamento (in genere ad una camera), rispetto alle forme di governo di tipo diverso – quella presidenziale e anche quella direttoriale, caratterizzate non dal coordinamento e dalla reciproca interferenza, ma dalla tendenziale separazione dei poteri – richiede prestazioni maggiori al sistema elettorale. Una forma di governo parlamentare non può funzionare senza che – di norma – i gruppi parlamentari siano in grado di assicurare duratura e leale collaborazione all’esecutivo; o, quantomeno, non può funzionare senza che i gruppi parlamentari siano nel loro insieme disposti a consentirne la permanenza in carica e una certa operatività. Perciò il governo parlamentare ha bisogno di un sistema partitico che lo sostenga e quindi di una legislazione elettorale che non ostacoli o addirittura favorisca il costituirsi in seno all’assemblea politica di una maggioranza che permetta il funzionamento del circuito governo/parlamento. Nella forma di governo parlamentare la formazione della Camera politica assolve così a una duplice funzione: alla primigenia funzione rappresentativa, propria dei Parlamenti delle origini si è aggiunta nel tempo la funzione di permettere o meglio assicurare la c.d. governabilità. Rappresentare e governare sono, in altri termini, funzioni che vanno entrambe garantite: e a questo fine il sistema elettorale può risultare decisivo, ed è sempre condizionante.
Quali obiettivi di una riforma elettorale? Premesso che la selezione degli obiettivi e la successiva individuazione all’interno di questi delle priorità così come la considerazione dei vincoli almeno politici (quelli giuridici van considerati a parte) costituisce somma scelta politica, mi pare che si possano elencare fra i primi: (a) assicurare a un tempo rappresentatività e governabilità del sistema; (b) ricostruire (anche a fini di rilegittimazione delle istituzioni politiche) il rapporto fra cittadini elettori, candidati ed eletti; (c) favorire il consolidamento del sistema partitico; (d) promuovere una più equilibrata rappresentanza di genere. Questi obiettivi sorgono anche, implicitamente, da un giudizio critico (politico prima che giuridico) della legge 270 del 2005 (c.d. Calderoli).
Non è superfluo richiamare i difetti di quella formula elettorale, individuati sin dalla sua approvazione: (a) un sistema premiale strutturalmente contraddittorio (aspetto connesso alle caratteristiche del bicameralismo italiano e aggravato – solo aggravato – dalla sommatoria dei premi regione per regione al Senato); (b) l’esclusione del voto dei cittadini della Valle d’Aosta dalla scelta in ordine alla formazione della maggioranza (i loro voti non erano considerati ai fini del premio); (c) la rottura del legame rappresentativo elettore-candidato-eletto dovuta più che alla assenza delle preferenze (mai esistite al Senato e soppresse alla Camera sin dal 1993 senza danni né lamentele) dalla previsione di liste lunghe e dalla illimitata libertà di candidature plurime; (d) la suscettibilità del sistema premiale di essere interpretato in maniera tale da incentivare coalizioni acchiappatutto, predisposte organicamente a dividersi in corso di legislatura) e ciò in ragione della molteplicità differenziata delle clausole di sbarramento previste; (e) l’assenza originaria di disposizioni per la promozione della rappresentanza di genere (peraltro temperata proprio dalle liste bloccate lunghe: tanto che – vigente la Calderoli – il numero di donne in Parlamento è fortemente cresciuto). Ulteriore difetto, coincidente con una presunta illegittimità costituzionale, veniva individuato nella mancanza di un quorum di qualche rilevanza ai fini dell’assegnazione del premio pur eventuale e dunque nella conseguente entità del premio di dimensione imprevedibile, ma tanto maggiore quanto minori i consensi raggiunti dalla forza politica o dalla coalizione con più voti (aspetto ovviamente dipendente dall’offerta politica ovvero dal contesto del sistema partitico come dimostrò la opposta sorte delle elezioni del 2006 e del 2008).
Nel dicembre 2013 la Corte costituzionale con sentenza che sarebbe stata pubblicata nel gennaio successivo (la sent. 1/2014) dichiarava l’illegittimità costituzionale della legge Calderoli per due aspetti, quello relativo al meccanismo premiale (entità del premio, mancanza di un quorum, contraddittorietà strutturale del sistema: tali da travolgere – a suo dire – irragionevolmente la natura proporzionale della formula ) e quello relativo alla difficoltà o addirittura l’impossibilità per l’elettore di conoscere e valutare (e dunque votare) i singoli candidati. Chi vi parla ha già espresso in questa sede le proprie valutazioni radicalmente critiche rispetto al contenuto di quella sentenza (in particolare nella parte che ha dato vita a un sistema elettorale alternativo letteralmente “inventato” – per taluni aspetti – dalla Corte; e ancor di più per aver forzato decenni di propria giurisprudenza in punto di ammissibilità, di fatto introducendo una specie di ricorso diretto per violazione di diritti fondamentali purché Cassazione e Corte così concordino di volere): al di là della critica sulla strutturale illogicità del doppio meccanismo premiale . Né ripeto quanto pure dissi nel gennaio 2014, esprimendo la convinzione che l’eccezionalità della sent. 1/2014 si legava alla difficoltà del Parlamento di darsi una nuova legislazione elettorale pur dopo tante reiterati manifestazioni di volontà in quella direzione e dopo tante altissime sollecitazioni: per cui ne derivavo la convinzione che, più che domandarsi ad ogni dettaglio e in ogni passaggio parlamentare se una certa disposizione avrebbe superato il severo e sempre più incisivo, per non dire invadente, vaglio della Consulta, si trattasse e si tratti di dimostrare – certo: nel rispetto di alcuni vincoli generalissimi – la volontà e la capacità del Parlamento di assumersi le proprie responsabilità. Resta in ogni caso, comunque, la sent. 1/2014 un vincolo del quale tenere in certa misura conto.
Quanto ai parametri rispetto ai quali valutare una nuova legge elettorale, al di là della capacità potenziale di conseguire le finalità già evidenziate, questi sono naturalmente da un lato la legge Calderoli vigente fino al gennaio 2014, dall’altro la legge di risulta della sent. 1/2014.
La legge approvata dal Senato nel raffronto con quella approvata dalla Camera dei Deputati
La legge approvata da questo ramo del Parlamento il 12 marzo 2014 e quella approvata dal Senato il 27 gennaio 2015 hanno alcuni fondamentali elementi comuni, ma differiscono – altresì – per altri in misura molto significativa.
Prima di tutto entrambe si inseriscono in un contesto diverso dal passato. In questa XVII legislatura, a partire dall’inizio del 2014 si assiste a una forte iniziativa riformatrice che vede il Parlamento impegnato sia sul fronte della legge elettorale sia sul fronte di una pur parziale riforma costituzionale. Questa si caratterizza proprio per il superamento del bicameralismo indifferenziato, a partire dall’abolizione del rapporto fiduciario fra Governo e seconda Camera. Ciò elimina in prospettiva una delle grandi cause di malfunzionamento e di complicazione strutturale del governo parlamentare in Italia. Ciò è tanto vero che – opportunamente – questo ramo del Parlamento nel corso della sua prima lettura della legge elettorale ha stralciato la parte, originariamente presente, relativa all’elezione diretta del Senato, scelta che poi il Senato ha confermato.
Entrambe sono caratterizzate da formule che garantiscono elezioni c.d. decisive, nel senso di assicurare a seguito immediato e diretto del voto, ope legis, l’assegnazione di una maggioranza in seggi a chi, sul piano nazionale, ottenga più voti, grazie all’assegnazione – ove necessario – di un premio in seggi la cui consistenza varia a seconda di quanto più ci si avvicini al livello giudicato dal legislatore come quello minimo utile alla governabilità.
Entrambe – rispetto ad altre formule: per esempio il sistema maggioritario uninominale a doppio turno dell’esperienza francese – garantiscono nel contempo (grazie alla base che resta proporzionale) che la rappresentanza delle forze politiche sconfitte non venga ridotta ai minimi termini dalla sommatoria di centinaia di competizioni, appunto, uninominali con ballottaggio. Come dimostra proprio l’esperienza transalpina, si può verificare e si è verificato in più occasioni il caso di un effetto moltiplicatore della vittoria elettorale tale da portare a maggioranze dell’ordine dei due terzi o addirittura tre quarti dei seggi nella camera politica. Questo con le formule di cui parliamo non può succedere.
Entrambe, infine, costituiscono significative varianti rispetto alla legge Calderoli, nella sua versione vigente prima della sent. 1/2014 della Corte costituzionale: varianti che cercano di tenere conto dei vincoli implicitamente dettati da quella decisioni e anticipati, in parte, da c.d. obiter dicta, pronunciati nel corpo di precedenti decisioni in materia di ammissibilità dei referendum. In particolare prevedono una percentuale minima di consensi per l’assegnazione del premio, e, in alternativa, il ricorso a una seconda votazione, c.d. di ballottaggio. Prevedono inoltre un tetto all’entità del premio assegnato. Prevedono, infine, modalità (sia pure diverse) per ristabilire quel collegamento fra elettore e candidati che la Corte ha ritenuto costituzionalmente dovuto e la cui assenza era stato da tempo oggetto di forti critiche.
Se gli elementi comuni sono decisivi, quasi altrettanto significative devono essere considerate le differenze del testo attuale rispetto a quello approvato nel marzo 2014, che qui elenco sinteticamente per avere un quadro complessivo:
a) non sono più previste coalizioni di liste, ma solo liste singole: sono queste a competere per l’assegnazione del premio e per l’assegnazione dei seggi. E’ stato altresì mantenuto (c’era già) il divieto di apparentamenti nel caso di ricorso al ballottaggio. In altre parole le due liste arrivate prima e seconda al primo turno, saranno quelle che si disputeranno il successo al secondo turno, senza la possibilità di modificare l’offerta elettorale. Questa impossibilità di cambiare l’offerta era già presente, ma valeva per coalizioni e non singole liste.
b) Il quorum il cui mancato raggiungimento determina il ricorso al ballottaggio, inizialmente posto al 32% dei suffragi e poi alzato dalla Camera al 37%, è stato ulteriormente elevato al 40%; ciò comporta che il premio viene limitato al 15% o poco meno (come massimo, beninteso) e che, dato l’attuale contesto partitico, è altissima l’eventualità che si ricorra al ballottaggio; d’altra parte se una forza politica conseguisse, poniamo, il 45% dei voti, ovviamente il premio si ridurrebbe di conseguenza a meno del 10%.
c) Non esiste più, con la formula Senato, l’eventualità di una maggioranza iniziale, a vantaggio di chi vinca le elezioni, inferiore ai 340 deputati, il che suscitava preoccupazioni per la sua troppo modesta entità; al riguardo osservo che anche con 340 deputati il margine oltre la metà dei 315 è di soli 25 seggi: il che significa che un gruppo di anche soli 13-15 deputati è in grado di far diventare la maggioranza una minoranza.
d) Le candidature restano presentate in 100 collegi relativamente piccoli divisi in 20 circoscrizioni regionali (cambia lievemente il numero massimo: non più da tre a sei, ma da tre a nove), ma non sono più in liste bloccate; vengono previsti 100 capolista, il cui nome compare stampato accanto al simbolo sulla scheda, destinati ad essere i primi (o le prime) eletti/e della lista se questa nel collegio consegue seggi; gli altri eletti nel collegio – per ciascuna lista che ottenga più di un eletto o eletta – sono scelti dall’elettore mediante ricorso a preferenze (una oppure due, purché la seconda a candidato di genere diverso dal primo o dalla prima). E’ impossibile fare previsioni in ordine alla percentuale sul totale della rappresentanza di eletti fra i capolista e di eletti con le preferenze: dipenderà ovviamente dal riparto dei seggi fra liste nei collegi, nonché dalla misura in cui ciascun partito candiderà la stessa persona capolista in più collegi; infatti è previsto che un candidato o candidata possa essere capolista in fino a dieci collegi: questa scelta, da taluno criticata, permette ai partiti i quali possono presumere di avere un numero di consensi limitato di candidare con maggiori, direi buone, possibilità di successo i propri leader (il che appare del tutto ragionevole); inoltre – effetto positivo dal punto di vista di chi è fautore del ricorso alle preferenze (non chi vi parla) – ciò assicura un numero maggiore di eletti individuati mediante, appunto, le preferenze: se la candidata A del partito Z è capolista in dieci collegi, opterà ovviamente per uno solo, e “libererà” gli altri nove per candidati individuati mediante le preferenze.
e) Se secondo la formula varata alla Camera nel marzo 2014 potevano accedere al riparto dei seggi le liste coalizzate oltre il 4,5% e quelle non coalizzate oltre l’8%, la clausola di sbarramento è stata ora ridotta al 3%, meno di quella che consentiva nella legge Mattarella per la Camera di partecipare al riparto dei seggi sulla base dei voti conseguiti con la scheda proporzionale e meno di quella prevista per le Europee, nonché meno di quella prevista per le liste non coalizzate dalla vigente legge Calderoli (in questo non incisa dalla sent. 1/2014, che lascia lo sbarramento dell’8% per il Senato).
f) E’ stata introdotta la previsione in base alla quale la nuova legge elettorale per la Camera non potrà essere applicata, ancorché approvata ed entrata in vigore, prima del 1 luglio 2016. Ciò rende meno vantaggioso per qualunque forza politica la quale ritenga di poter vincere le elezioni conquistando il premio, spingere per il ricorso ad elezioni anticipate prima dell’autunno 2016, più probabilmente prima della primavera 2017 (in autnno non si è mai votato): una sorta di informale polizza di assicurazione per una maggior durata della legislatura ovvero un disincentivo ad elezioni anticipate.
g) Sono state significativamente rafforzate le disposizioni volte a promuovere una più equilibrata rappresentanza di genere: anche se – non sarà ripetuto mai abbastanza – la reintroduzione pur parziale delle preferenze renderà più arduo conseguire l’obiettivo: la presentazione dei candidati in ordine alternato di genere difficilmente può costituire strumento promozionale efficace, diversamente dal numero minimo (40%) delle candidature a capolista, anche se ciò varrà – ovviamente – soprattutto per i partiti maggiori, salvi comportamenti particolarmente virtuosi in sede di selezione dei/delle candidati/e capolista.
h) Infine, sono state introdotte – per la prima volta – disposizioni volte ad assicurare la possibilità del voto per corrispondenza per i cittadini temporaneamente all’estero: non limitate a poche categorie (militari, docenti universitari, funzionari pubblici) e soprattutto “ordinarie”: finora ci si era limitati a periodici decreti legge ad hoc in sede pre-elettorale, applicabili solo per quella singola votazione. La misura non ha avuto praticamente eco sulla stampa: ma – con riferimento per esempio agli studenti universitari in programma semestrale di studio all’estero – è di grandissima portata civile. Corrisponde a proposte parlamentari di passate legislature (per es. del sen. Stefano Ceccanti) ed era da gran tempo attesa da tutti coloro i quali hanno disinteressatamente a cuore il rapporto cittadini-istituzioni. Non basta: la confluenza di questi potenziali voti (su richiesta del singolo di votazione in votazione) nella circoscrizione estero concorrerà positivamente de facto a irrobustire la natura rappresentativa di questa: anche se qualche incertezza potrebbe emergere per il disallineamento fra coloro che sono temporaneamente all’estero e coloro che sono residenti all’estero. Sarebbe stato forse preferibile che i voti degli elettori temporaneamente all’estero venissero scrutinati nei rispettivi collegi di appartenenza: anche se ciò avrebbe comportato talune complicazioni organizzative. Desidero comunque esprimere il mio plauso per questa scelta, nella certezza che la Camera non potrà che confermarla.
Le critiche formulate nelle diverse fasi dell’iter
Vorrei adesso prendere in esame alcune delle critiche che sono state avanzate nel corso dell’iter di questo progetto: non senza aver detto che chi mettesse a raffronto non solo il contenuto di esse (il che tenterò brevemente di fare), ma anche la successione di esse nel tempo nonché i nomi di coloro che in ambito politico, accademico e giornalistico le hanno avanzate, non potrebbe fare a meno di notare elementi singolari di contraddizione. Lamentate inadeguatezze delle prime versioni del progetto, successivamente corrette, trovano in alcuni di coloro che le avevano sollevate altrettanto fiera e radicale critica nei confronti proprio della correzione apportata. Faccio un paio di esempi: la percentuale dello sbarramento per l’accesso alla distribuzione dei seggi, originariamente prevista nell’8%, poi ridotta al 3%, trova fieri critici non solo fra coloro che ritengono inopportuno qualsiasi sbarramento (posizione rispettabile sulla quale nulla ho da dire, pur non condividendola), ma fra coloro che avendo ritenuto eccessivo l’8% ed avendone ottenuta la riduzione, scoprono ora che uno sbarramento “troppo basso” favorirebbe una dannosa frammentazione delle minoranze e dell’opposizione. Allo stesso modo dopo che alla Camera si è appassionatamente discusso su iniziativa di deputati critci del progetto dell’opportunità di non prevedere distinti meccanismi premiali per Camera e Senato, tanto più pendente la revisione costituzionale, sì che si è appunto proceduto in accoglimento di emendamenti di deputati allo stralcio della parte riguardante la seconda camera, nel corso dell’iter al Senato da più parti i critici della legge hanno sostenuto l’inopportunità e in qualche temerario caso (mi riferisco a un paio di ex giudici costituzionali) perfino la costituzionale illegittimità di una legge che preveda la formula premiale per la sola Camera.
A tale ultimo riguardo desidero dire che – lungi dal creare problema nel caso di elezioni che si tengano prima del completamento della revisione costituzionale, come lamentato da qualcuno, la scelta che questo ramo del Parlamento ha compiuto è stata saggia. Ciò che davvero fu un grave errore, nel 2005, fu prevedere per le due Camere due meccanismi distinti ma entrambi “premiali”: una contraddizione logica, per le ragioni già richiamate. Al contrario, è ragionevole prevedere un solo premio, e non solo perché questo stesso Parlamento attende contestualmente alla revisione costituzionale, ma perché è soluzione valida anche a costituzione vigente: come era del resto stato previsto, senza che ciò sollevasse perplessità, già ne, quando la legge 154/1953 previde il discusso premio solo per la Camera dei deputati, pur ferma e non in discussione, allora, l’elezione diretta del Senato. Al di là di un sempre possibile, direi probabile, effetto traino, in ogni caso – come è il caso di questa legislatura – poter disporre di una salda maggioranza in un ramo del Parlamento, in particolare alla Camera l’assemblea più numerosa e maggiormente rappresentativa (l’unica eletta a suffragio universale, non lo si dimentichi proprio qui!), rende comunque la funzionalità della seconda camera e della forma di governo migliore di quanto non sarebbe in mancanza di altri elementi di aggregazione. Ci si immagini quanto ancora più arduo sarebbe stato il governo del Paese, in questa legislatura, senza che almeno in questa Camera non si fosse creato un punto fermo, un elemento di parziale stabilità e certezza. E quanto viceversa la mancanza di ciò, per cause politiche non dovute alla legge, incise negativamente nella difficile XV legislatura (2006-2008).
Ma veniamo alle altre critiche nei confronti del testo approvato dal Senato che avete in esame.
a) Critica di metodo: le riforme costituzionali ed elettorali si fanno tutti insieme. Non c’è alcun dubbio che la via preferibile è o meglio: sarebbe, quella di riforme condivise; tuttavia da un lato la materia è tale che è difficile pensare che ciò sia realmente possibile (non lo fu nel 1953, non lo fu nel 2005; nel 1993 ci fu quella che venne definita “dettatura referendaria”; nello stesso 1948 non ci fu condivisione almeno sulla scelta di proporzionalizzare la legge per il Senato), dall’altro – nella XVII legislatura – il testo è stato largamente condiviso almeno da una delle opposizioni che ha votato al Senato il testo oggi in discussione. Il fatto che per ragioni, assolutamente legittime, ma che nulla hanno a che vedere con la formula elettorale per la Camera, questa forza di opposizione abbia mutato atteggiamento non muta la sostanza della condivisione: altrimenti quest’ultima scade a mera rivendicazione – inaccettabile, a me pare – di un vero e proprio “potere di veto”. Ciò è particolarmente inaccettabile nell’attuale contesto italiano: nel quale da un lato le riforme istituzionali appaiono di oggettivamente riconosciuta necessità e urgenza (se si eccettuano limitate posizioni politiche e accademiche), dall’altro quella elettorale in particolare è stata – proprio per i ritardi – causa della più clamorosa messa in mora del Parlamento in 70 anni di storia repubblicana.
b) Inopportunità del premio per eccessiva concentrazione di potere politico nel combinato disposto con la revisione costituzionale in itinere. Il premio serve a garantire elezioni decisive. Elezioni decisive sono necessarie per cercare di fronteggiare uno dei limiti più gravi e duraturi della forma di governo italiana, la debolezza se non addirittura la mancanza di una leadership democraticamente investita che guidi il paese per un certo lasso di tempo minimo necessario, tendenzialmente una legislatura. La virtuosa contestualità con la revisione costituzionale è un merito e non un limite: anche in quell’ambito si tratta di porre rimedio a un difetto strutturale del nostro ordinamento, il doppio rapporto fiduciario. Lungi da giustificare timori di eccessiva concentrazione del potere si tratta di provare a fare della nostra, come qualcuno scrisse anni fa, una “democrazia normale”: nella quale il corpo elettorale esprima un indirizzo che sia possibile raccogliere recependo le ragioni di fondo della stessa esistenza di una comunità politica, la riconduzione a scelte unitarie di ciò che non può che essere alle origini espressione di interessi e valori diversi. Senza di ciò è difficile immaginare che il nostro Paese possa non dico evitare, ma almeno cercare di contrastare il declino lungo il quale è avviato da alcuni decenni. Non basta: ai timorosi dell’”uomo solo al comando” e dell’antico, un tempo giustificato, “timore del tiranno”, occorre ricordare che – anche grazie alla Costituzione cui oggi si rimette mano – la società italiana e la sua comunità politica si sono evoluti in una classica poliarchia nella quale orizzontalmente e verticalmente certe concentrazioni di potere sono semplicemente impossibili (e se mai è proprio l’opera di riconduzione ad unità di ciò che ad unità dev’essere ricondotto, che risulta troppo difficile). Infine, questo tipo di preoccupazioni trovano risposta proprio nei sistemi di favorita e realmente possibile periodica alternanza al potere: e non, come la stessa storia politica dell’Italia insegna, da sistemi che favoriscano la permanenza al potere sempre e comunque dello stesso partito, ovvero innaturali coalizioni e comunque nessuna nitida assunzione di responsabilità. Di un’altra misura dirò nelle conclusioni.
c) Inopportunità al premio alla sola lista. Non c’è alcun dubbio che sia questa una delle scelte “forti” di questo progetto di legge. Essa va in direzione diversa rispetto alla regola base di una forma di governo sin qui sempre e comunque fondata su coalizioni spesso numerose ed anzi eccessivamente numerose. I casi del pentapartito nella prima fase della storia repubblicana e del governo Prodi nella seconda, ma anche esperienze più recenti, insegnano che nel nostro ordinamento coalizioni di troppi partiti e troppo internamento conflittuali hanno reso difficile l’azione efficace dei pubblici poteri. La direzione implicita nel progetto è quella del tentativo di favorire la costruzione di un sistema di partiti a vocazione maggioritaria accompagnati da una anche larga pluralità di forze che tale vocazione non intendono perseguire, ma la cui rappresentanza è comunque garantita. Il fatto che – nell’attuale contingenza – vi sia un partito che sembra sopravvanzare di parecchio gli altri maggiori, non muta la potenziale virtuosa evoluzione sistemica. Anzi: la favorisce e favorisce in prospettiva l’alternanza. Si deve inoltre aggiungere che il premio alla lista – basta vedere i testi a fronte – ha radicalmente semplificato l’intera formula elettorale (e ha tra l’altro potato l’inopportuna e giustamente criticata pluralità di sbarramenti differenziati). Sicché tutto il sistema appare molto “alleggerito” rispetto alle precedenti versioni, per non parlare della legge Calderoli, anche nella versione Corte costituzionale. Inoltre, non si può non ricordare che una delle maggiori critiche legittimamente sollevate contro la legge Calderoli fu proprio quella di permettere la formazione di coalizioni acchiappatutti destinate poi a dividersi successivamente. Certo, nulla impedirà alla lista eventualmente vincitrice di coalizzarsi in Parlamento, rafforzando la propria maggioranza, ma ovviamente da condizioni di forza che dovrebbero favorire la compattezza, l’omogeneità e la continuità dell’indirizzo politico. Naturalmente – come alcuni hanno osservato criticamente – il premio alla lista non impedisce di sostituire a “coalizioni di liste”, “liste di coalizione”: ma qui si scende su un terreno, quello dei comportamenti e delle scelte libere degli attori, sul quale non è immaginabile che il legislatore possa imporsi, quale che sia la formula escogitata. Osservo infine che ai tempi del c.d. referendum Guzzetta si dava per scontato che la formula derivata da un evenuale “sì” avrebbe avvantaggiato il Pdl dell’epoca (che era accreditato di un 35% dei voti mente il Pd era allora accreditato di solo il 25%).
d) Inopportunità del divieto di apparentamento eventuale fra primo e secondo turno. E’ evidente che consentire apparentamenti comporterebbe attenuare fortemente la spinta verso un sistema di partiti a vocazione maggioritaria (per quanto largamente pluralista). E’ questione di opportunità. Chi parla ha già detto la sua. Si può aggiungere che in altri ordinamenti dove pure gli apparentamenti fra i due turni furono o sono previsti, ciò ha suscitato critiche molto forti per l’esaltazione del potenziale di ricatto di forze minori sicché si è talora parlato – proprio a questo proposito – di “mercato delle vacche”. D’altra parte va aggiunto che modificare l’offerta fra turni accentua alcune possibili controindicazioni delle formule con ballottaggio, proprio in termini di trasparenza verso gli elettori. Quanto alla legittimità della scelta non dovrebbero esserci dubbi tenuto conto dell’ammissibilità del referendum Guzzetta (poi sconfitto dalla bassa partecipazione). Valgono, in ultimo, a questo proposito le considerazioni già fatte al punto precedente: anche l’apparentamento sarebbe suscettibile di essere interpretato riproponendo coalizioni fatte per vincere e non per governare.
e) Entità eccessiva del premio. In caso di conseguimento del quorum del 40% il premio è di circa il 15%: molto o poco è ovviamente questione di opinione. E’ peraltro evidente che la forchetta non possa essere che fra il 10% e il 15%. D’altra parte anche col 15% si tratta di premio poco più che simbolico, in relazione all’obbiettivo di elezioni decisive. Infatti con 340 saggi, il margine di sicurezza (v. sopra) è di una dozzina di seggi. Altra cosa, ovviamente, è discutere alla radice l’opportunità della costruzione legislativa di una maggioranza. Il punto è: dato il premio, la sua entità va valutata rispetto alla proporzione di voti conseguiti al primo turno (considerata parametro di “genuinità”) oppure rispetto all’efficienza della forma di governo?
f) Entità eccessiva del premio in caso di ballottaggio. Coloro i quali sostengono questa posizione critica raffrontano, appunto (v. sopra), il premio rispetto alla percentuale ottenuta al primo turno. Per definizione se si deve ricorrere al ballottaggio è perché la forza politica che ha avuto più voti ne ha comunque avuti meno del 40%. Dopo di che si possono fare tutte le possibili più o meno realistiche ipotesi. Scartando quelle assurde, se una forza politica arriva prima con il 35%, dopo un’eventuale vittoria al ballottaggio il premio sale al 20%; se poi come si legge, una forza arrivata seconda col 25% dei voti riesce a vincere in sede di ballottaggio, il premio sale al 30%. Il punto è che la premessa non è condivisibile. La votazione di ballottaggio cambia completamente l’intera questione: in sede di ballottaggio tutti gli elettori hanno la possibilità di pronunciarsi su una nitida scelta di governo, indipendentemente da come si sia espressi al secondo turno, e lo possono fare in piena consapevolezza e trasparenza. Ciò allarga – non riduce gli spazi di partecipazione e conferisce una legittimazione non inferiore a quella che spetta alla sola lista che abbia superato il 40% al primo turno, evitando così il ballottaggio. Far riferimento – ma dopo il ballottaggio – ai voti avuti al primo turno non ha alcun senso logico, è un mero giochetto di numeri e parole. Aggiungo infine che per coloro che possono nutrire – comunque – una tale preoccupazione, si rafforzano ulteriormente le motivazioni per non ammettere apparentamenti al secondo turno (i quali potrebbero facilitare, ovviamente, la vittoria della lista arrivata seconda al primo turno).
g) Inopportunità dello sbarramento per l’accesso alla distribuzione dei seggi. Una Camera eccessivamente frammentata, e con troppi gruppi, lavora peggio di una Camera con un numero limitato di gruppi. La frammentazione è stata a lungo una grande preoccupazione della democrazia italiana (specie negli anni 2006-2008: ma anche in precedenza ricorrentemente) e non è opportuno incentivarla. D’altra parte occorre al riguardo agire con necessario equilibrio e, se mai, dotando la Camera di disposizioni regolamentari coerenti con una strategia rivolta a limitare la frammentazione e a garantire atteggiamenti di trasparenza verso gli elettori, per esempio riprendendo le proposte che vincolano la costituzione dei gruppi a un rapporto immediato e diretto con le liste sottoposte agli elettori (noto in parentesi che è un po’ sorprendente che a tanta attenzione consacrata al rapporto individualistico elettori-rappresentanti non abbia corrisposto altrattano impegno a incentivare o garantire il rapporto elettori-liste votate-gruppi, non meno rilevante, a mio avviso). Ciò detto, pur ridotta rispetto a certi standard della legislazione elettorale recente, la percentuale del 3% appare accettabile: anche se destinata a produrre delegazioni partitiche di entità probabilmente in qualche caso inferiore al numero minimo di deputati necessario a costituire gruppo, il che prelude alla formazione di gruppi in deroga. Ma tant’è.
h) Presenza di uno sbarramento di entità troppo modesta. Vien fatto di liquidare la critica osservando che non si può avere tutto. E’ evidente che più bassa la clausola di sbarramento maggiore la potenziale frammentazione. D’altra parte più elevata la clausola maggiore il rischio – a parità di disposizioni ulteriori anche regolamentati – di divisioni post-elettorali. In ogni caso se oggi l’opposizione, rectius: una parte dell’opposizione, va frammentandosi davvero non è questione di clausole di sbarramento ma di processi politici non disciplinabili per legge. I cespugli c.d. non nascono perché la legge non lo impedisce. D’altra parte l’idea – ripresa da proposte Pasquino dei tempi della Comm. Bozzi – di dare un premio anche alla forza politica che arriva seconda allo scopo di favorire l’irrobustimento di un’opposizione di dimensioni maggiori sembra dare per scontati gli attuali livelli di consenso (presunto) delle forze politiche e costituisce un artificiosa forzatura giustificata davvero solo da astratta ingegneria politica.
i) Inopportunità del capolista di collegio come primo eletto. Il candidato o la candidata scelta come capolista comparirà sulla scheda alla sinistra del simbolo (mentre a destra l’elettore troverà le righe a disposizione per le eventuali preferenze). In questo senso l’individuazione nitida della candidata proposta è certa. Non si capisce come sia possibile identificare il ricorso alla preferenza come l’unica modalità democratica di individuare gli eletti. Applicando questo criteri non esisterebbero sistemi elettorali democratici di lista al mondo tranne in un paio di paesi. D’altra parte non si comprende neppure come si possa da un lato auspicare la costruzione di partiti politici rinnovati privandoli di qualsiasi reale possibilità di costituire un gruppo dirigente: si operi, se mai, attuando ulteriormente l’art. 49 Cost. oppure ricorrendo a collegi uninominali e primarie. Non c’è dubbio che la modalità escogitata costituisce un compromesso: ma nell’indisponibilità a un’adozione generalizzata dei collegi uninominali non vi era alternativa, ed è a questo punto tardi per rimettere tutto in discussione. Chi parla resta radicalmente contrario alle preferenze: un mito recentemente rinfrescato dopo che esse erano state abbandonate, a livello parlamentare, a furor di popolo (di referendum e di opinionisti di ogni risma e orientamente). Le preferenze significano, nei tre quarti del paese, sostituire l’assunzione di responsabilità dei dirigenti di partito con la scelta di minoranze organizzate; provocano competizione infrapartitica e la ricerca di consensi prima di tutto fra coloro che già sono convinti della scelta di lista, impongono la raccolta di risorse di entità proporzionata all’ampiezza del collegio, sono suscettibili di incentivare comportamenti non virtuosi (per usare un eufemismo), in taluni contesti consolidano e tramandano rapporti clientelari. Ma tant’è: anche sotto quest’aspetto è tardi per intervenire.
j) Inopportunità della possibilità per lo stesso candidato di essere capolista in più collegi (fino a dieci). Con la modalità di individuazione degli eletti a due binari (capolista, candidati da eletti grazie alle preferenze) le candidature multiple alla sola capolistura permettono ai partiti che intenderanno avvalersene di garantire, con buon grado di probabilità, un seggio ai loro massimi dirigenti. Questi partiti saranno soprattutto i partiti di minor dimensione: la cosa non può e non deve suscitare scandalo. Così come non deve suscitare scandalo il meccanismo di redistribuzione nelle circoscrizioni e poi nei collegi dei seggi che vengono distribuiti a livello nazionale. E’ ben vero che – con particolare riferimento ai partiti che otterranno un numero ridotto di seggi – l’individuazione elettorale del candidato destinato ad essere eletto sarà non sempre immediata ed agevole: ma da un lato ciò vale sempre laddove si tratti di liste e non di candidati in collegi uninominali assegnati con formula first past the post, dall’altro è frutto di altri vincoli considerati legittimamente prioritari dal legislatore: segnatamente un riparto rispettoso della scelta di lista e al tempo stesso dell’assegnazione territoriale dei seggi.
Giudizio finale e raccomandazioni
Non esistono sistemi elettorali “perfetti” o “ideali”: è costatazione ovvia, per fortuna ormai patrimonio comune. Esistono sistemi elettorali funzionali a determinate strategie politico istituzionali e che perseguono più o meno coerentemente ed efficacemente determinate priorità nel rispetto dei vincoli costituzionali da una parte e di quelli politici suscettibili di essere presi in considerazione dall’altra.
Il progetto di legge che questa Camera si è visto trasmettere dal Senato merita ogni apprezzamento e passa uno scrutinio anche severo a pieni voti. In sintesi:
• rispetta i vincoli giuridici implicitamente affermati dalla Corte costituzionale: i candidati sono individuabili in misura non inferiore a qualsiasi altra legge elettorale questo paese abbia avuto; il premio non è più contraddittoriamente assegnato in due diverse Camere; il premio è assegnato solo se lo vuole il 40% degli elettori ovvero la maggioranza di essi in un secondo turno; il premio non supera mai il 15%; il premio promuove la governabilità e la assicurerò nel momento in cui il rapporto fiduciario sarà solo con questa Camera;
• il progetto sceglie, per l’individuazione degli eletti, un mix fra candidatura uninominale e preferenze conciliando assunzione di responsabilità partitica e scelte degli elettori;
• il progetto permette un’ampia pluralità della rappresentanza, disincentivando solo la frammentazione sotto il tre per cento;
• il progetto include tutti i cittadini residenti in Italia fra coloro che possono determinare l’investitura di una maggioranza, riparando a una delle “vere” cause di illegittimità costituzionale della legge Calderoli;
• il progetto non contiene una molteplice varietà di sbarramenti ormai privi di ragione istituzionale, come invece la legge elettorale “inventata” dalla Corte costituzionale, in violazione palese, almeno al Senato, del pluralismo rappresentativo;
• il progetto assicura la formazione elettorale di una maggioranza: il resto è affidato, come in qualsiasi forma di governo, ai comportamenti degli attori politici
• il progetto è quanto più vicino possibile, nel rispetto delle regole costituzionali sulla forma di governo, ai sistemi elettorali della transizione italiane dal 1992 in poi, e sceglie, in questo ambito, la modalità preferibile e più legittimante che prevede un ballottaggio eventuale;
• il progetto promuove più di qualsiasi altra legge elettorale repubblicana il riequilibrio della rappresentanza di genere compatibile con la scelta di ricorrere alle preferenze;
• il progetto evita tutti, nessuno escluso, i principali difetti imputati alla legge Calderoli e ripara alle ragioni di illegittimità e inopportunità costituzionale in essa effettivamente contenute;
• il progetto è frutto dell’intesa di forze politiche che nel voto del febbraio 2013 ottennero circa il 70% dei suffragi; se una parte di queste – dopo aver votato anche al Senato – oggi hanno mutato opinione e se alcune minoranze interne al maggior partito di governo ritengono di rompere la disciplina di partito, ciò non muta questo dato di fatto;
• il progetto certamente si concilia con la pretesa del Partito democratico di porsi come “partito a vocazione maggioritaria”, ma ciò coincide – almeno a mio avviso – a un interesse che non è solo di quel partito, ma della democrazia italiana: del resto la storia elettorale del Paese insegna come certi equilibri anche in Italia non sono eterni ma mutevoli; in questo senso il progetto non impedisce e non disincentiva processi politici di alternanza, se mai il contrario.
Sulla base di queste valutazioni non credo sarebbe agevole spiegare ai cittadini per quale misteriosa ragione quella medesima Camera dei deputati che ha approvato il testo poi trasmesso al Senato, non approvasse quello, considerevolmente migliorato e anche arricchito (penso al voto dei temporaneamente all’estero) di cui s’è parlato.
Onorevoli deputati, permettetemi di dire ancora una volta che il governo democratico consiste nell’attribuire alla più consistente minoranza (se del caso) il potere-dovere di guidare la cosa pubblica in attesa di sottoporsi al giudizio degli elettori la volta dopo: questa e nessun altra (inclusi gli iperquorum introdotti a vanvera qua e là) è la vera polizza di assicurazione, tanto più in un assetto poliarchico come il nostro, contro il pericolo di eccessiva concentrazione del potere. Se davvero concentrazioni del genere si temono, allora in sede di revisione costituzionale si potrebbe ridurre, a tutti i livelli di governo, la durata delle legislature, per esempio da cinque a quattro anni. La soluzione, insomma, non sta nel governo debole, ma nel governo più forte possibile, rimesso periodicamente in discussione.
Per tutte queste ragioni raccomando alla vostra approvazione il progetto in discussione e, considerato il contesto nel quale il Paese si trova non da oggi, senza perseguire miglioramenti che sarebbero tali sono in astratto, conducendo di fatto alla prosecuzione di una navette che già c’è stata, prolungando l’agonia della nostra democrazia per un’incomprensibile forma di accanimento legislativo. Dopotutto siamo a due anni quasi esatti da quell’appello appassionato alle riforme che fu il discorso in occasione del giuramento del presidente Napolitano, al quale voi, non altri, chiese in una situazione d’emergenza di accettare un altro mandato. Gli applausi che, con senatori e delegati regionali, gli tributaste quel giorno sono un impegno che si tratta ora di onorare.
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