CELEBRIAMO IL TREDICESIMO ANNIVERSARIO DELL’ASSASSINIO DI MARCO BIAGI NEL GIORNO IN CUI PIANGIAMO ANCHE LE VENTI VITTIME DEL TERRORISMO A TUNISI: LA MALATTIA DA CUI STIAMO GUARENDO CI ASSEDIA AI NOSTRI CONFINI
Intervento svolto in Senato il 19 marzo 2015.
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Signor Presidente, Colleghi, è certo un caso, ma non un caso privo di significato, che oggi ci accada di riflettere sulla vicenda di Marco Biagi, che riassume la vicenda di un Paese malato di faziosità e intolleranza, nel giorno in cui piangiamo le venti vittime di un episodio se possibile ancora più grave di oscurantismo violento nei confronti di idee altrui e altrui cultura: a Tunisi ieri non si è compiuto soltanto un ennesimo atto della guerra civile che strazia il mondo islamico, ma anche un atto di intolleranza violenta, omicida, compiuto in un tempio della cultura per colpire un patrimonio dell’intera umanità.
L’analogia con la vicenda di Marco Biagi sta in questo: a ucciderlo fu, certo, soltanto la mano assassina dei terroristi; ma a fare di lui il bersaglio della violenza assassina fu uno scontro politico durissimo sulle questioni del lavoro, frutto di clima dominato dall’intolleranza e dalla faziosità. Dobbiamo anche al suo sacrificio se il Paese sta guarendo da quella malattia mortale. Anche se ora quella malattia ci assedia ai nostri confini.
La faziosità non necessita della mala fede, anche se a questa talvolta si accompagna: la faziosità è essenzialmente figlia della paura. Così come, di fronte a un nemico alieno col quale non c’è modo di comunicare, la paura ci spinge a cercare soltanto di sparargli per primi, allo stesso modo, di fronte a ragionamenti che sconvolgono il nostro modo di pensare proviamo la tentazione di squalificare preventivamente chi li propone per chiudere il dibattito prima ancora che esso si apra. È la tecnica del tabù, del “cordone sanitario”, contro la quale non c’è ragionamento efficace. Per superare quella barriera, le argomentazioni raffinate servono poco o nulla: l’arma più efficace è una testimonianza di disinteresse personale e di spirito di servizio – e di sacrificio – che induca gli interlocutori a comprendere intuitivamente la necessità del confronto. È questa la testimonianza che Marco ha dato al massimo grado. Ed è questo il contributo decisivo che egli ha dato non solo a disincagliare la cultura del lavoro del nostro Paese dalle secche di un oscurantismo molto dannoso, ma anche a svelenire una dialettica politica intossicata dalla faziosità di cui ho detto prima.
Tanto forte è stata questa sua testimonianza – spinta fino al punto di mettere consapevolmente a rischio la sua vita anche quando ogni difesa gli era stata colpevolmente tolta -, che, dopo la sua morte, squalificare la sua persona non è più stato possibile. È stato qui che si è assistito a un capitolo nuovo nella fenomenologia della faziosità: dal momento che non era più possibile squalificare lui, si è tentato di separare da lui la sua opera, negando che fosse opera sua. Quante volte, e da quanti esponenti anche eminenti dell’establishment politico e accademico, abbiamo sentito dire in questi anni: “Marco Biagi era persona troppo intelligente, colta e per bene per poter scrivere quella legge”! E quanti, pur senza pronunciare questa frase – che oltraggiosamente implica la squalifica totale di quella riforma sul piano dell’intelligenza, della cultura e dell’onestà morale -, ancora oggi tentano sostanzialmente proprio questa operazione, rifiutando di chiamare col suo nome la legge che lui ha scritto di suo pugno (la chiamano “legge 30”), per paura che l’ammirazione o anche solo il rispetto suscitati dalla sua straordinaria testimonianza possano indurre la gente a guardare senza pregiudizi ai contenuti e agli effetti di quanto lui ha elaborato e proposto!
Ma il tempo è galantuomo: oggi tutti sono costretti a riconoscere che quella legge – accusata inconsultamente di essere la causa della diffusione del precariato – in realtà non ha istituito alcun rapporto di lavoro precario che non esistesse già, magari con un nome diverso, e ne ha semmai imposto una disciplina più compiuta, per certi aspetti persino più restrittiva rispetto all’ordinamento precedente.
Se un difetto aveva, quella legge, era semmai quello di limitare l’intervento riformatore ai margini del diritto del lavoro, senza toccarne il cuore, la regola di job property che è per sua natura creatrice di una divisione profonda tra core workers e peripheral workers. Ma quel difetto non era certo conseguenza di una timidezza nell’approccio riformatore dell’estensore della legge, bensì delle barricate erette dai suoi oppositori.
Va detto tuttavia che la parte essenziale dell’eredità intellettuale che Marco Biagi ci ha lasciato non sta tanto in questa o quella scelta contingente di politica del lavoro, quanto nell’affermazione di un metodo nuovo per l’impostazione stessa del dibattito di politica del lavoro: un metodo fondato, in primo luogo sul confronto tra diritto, economia e sociologia; ma fondato soprattutto sulla comparazione internazionale. Fu proprio la comparazione che gli consentì di utilizzare il confronto con gli altri Paesi, e in particolare con quelli più avanzati del nostro per quanto riguarda il buon funzionamento del mercato del lavoro, per la progettazione delle riforme a cui ha dedicato tanta parte della sua vita. Quante volte, e con quanta ragione, Marco se la prendeva con coloro che snobbavano sistematicamente il confronto con le esperienze straniere sostenendo che “l’Italia è diversa”, “in Italia non si può”, “in Italia le misure che funzionano bene oltr’Alpe non possono funzionare”: un alibi diffusamente utilizzato da destra e da sinistra per non mettere in discussione tante cose che funzionano male, tante posizioni di rendita, tanti radicatissimi conservatorismi.
Oggi, a tredici anni dal suo martirio (uso il termine anche e soprattutto nel suo significato originario di testimonianza) è tempo che tutto l’arco delle forze politiche gli riconosca la paternità della legge che dalle sue idee è nata (non certo per farne un nuovo tabù: Marco stesso lo considererebbe una sciocchezza imperdonabile). Gli è dovuto da tutto l’arco delle forze politiche il riconoscimento che quella legge è il frutto genuino dello studio e del lavoro di una persona animata soltanto dal desiderio di servire il suo Paese, di accelerarne il progresso civile, convinta che questo progresso si misura essenzialmente sul benessere e sulla sicurezza che il Paese sa garantire ai più deboli, agli outsiders, agli ultimi della fila, e non soltanto agli insiders, ai lavoratori regolari stabili.
Discutere di quelle idee con rispetto, respingendo ogni tentazione di chiusura preventiva del dibattito, è un dovere civile e morale per chiunque abbia a cuore il progresso sociale e la stessa democrazia. La battaglia contro il terrorismo si vince anche in questo modo.
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