DOVE AFFONDA LE RADICI LA RIFORMA DEL LAVORO

COME L’IDEA DI FARE DEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI LA FORMA NORMALE DI ASSUNZIONE PER TUTTI NASCE DA UN PROGETTO ORGANICO CHE AVEVO GIÀ ESPOSTO ALLA METÀ DEGLI ANNI ’90

Intervista a Pietro Ichino a cura di Andrea Di Stefano per i 19 quotidiani locali del gruppo L’Espresso, 22 febbraio 2015 – All’ultimo momento sugli stessi quotidiani per ragioni di spazio la domanda sull’impiego pubblico è stata malamente manipolata, col risultato di farle assumere il significato opposto a quello che emerge chiaramente dal testo originario.

Professore qual è il suo primo giudizio sui decreti approvati ieri dal Governo?
Complessivamente molto positivo: in questi decreti ci sono tutti i pilastri essenziali della riforma che occorre per voltar pagina rispetto al regime di job property, e all’inefficienza e al dualismo fra protetti e non protetti che ne consegue.

Quali pilastri?
Flessibilizzazione e generalizzazione della disciplina dei licenziamenti, trattamento di disoccupazione di livello europeo ed esteso a tutti, integrazione tra strutture pubbliche e agenzie private specializzate attraverso il contratto di ricollocazione, libertà di scelta dell’agenzia da parte del lavoratore, retribuzione della stessa a risultato, estensione della protezione a tutta l’area caratterizzata da sostanziale dipendenza economica del lavoratore.

Si considera il padre nobile di questa riforma?
“Nobile” no di certo. “Padre” è un’espressione davvero eccessiva; anche perché alla stesura di questi testi hanno contribuito in modo decisivo anche altri giuslavoristi, tutti di grande valore. È vero però che l’idea del contratto a tutele crescenti come forma normale di assunzione è frutto di un progetto che ho incominciato a proporre già nel 1989, e che ha preso compiutamente forma nel mio libro del 1996 Il lavoro e il mercato. È anche vero che alla riforma ho dato in Senato un contributo forse non secondario.

Il Governo non ha tenuto in alcun conto il parere delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato sui licenziamenti collettivi. È una forzatura politica?
Il Governo ha accolto tutti e soltanto i suggerimenti contenuti in quei pareri che erano coerenti con gli intendimenti della riforma, voluti dalle stesse Commissioni in sede di approvazione della legge-delega. Ma questa esclude esplicitamente l’applicazione della reintegrazione nell’area dei “licenziamenti economici”; e nessuno può ragionevolmente sostenere che quelli collettivi non vi rientrino. Su questo punto, dunque, l’accoglimento dei pareri avrebbe comportato la violazione della delega.

Nel testo viene introdotta anche la facoltà di cambio delle mansioni a parità di retribuzione. È uno strumento effettivamente utile per la riorganizzazione delle imprese?
La vecchia norma, che viene ora sostituita, era stata disegnata in un’epoca in cui l’evoluzione delle tecniche applicate era molto più lenta. Conservare quella norma oggi non gioverebbe neanche ai lavoratori, perché con la sua rigidità finirebbe col mettere maggiormente a rischio i loro posti di lavoro.

È stata poi disposta l’esclusione del settore pubblico dal campo di applicazione del nuovo regime che lei aveva invece sempre sostenuto, come sostenuto dal ministro Poletti?
La norma che disponeva questa esclusione, soppressa nel testo del 24 dicembre, non è stata reinserita nel decreto. Credo che questo sia bene; anche se poi nel settore pubblico occorrono norme di governance interna delle amministrazioni che assicurino l’esercizio delle prerogative manageriali e la sua correttezza.

Ci sono state forti tensioni sulla norma sul contratto di ricollocazione. Come giudica il risultato finale?
Considero importantissimo che questo nuovo istituto sia stato introdotto nel nostro ordinamento. Su questo terreno, però, c’è ancora del lavoro da fare, sia sul piano normativo, sia soprattutto su quello dell’implementazione, trattandosi di uno strumento che in Italia ancora non è stato sperimentato e incontra molte resistenze.

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