DOMANDE E RISPOSTE POLITICHE SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI

PERCHÉ IL SUPERAMENTO DEL REGIME DI JOB PROPERTY COSTITUISCE UNA TAPPA DECISIVA NELLA BATTAGLIA CONTRO IL REGIME DI APARTHEID FRA PROTETTI E NON PROTETTI NEL MERCATO DEL LAVORO – E DISCUSSIONE DI ALTRE QUESTIONI DI POLITICA INDUSTRIALE E DEL LAVORO

Domande e obiezioni rivoltemi in occasione dell’incontro promosso dal PD di Desio il 27 febbraio 2015 – Segue in questo stesso post una serie ulteriore di domande, alle quali conto di dare risposta entro breve.

Sommario:
1. Sul dualismo tra rapporti di lavoro vecchi e nuovi e il superamento del precariato
2. Sull’entità dell’indennizzo e la libertà di licenziare
3. Sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa e il nuovo sistema di relazioni industriali
4. Sulla questione dei licenziamenti collettivi e del parere della Commissione Lavoro della Camera disatteso dal Governo
5. Il problema dei servizi per l’impiego
6. L’impatto della nuova disciplina sulla mobilità spontanea dei lavoratori
7. Sulle imprese di piccole dimensioni
8. Sulla nuova disciplina della Cassa integrazione guadagni
9. L’apprendistato
10. La questione del mutuo con la banca
11. La nuova disciplina del mutamento di mansioni
12. La questione dell’impiego pubblico
13. Questioni di politica economica, industriale e del lavoro
.     – perché la soluzione non sta negli aiuti di Stato alle imprese
.     – politiche della domanda e politiche dell’offerta
.     – lavorare meno per lavorare tutti?

 

1. Sul dualismo tra rapporti di lavoro vecchi e nuovi e il superamento del precariato

Con il decreto sul contratto a tutele crescenti non si determinerà una disparità di trattamento fra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo la legge, in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza?
Quando si modifica la disciplina di un contratto di durata, cioè di un contratto che ha per oggetto una prestazione protratta nel tempo, come il contratto di lavoro o quello di locazione, è inevitabile che ci si trovi di fronte alla scelta tra applicare le nuove norme ai vecchi rapporti modificando il contenuto di posizioni giuridiche già esistenti, oppure limitarne l’applicazione ai nuovi rapporti, dando luogo a una transitoria disparità di trattamento fra contratti vecchi e nuovi. La giurisprudenza costituzionale fino a oggi ha legittimato entrambe le scelte, ma ha tendenzialmente favorito la seconda. Resta comunque il fatto che, nel caso delle nuove norme in materia di licenziamento, la disparità di disciplina tra vecchi e nuovi è destinata a essere superata nel giro di pochi anni, per effetto del turnover della forza-lavoro. Aggiungo che questa disparità è cosa ben diversa dal regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti: d’ora in poi ci sarà la giustapposizione di un regime di protezione vecchia maniera, basato sull’ingessatura del posto di lavoro, e un regime di protezione nuovo, basato sulla sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato.

Landini e Fassina obiettano che la riforma lascia intatte tutte le forme di lavoro precario.
Non è così: dall’inizio del prossimo anno le protezioni del lavoro subordinato verranno estese al lavoro “parasubordinato”, cioè sostanzialmente dipendente ma in forma giuridica autonoma: co.co.co., lavoro a progetto, ecc. Ma se, come confido accadrà, l’effetto di riassorbimento incomincerà a prodursi subito, fin dalle prossime settimane, questo costituirà la migliore prova del fatto che la rimozione delle rigidità eccessive è già di per sé capace di produrre risultati rilevanti sul terreno del riassorbimento del precariato.

Quali tipi contrattuali vengono eliminati? Leggo che sono rimasti ancora una quarantina di contratti “atipici”.
Quella dei 50 tipi di contratto di lavoro è una leggenda metropolitana che da anni passa di bocca in bocca, ma non regge a una verifica seria. Certo, se per “tipo di contratto” intendiamo una qualsiasi combinazione tra previsione di durata a termine o no, modalità di estensione e distribuzione dell’orario di lavoro, carattere stagionale o no del rapporto, collocazione della prestazione dentro l’azienda o fuori, allora altro che 50 tipi: possiamo arrivare anche a 5.000. Se poi li moltiplichiamo per i diversi possibili tipi di mansione svolta (lavoro domestico, agricolo, editoriale, informatico, ecc.), possiamo raggiungere i 500.000; ma proporsi di ridurre per legge questa varietà non avrebbe alcun senso. In realtà, un censimento serio delle forme giuridiche di organizzazione del lavoro retribuito, che abbiano una qualche apprezzabile diffusione nel nostro Paese, evidenzia una decina di forme, divise a metà tra quelle a tempo indeterminato e quelle a termine. Fra le prime si collocano il lavoro subordinato ordinario, la collaborazione autonoma coordinata e continuativa senza termine (co.co.co.), il lavoro cooperativo, lo staff leasing (somministrazione a carattere durevole), l’associazione in partecipazione. Fra le seconde si collocano, oltre al lavoro subordinato ordinario a termine, con la sua sottospecie del lavoro “occasionale”, il “lavoro accessorio” retribuito con i voucher, il lavoro a progetto (co.co.pro., che è solo un sottotipo delle co.co.co.), il lavoro temporaneo tramite agenzia. Con i rapporti non retribuiti o soltanto indennizzati, di stage e di tirocinio, si arriva a una quindicina. Cui si aggiunge ovviamente il lavoro autonomo classico, con la partita Iva, del quale si possono individuare migliaia di sottotipi professionali. Lo schema di decreto sul “riordino contrattuale”, approvato dal Governo il 20 febbraio, prevede la soppressione del lavoro a progetto e dell’associazione in partecipazione; quanto alla collaborazione autonoma continuativa, prevede un criterio per la distinzione, in seno ad essa, del lavoro dipendente da quello autonomo (quest’ultimo dovrà essere svolto con partita Iva).

Ciò che determina l’utilizzo di forme di lavoro atipiche è più il maggiore costo del lavoro subordinato, o la rigidità della sua disciplina?
I due mesi intercorsi tra l’entrata in vigore del drastico sgravio fiscale e contributivo sui nuovi contratti a tempo indeterminato (legge di stabilità 2015, entrata in vigore il 1° gennaio) e l’entrata in vigore del decreto sul contratto a tutele crescenti (decreto 20 febbraio 2015, entrato in vigore il 6 marzo) consentiranno tra breve agli economisti di valutare quanto abbia influito l’incentivo economico e quanto la nuova disciplina dei licenziamenti sulla propensione delle imprese a scegliere il contratto a tempo indeterminato invece che altre forme contrattuali.

Perché ai tempi dei co.co.pro. la Cgil non si è interrogata sulla ricattabilità dei lavoratori e su quello che avrebbe potuto essere fatto per loro sul piano contrattuale?

Che non solo la Cgil, ma tutti i sindacati siano stati incapaci di guardare con il dovuto spirito critico al fenomeno del dualismo fra protetti e non protetti, e ancor più di agire efficacemente per superarlo, non c’è dubbio. Quanto alla spiegazione di questo loro modo di essere, ho sempre avuto l’impressione che esso si prestasse a essere letto come una riluttanza ad andare al fondo della questione, dovuta all’intuizione che questo avrebbe necessariamente comportato il mettere in discussione l’impianto generale della protezione dei lavoratori regolari. Come effettivamente sta accadendo: se vogliamo un diritto del lavoro che si applichi a tutti allo stesso modo, dobbiamo cambiare profondamente le tecniche di protezione applicate fin qui.

2. Sull’entità dell’indennizzo e la libertà di licenziare

Si è data la completa libertà di licenziamento sulla fattispecie economica?
No: si è semplicemente sostituita la vecchia property rule, contenuta nell’articolo 18 St. lav., con una liability rule (responsabilità per un indennizzo di importo predeterminato), in linea con quanto accade in tutti gli ordinamenti dei Paesi dell’OCDE. Un passaggio obbligato se vogliamo superare il regime di apartheid fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. Perché la property rule, ovvero l’articolo 18, per sua stessa natura non può essere estesa a più di metà della forza-lavoro: essa è dunque strutturalmente, per sua stessa natura, produttiva del precariato.

Chi non andrà a genio al datore di lavoro potrà essere cacciato via senza nessun vincolo?
No: resta intatto – come in tutti i Paesi civili – il divieto di discriminazioni e di rappresaglie. Per il resto, come in tutti i Paesi civili, l’ordinamento si fa carico di assicurare al lavoratore non una sorta di diritto di proprietà sul posto di lavoro (che, come si è visto, non potendo essere assicurato a tutti, porta con sé effetti indesiderabili di dualismo delle tutele), bensì la necessaria sicurezza economica e professionale nel caso di perdita del posto (v. in proposito anche § 9), con l’aggiunta di un indennizzo congruo, allineato rispetto agli standard europei più protettivi, per il caso in cui il licenziamento sia ritenuto dal giudice ingiustificato.

Con indennizzi così bassi il disincentivo economico al licenziamento è quasi nullo: perché non prevedere indennizzi più alti?
Siamo portati a considerare molto basso il costo del licenziamento previsto in questo decreto, perché lo confrontiamo con il costo elevatissimo conseguente all’applicazione dell’articolo 18 St. lav. Ma se lo confrontiamo con quello previsto dagli ordinamenti dei principali Paesi europei, constatiamo facilmente che esso è ora perfettamente in linea: molto simile a quello spagnolo, superiore a quello francese, mediamente di poco inferiore a quello tedesco. Quanto al fatto che l’indennizzo sia minimo nella fase iniziale del rapporto, questo è indispensabile se vogliamo favorire l’assunzione a tempo indeterminato come forma normale di assunzione: la fase iniziale è infatti quella nella quale l’imprenditore si trova nella situazione di massima incertezza circa la qualità della persona assunta e circa la possibilità che il rapporto prosegua oltre il primo anno o biennio. Basti pensare come incide un indennizzo di 12 mensilità (quale quello oggi previsto come indennizzo minimo dalla legge Fornero del 2012) sul bilancio complessivo di un rapporto di lavoro durato un anno o due.

L’Italia nel 2013, su rilevazione OCDE, aveva un indice di protezione del lavoro contro licenziamenti individuali e collettivi di 2.79, contro il 2.98 della Germania, il 2.82 della Francia, il 2.94 dei Paesi Bassi ed il 2.95 del Belgio. La media dei Paesi OCDE è di 2.29: è ragionevole affermare che il Jobs Act possa porterà l’Italia ad un indice di protezione da Paese emergente (in area Ocse)? Come dovremmo leggere questo dato?
Tra i Paesi dell’OCDE, quelli con indice di protezione del lavoro più alto appartengono alla cosiddetta “fascia mediterranea”: Portogallo, Spagna, Grecia, Turchia. Mentre tra quelli con indice di protezione più basso figurano, oltre a quelli del nord-America, i Paesi del nord-Europa: Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Svezia. Non credo che dovremmo rammaricarci se, per effetto di questa riforma, l’Italia si omologasse a questo secondo gruppo. Anche perché l’indice di protezione (Employment Protection Level) elaborato dall’OCDE non misura, in realtà, il livello complessivo della protezione, ovvero della sicurezza del lavoratore nel mercato del lavoro, che nel nord-Europa tocca i livelli massimi, bensì soltanto i vincoli giuridici e i costi monetari che ciascun ordinamento nazionale impone all’impresa.

Perché l’indennizzo massimo in caso di licenziamento è di 24 mensilità, pari a 2 mensilità per 12 anni, così equiparandosi chi ha lavorato nella stessa azienda per 12 anni a chi invece ne ha lavorati 30, con disparità e iniquità tra lavoratori, oltre al vantaggio economico dato all’imprenditore?
Uno degli intendimenti di fondo della riforma, come ho detto, è quello di allineare il nostro ordinamento per questo aspetto a quello degli altri maggiori ordinamenti nazionali europei. Tra i quali, il più protettivo dopo l’Italia e la Grecia è quello tedesco, dove l’indennizzo massimo è di 18 mensilità; quello spagnolo prevede un indennizzo pari a circa una mensilità per anno di anzianità; quello francese prevede un indennizzo massimo di 6 mensilità, cui si aggiunge il costo della convention de conversion (una sorta di “contratto di ricollocazione” più rudimentale del nostro, mutuato dall’esperienza olandese) che è mediamente pari a una annualità dell’ultima retribuzione. Come si vede, dunque, il nostro limite massimo di 24 mensilità – che peraltro riprende la disposizione in proposito contenuta nella legge Fornero del 2012 – è più elevato rispetto ai limiti massimi vigenti nei tre maggiori Paesi continentali con i quali abbiamo scelto di confrontarci.

Perché l’indennizzo è solo funzione dell’anzianità e non anche della grandezza dell’azienda?
Perché la scelta di aumentare il costo del licenziamento in funzione delle dimensioni dell’impresa non ha alcuna ragion d’essere né sul piano economico, né sul piano sociale. E invece ha un effetto gravemente indesiderabile: quello di favorire il nanismo delle imprese. L’Italia soffre di questo nanismo, anche per effetto di politiche del lavoro che hanno sempre teso, nell’ultimo mezzo secolo, ad aumentare i costi di transazione, i costi di separazione dai dipendenti e i costi indiretti conseguenti alle nuove assunzioni, con l’aumentare delle dimensioni dell’impresa. La produttività del lavoro è mediamente inferiore nelle imprese di piccole dimensioni rispetto alle imprese maggiori; e con la produttività resta bassa necessariamente la retribuzione.

Non c’è il rischio paradossale che i lavoratori a termine siano più tutelati che alcuni lavoratori subordinati a tempo indeterminato? Per esempio se un lavoratore è stato assunto da poco e poi viene licenziato con licenziamento disciplinare illegittimo, con la riforma Fornero doveva essere almeno risarcito con un minimo di 12 mesilità, ora potrebbe essere risarcito anche con 4 mensilità (addirittura meno del massimo della tutela obbligatoria); viceversa un lavoratore assunto a termine per un anno e licenziato 10 mesi prima della scadenza del contratto senza giusta causa, dovrebbe percepire tutte le mensilità fino alla scadenza a norma del Codice civile.
Non c’è dubbio che il contratto a termine abbia in sé un elemento di maggiore rigidità, costituito appunto dal divieto di licenziamento ante tempus, rispetto al contratto a tempo indeterminato. Non vedo, però, che male ci sia: è così in tutti gli ordinamenti dell’occidente industrializzato. D’altra parte, come abbiamo visto sopra, il livello basso dell’indennizzo nella fase iniziale del rapporto a tempo indeterminato costituisce il presupposto indispensabile per il ritorno di questo tipo di contratto come forma normale di assunzione e il superamento del dualismo tra protetti e non protetti.

Come si giustifica che, se il giudice ritiene sussistente il motivo economico-organizzativo addotto dall’imprenditore, il lavoratore che perde il posto del tutto incolpevolmente rimanga senza un euro di indennizzo?
Nel progetto originario, presentato in Parlamento da 55 senatori PD con il d.d.l. n. 1873/2009, per il caso del licenziamento per motivo oggettivo si prevedeva un indennizzo fisso, non dipendente dalla valutazione negativa di un giudice circa il motivo addotto dall’imprenditore. L’idea – in conformità con il progetto elaborato da Blanchard e Tirole per il Governo francese nel 2003 – era che in questo caso il lavoratore dovesse essere indennizzato comunque, poiché lo scioglimento del rapporto non avveniva a seguito di una sua mancanza. Credo che questa fosse una soluzione migliore. Si è scelto quest’altra in ossequio alla disposizione della Carta di Nizza che impone che ci sia sempre la possibilità di un controllo giudiziale sul motivo del licenziamento; ma a mio avviso quella disposizione si riferisce soltanto al controllo antidiscriminatorio e contro i motivi illeciti.

3. Sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa e il nuovo sistema di relazioni industriali

Perché c’è così tanta resistenza a introdurre unitamente questi tre elementi: 1) partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’Impresa; 2) partecipazione dei lavoratori alla proprietà dell’Impresa (in certi limiti); 3) partecipazione dei lavoratori ai profitti e alle perdite dell’Impresa? Nb.: questi elementi, però andrebbero introdotti tutti insieme, perché se introdotti soltanto separatamente potrebbero generare iniquità. Insieme, invece, rappresenterebbero un potente strumeno di crescita dell’Impresa e di promozione del lavoro.
Questo sarà il nuovo capitolo della politica del lavoro del Governo Renzi, subito dopo la conclusione del lavoro molto impegnativo per l’attuazione della legge-delega n. 183/2014.

4. Sulla questione dei licenziamenti collettivi e del parere della Commissione Lavoro della Camera disatteso dal Governo

Perché il parere delle Commissioni parlamentari, nel senso dell’esclusione dei licenziamenti collettivi dal campo di applicazione del decreto non è stato accolto?
Va detto subito che una cosa è il parere espresso dalla Commissione Lavoro della Camera, che richiedeva in modo tassativo l’esclusione dei licenziamenti collettivi, tutt’altra cosa il parere espresso dalla Commissione omologa del Senato, che su questo punto era molto più dubitativo e riferito comunque a un aspetto limitato della questione. Questa differenza di contenuti non è stata colta dai molti  – tra i quali persino la Presidente della Camera dei Deputati – che hanno imputato al Governo addirittura di aver “ignorato il parere del Parlamento”. Il fatto è che proprio la legge-delega, approvata solo due mesi fa dagli stessi due rami del Parlamento, ha escluso esplicitamente l’applicazione della reintegrazione in tutta l’area dei “licenziamenti economici”; e nessuno può ragionevolmente sostenere che il licenziamento collettivo non rientri in questa nozione. Al di là di questo dato istituzionale difficilmente superabile, escludere i licenziamenti collettivi dall’applicazione delle nuove regole avrebbe significato far convivere, per i nuovi rapporti di lavoro, il vecchio regime e il nuovo; sarebbe stato il compromesso deteriore che, togliendo coerenza all’impianto della riforma, le avrebbe tolto anche un po’ di credibilità agli occhi dei lavoratori e degli operatori economici. Perché se si rimane in mezzo al guado, non è chiaro se alla fine si passerà sulla nuova sponda o si tornerà sulla vecchia. Questo avrebbe ridotto notevolmente l’affidamento che gli operatori economici possono riporre nella stabilità della nuova normativa. E con il loro affidamento sarebbe stata compromessa proprio la parte più “di sinistra” della riforma: il suo impatto positivo in termini di riassorbimento del precariato, di aumento rapido della quota di assunzioni a tempo indeterminato sul flusso dei nuovi contratti, quindi di pari opportunità nel mercato del lavoro.

5. Il problema dei servizi per l’impiego

Uno dei perni della riforma del lavoro è costituito dalle politiche attive del lavoro: sono pronti i centri per l’impiego per svolgere in modo concreto ed efficace questa delicata funzione? Se no, non sarebbe stato più utile e rassicurante agire su un ammodernamento dei CPI e su un profondo aggiornamento delle loro competenze?
Certo che sarebbe stato utile! Per questo mi sono battuto a lungo perché la riforma potesse essere preceduta da un congruo periodo di sperimentazione del nuovo strumento del contratto di ricollocazione. Ero anche arrivato a ottenere che nella legge di stabilità 2014 venisse istituito un fondo per questa sperimentazione; senonché poi le resistenze all’interno della struttura del ministero del Lavoro combinate con la diffidenza degli ambienti sindacali, ha impedito che quella sperimentazione partisse (per una descrizione e documentazione puntuale di questa vicenda rinvio al Portale del contratto di ricollocazione). Basti pensare che in un comunicato della Cgil del luglio 2014, a proposito della prospettata sperimentazione del contratto di ricollocazione per la soluzione della nuova crisi occupazionale in Alitalia, questa venne qualificata come “un pericoloso precedente”.

6. L’impatto della nuova disciplina sulla mobilità spontanea dei lavoratori

Che impatto avrà la nuova normativa sulla mobilità spontanea dei lavoratori dipendenti? Se ogni volta che si cambia volontariamente datore di lavoro si riparte da zero, in termini di tutele, non si è “disincentivati” a cercare nuove e magari migliori opportunità? E non lo saranno, soprattutto, coloro che oggi hanno un contratto tutelato da art. 18?
No, perché il lavoratore che cambia lavoro volontariamente è per lo più un lavoratore che ha sufficiente potere contrattuale per negoziare con il nuovo datore di lavoro misure adeguate. L’armamentario giuridico è molto ricco: clausola di durata minima, anzianità convenzionale, rinuncia del nuovo datore di lavoro al periodo di prova, preavviso di licenziamento lungo, indennità di licenziamento maggiorata, oppure anche cessione del contratto dal vecchio imprenditore al nuovo, con conseguente conservazione integrale della posizione precedente anche riguardo all’applicabilità dell’articolo 18.

7. Sulle imprese di piccole dimensioni

Per micro e piccole imprese con meno di 15 dipendenti, il nuovo contratto non rappresenta un aggravio rispetto alla situazione pre-riforma?
No: semmai una marginale flessibilizzazione, poiché l’indennizzo giudiziale minimo si riduce da 2,5 a due mensilità. L’indennizzo massimo resta di 6 mensilità.

Non sarebbe (stato) utile differenziare in qualche modo, rendendo più oneroso il licenziamento individuale nella grande società di consulenza (per esempio) che non nella realtà familiare con pochi dipendenti?
Come ho detto sopra, non è opportuno istituire degli incentivi al nanismo delle imprese.

8. Sulla nuova disciplina della Cassa integrazione guadagni

Con la riforma del lavoro, cassa integrazione ordinaria, straordinaria e contratti di solidarietà cambiano? Se si come?.
La Cassa integrazione guadagni viene ricondotta alla sua funzione originaria, che è quella di mantenere i lavoratori legati all’impresa nelle situaazioni di crisi temporanea, quando vi sia la concreta prospettiva di una ripresa del lavoro nella stessa azienda entro un tempo ragionevole, evitando una dispersione di professionalità. La nuova disciplina impedirà gli abusi di questo istituto a cui in Italia si assiste diffusamente da decenni.

Perché non si è avuto più coraggio nell’abbreviare i termini di Cassa Integrazione Guadagni, quasi sempre mantenimento in agonia di aziende già decotte? Questo avrebbe permesso di ricavare più risorse per ammortizzatori sociali più attenti a chi ha perso il lavoro e deve ricollocarsi.
Concordo.

9. L’apprendistato

In riferimento al contratto di apprendistato professionalizzante per i neolaureati: quali garanzie di un contratto a tempo indeterminato alla fine del percorso?
Nessuna “garanzia”: la stabilizzazione non è un diritto per l’apprendista, né si è laureato né se non lo è. Però il fatto che in caso di prosecuzione del rapporto, anche se l’apprendistato ha avuto inizio prima dell’entrata del decreto, si applichi la nuova disciplina delle “tutele crescenti” renderà molto più facile la stabilizzazione, poiché eviterà che questa comporti un costo di separazione molto elevato nel caso in cui il rapporto debba sciogliersi entro i primi anni di svolgimento.

10. La questione del mutuo con la banca

Una coppia assunta in regime di jobs act avrà facile accesso al mutuo per l’acquisto della casa?
La sicurezza economica e professionale di una persona non è data necessariamente dall’ingessatura del posto di lavoro, ma anche – e per certi aspetti molto meglio – da un’assicurazione universale contro la disoccupazione che garantisca il sostegno del reddito nel passaggio da un posto all’altro, e da servizi efficienti di assistenza nella ricerca del posto stesso. Sta di fatto comunque che, quando questo sia l’assetto normale della protezione della sicurezza del lavoratore, come accade in tutti gli altri Paesi europei maggiori, gli istituti di credito considerano questo come lo standard di affidabilità necessario per l’erogazione di un mutuo.
In altre parole, nei Paesi dove non esiste e non è mai esistito nulla di simile al nostro articolo 18, ma esistono forme evolute di protezione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, le Banche erogano normalmente il mutuo a tutti i lavoratori senza curarsi più che tanto del rischio del licenziamento. La nostra riforma si propone di garantire a tutti i lavoratori (e non soltanto a metà di essi, come fa l’articolo 18) quella stessa sicurezza economica e professionale: una sicurezza che non dipendente dalle vicende del singolo rapporto di lavoro. Questa sicurezza sarà data ora, in caso di perdita del posto, oltre che dall’indennizzo oggetto della “conciliazione standard” (destinata a diventare una sorta di severance cost di applicazione generale) da un trattamento di disoccupazione universale combinato con l’assistenza qualificata nella ricerca del nuovo posto offerta dall’agenzia scelta dal lavoratore. I sindacati, poi, faranno bene a battersi per l’introduzione, mediante i contratti soprattutto di livello aziendale, di un trattamento complementare, che con un costo modestissimo per l’azienda potrebbe perfezionare la garanzia di continuità del reddito del lavoratore licenziato, portandola dal 75 all’85 o al 90 per cento dell’ultima retribuzione. Finora questo genere di rivendicazione non è stato quasi mai praticato nella contrattazione aziendale; ma d’ora in poi anche il sindacato dovrà incominciare a occuparsi di più di questo aspetto della sicurezza dei suoi rappresentati.

11. La nuova disciplina del mutamento di mansioni

Non c’è il rischio che il demansionamento sia usato come minaccia e come mobbing?
In questo caso – e il giudice è perfettamente in grado di individuarlo – l’atto di esercizio dello ius variandi del datore di lavoro sarebbe nullo per illiceità del motivo determinante.

12. La questione dell’impiego pubblico

Alla fine, il Jobs Act si applica o no nel settore pubblico?
I frequentatori di questo sito ricorderanno la vicenda del comma inserito e poi soppresso nel testo del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri del 24 dicembre scorso, contenente l’espressa esclusione del settore pubblico dal campo di applicazione del decreto stesso: quella soppressione implicava, secondo la regola generale posta dal Testo unico dell’impiego pubblico (d.lgs. n. 165/2001, art. 2, comma 2), l’applicabilità del decreto anche nel settore pubblico. Poiché il comma in questione non è stato reinserito nel testo del decreto approvato in via definitiva il 20 febbraio, la nuova disciplina si applica anche nel settore pubblico. Ciò non toglie che nel settore pubblico occorrano norme di governance interna delle amministrazioni che impongano alla dirigenza pubblica di riappropriarsi delle prerogative manageriali, alle quali essa ha diffusamente abdicato, e ne promuovano l’esercizio corretto.

Che cosa accadrà dei co.co.co. nel servizio pubblico?
Su questo punto dispone lo schema di decreto approvato dal Governo il 20 febbraio, ma che deve ancora essere esaminato dalle Commissioni Lavoro di Camera e Senato prima di essere varato definitivamente. Il quale prevede che entro la fine del 2016 tutte le collaborazioni coordinate e continuative attualmente in essere presso le amministrazioni pubbliche vengano trasformate o in rapporti di impiego, o in rapporti di consulenza professionale con partita Iva. Questa disposizione potrebbe però subire delle modifiche prima di entrare in vigore.

13. Questioni di politica economica, industraiale e del lavoro [in attesa di risposta]

La nazionalizzazione delle imprese non sarebbe un modo per garantire tutele a aziende e lavoratori?
Questa idea, profondamente radicata nella cultura della sinistra dell’Europa continentale nel secolo passato, si è dimostrata sbagliata perché non tiene conto di un dato fondamentale: la funzione dell’imprenditore, cioè di colui che sa mettere insieme i fattori produttivi nel modo più opportuno, è indispensabile per valorizzare il lavoro di chi opera in seno a una azienda. In altre parole: l’imprenditore non è soltanto colui che ci mette il capitale, ma è anche colui che ci mette la visione complessiva del ruolo dell’impresa in un contesto economico dato, il piano industriale, la capacità di realizzarlo in concreto. Lo Stato può sostituirsi all’imprenditore soltanto nella funzione di investitore, ma non nelle altre. Neppure i lavoratori, salvo eccezioni, possono sostituirsi all’imprenditore nella funzione di progettazione e attuazione del piano industriale (a meno, ovviamente, che abbiano essi stessi le necessarie capacità imprenditoriali).

La politica mercantilista tedesca consiste nello spingere tutti a porre enfasi sulle esportazioni; senonché per esportare occorrerebbe svalutare la moneta; non potendo farlo, si svaluta il lavoro. Non crede che il Jobs Act vada nella stessa direzione? Non crede che questo provvedimento faccia ancora una volta una politica dell’offerta, cioè una politica di destra, mentre noi abbiamo oggi più che mai bisogno di una politica della domanda, e cioè di una politica economica di sinistra?
Una risp0sta compiuta a questa domanda richiederebbe molto di più di qualche riga. Mi limito, qui, a osservare come oggi l’Italia non si trovi di fronte all’alternativa tradizionale tra una politica “di sinistra”, cioè volta a creare domanda di lavoro, e in particolare a pompare investimenti nel sistema, e una politica “di destra”, cioè volta a rendere più disponibile e meglio qualificata l’offerta di lavoro: c’è bisogno urgente di entrambe, e l’una è necessaria per il successo dell’altra. Occorre, certo, aumentare gli investimenti; ma questi non possono venire dallo Stato italiano (il quale non può più battere moneta, né finanziare investimenti pubblici indebitandosi ulteriormente o aumentando le tasse), bensì soltanto dalla UE o dagli investitori stranieri, cioè dalle imprese multinazionali. Quanto alla UE, essa – comprensibilmente – condiziona l’emissione degli eurobond a una armonizzazione tra bilanci pubblici e tra sistemi economici degli Stati-membri: la nostra riforma del lavoro costituisce una parte importante di questo processo di armonizzazione dei sistemi economici. In attesa degli investimenti UE, nell’immediato non possiamo puntare su altro che sugli investimenti diretti esteri, dai quali peraltro possiamo attenderci – se riusciamo a riaprire ad essi il nostro Paese – molte decine di miliardi di euro ogni anno. Su questo tema rinvio a un mio articolo di questi giorni – Politica industriale: le due leve sbagliate e le cinque giuste – dove osservo che per attrarre gli investimenti stranieri occorrono, insieme alla riduzione della pressione fiscale, del peso della burocrazia e dei tempi della giustizia civile, anche un mercato del lavoro capace di far incontrare facilmente domanda e offerta di lavoro, e un diritto del lavoro allineato ai migliori standard dei Paesi dell’Occidente industrializzato. Su tutti questi capitoli il Governo Renzi è fortemente impegnato: la riforma del lavoro riguarda soltanto gli ultimi due.

Nel corso degli ultimi 35 anni su tutto il pianeta si è assistito alla polarizzazione della ricchezza, che si è spostata dai poveri ai ricchi, fino a livelli inconcepibili. Oggi 80 persone assommano le ricchezze di 3,5 miliardi di altre persone. Si tratta di una situazione non solo insostenibile economicamente, ma anche pericolosissima socialmente. Non crede che compito di una forza di sinistra, ma anche di centro sinistra, persino di centro, dovrebbe essere proprio impegnarsi al massimo per porre rimedio a questa situazione, e che il primo luogo da cui cominciare sia proprio dove la ricchezza è creata, cioè nelle aziende?
Il forte aumento delle disuguaglianze di reddito costituisce un fenomeno globale, che nel nostro Paese si manifesta in modo molto evidente ma non in misura superiore rispetto a quanto accade oltr’Alpe od oltre-oceano. Quanto al nostro Paese, non credo che questo fenomeno tragga origine da una distorsione del rapporto di lavoro: esso è causato semmai dall’aumento dei flussi migratori (che pongono la fascia professionalmente bassa dei lavoratori italiani in concorrenza con i lavoratori dei Paesi più poveri) e dall’evoluzione tecnologica (che vede una parte soltanto delle persone in grado di trarne profitto, mentre un’altra parte non ci riesce, e può esserne addirittura impoverita per la perdita della vecchia occasione di lavoro). Non credo, comunque, che questo fenomeno possa essere inquadrato nello schema concettuale otto-novecentesco dell’imprenditore che si arricchisce sfruttando i propri dipendenti (rendita monopsonistica): i grandi arricchimenti di imprenditori del XXI secolo avvengono per lo più mediante lo sfruttamento di nuove invenzioni; e i loro dipendenti sono per lo più quelli che stanno meglio rispetto alla generalità dei lavoratori subordinati, godendo anch’essi – sia pure solo in parte relativamente piccola –  della ripartizione degli abbondanti profitti prodotti nell’impresa. Le radici della disuguaglianza crescente di cui stiamo parlando non vanno individuate nel classico squilibrio di potere contrattuale tra datore e prestatore di lavoro; dobbiamo anzi stare attenti a non commettere, applicando in modo inappropriato questo vecchio paradigma, l’errore di dimenticare che per la maggior parte dei lavoratori l’imprenditore è indispensabile per valorizzare il loro lavoro: senza l’impresa (che significa non soltanto il capitale, ma anche il piano industriale e la capacità di attuarlo) ci sarebbe solo disoccupazione o lavoro pochissimo produttivo.

Peché lasciamo che ci siano tanti disoccupati, a fronte di una moltitudine di occupati che lavorano anche 50 ore a settimana?
È un’idea molto sbagliata quella secondo cui, nel nostro sistema economico attuale, il “lavoro disponibile” possa essere facilmente distribuito fra tutti i lavoratori e sia una quantità data,  tale per cui chi lavora di più toglie il lavoro a qualcun altro. Ripropongo, a questo proposito, il quarto capitolo del mio libro Il lavoro e il mercato, nel quale vent’anni fa mi proposi di mostrare che una riduzione autoritativa generalizzata dell’orario di lavoro produce quasi esclusivamente aumento della produttività oraria di chi ha un lavoro regolare, ma non redistribuzione del lavoro ai disoccupati, perché la impediscono ostacoli di natura organizzativa in azienda, ma soprattutto il difetto di informazione, formazione e mobilità che impedisce ai disoccupati di sostituire gli occupati.

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