SE CI SI PONE AL SERVIZIO DELLA COLLETTIVITÀ CON LA POLITICA, E SI VOGLIONO PRODURRE RISULTATI UTILI PER IL PAESE, SI DEVONO ACCETTARE DELLE REGOLE CHE ACCOMUNANO AI COMPAGNI DI STRADA CHE CI SI È SCELTI, ALMENO RIGUARDO AL COMPORTAMENTO NEL VOTO
Intervista a cura di Fabio Savelli, pubblicata sul sito Corriere.it il 17 febbraio 2015
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È il teorico della flexsecurity (intesa come crasi tra flessibilità e sicurezza), è membro della commissione Lavoro al Senato, ha appena deciso di tornare nel Partito Democratico dopo l’esperienza (conclusa) in Scelta Civica. Pietro Ichino, giuslavorista ex sindacalista, docente alla Statale di Milano, risponde al «Corriere della Sera» nei giorni in cui sta per entrare in vigore il Jobs Act, la riforma del lavoro voluta dal governo Renzi. I decreti sono ormai completi e attendono solo il via libera definitivo per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Entro pochi giorni saranno pertanto in vigore non soltanto i nuovi criteri per il licenziamento e il reintegro del personale, ma anche il nuovo contratto a tutele crescenti.
Chiamare la riforma dell’articolo 18 con la formula del “contratto a tutele crescenti” serve anche ad evitare allarmismo tra i lavoratori che temono di perdere il posto?
«Questa espressione è stata coniata in funzione dell’emendamento che introdusse la “premessa” al decreto Poletti del maggio scorso, per preannunciare quello che avrebbe poi costituito il contenuto centrale della legge-delega. Serviva per chiarire sinteticamente che la nuova protezione contro i licenziamenti non sarebbe stata strutturata come lo è ora: tutto (la reintegrazione) o niente; bensì sarebbe consistita in un trattamento di licenziamento e di disoccupazione proporzionato all’anzianità di servizio, quindi all’affidamento reciproco crescente tra datore e prestatore di lavoro. Il passaggio da un sistema centrato su di una regola di job property a uno centrato sul principio della flexsecurity. Oggi la vera sicurezza economica e professionale dei lavoratori non si può più costruire con l’ingessatura del rapporto di lavoro».
Il contratto a tutele crescenti non prevede la formazione del neo-assunto; non crede invece che sia un requisito fondamentale?
«Non tutto ciò che accade o accadrà nella normalità dei casi deve essere previsto espressamente nella legge. Per quel che riguarda la formazione professionale del neo-assunto, una cosa è certa: che dove l’assunzione avviene con un contratto a termine l’impresa non investe in formazione. Non è un caso che l’Italia, avendo una percentuale tra le più alte in Europa di nuove assunzioni in forma di contratto a termine (quasi nove su dieci), abbia anche la percentuale tra le più basse di giovani che ricevono formazione nella fase di primo inserimento nel tessuto produttivo. Se il contratto a tutele crescenti diventerà, come vi è motivo di sperare, la forma normale di assunzione, i contratti si costituiranno con un orizzonte molto più ampio e l’investimento in formazione sui neo-assunti ne conseguirà naturalmente. D’altra parte, imporlo per legge costituirebbe una nuova rigidità indebita: vi sono pur sempre molti casi in cui la formazione non è necessaria e sarebbe pertanto assurdo imporla».
Si assiste a una domanda di stagisti al posto di lavoratori. Perché non abolire gli stage? Non crede che rischino di sostituire regolari rapporti subordinati a termine?
«Tutti dicono che dobbiamo sviluppare anche in Italia l’alternanza scuola-lavoro nell’ultimo anno della scuola media superiore; come si farebbe se lo stage fosse vietato? Ho diretto per dieci anni il Master Europeo in Scienze del Lavoro dell’Università di Milano, appartenente a un network europeo che esige lo stage come fase terminale del percorso formativo. Una delle fatiche organizzative maggiori di quella funzione era proprio il reperimento di buoni stage in azienda per gli studenti. Tutti miei ex-allievi, a distanza di anni, danno un giudizio molto positivo di quell’esperienza. Se fosse stata vietata in Italia, il mio ateneo non avrebbe potuto far parte di quel network europeo. Questo per dire che il problema, non è risolvibile a colpi d’accetta: occorrono regole semplici e incisive che impediscano l’abuso. Nel mio progetto del Codice semplificato del lavoro ho mostrato – all’articolo 2132 dedicato a stage e tirocini – come questa disciplina potrebbe essere strutturata».
Sul lavoro autonomo leggo che nel suo progetto di Codice semplificato lascia identiche le norme del codice civile del 1942, perché non ha pensato di modificarle tenendo conto delle istanze delle partite Iva?
«Nel mio progetto non viene modificata la disciplina fiscale del lavoro autonomo, perché questa non è materia propria del Codice del lavoro. Ma la disciplina civilistica del rapporto viene modificata eccome: con la previsione generale di una protezione appropriata della maternità e del lavoratore autonomo affetto da malattia che costituisca impedimento al lavoro di lunga durata; inoltre con una protezione speciale per i rapporti nei quali si manifestino i tratti caratteristici della dipendenza economica. Alcune associazioni del settore autonomo chiedono l’istituzione di tariffari minimi, ma questi, in primo luogo, sono di difficilissima realizzazione sul piano tecnico; in secondo luogo contrastano con un divieto posto dal diritto europeo e recepito nel nostro ordinamento nazionale, in materia di concorrenza. Giustificatissime, invece, sono le richieste di riduzione del cuneo fiscale e contributivo anche sul reddito di lavoro autonomo, come si sta facendo sul versante di quello subordinato».
Non crede che la collaborazione autonoma possa costituire il futuro del lavoro?
«La teoria di Ronald Coase spiega il modello del lavoro subordinato con il risparmio di costi di transazione che esso consente; finché lo consentirà, si potrà escludere un suo prossimo tramonto. Alla stessa conclusione conduce la teoria di Frank Knight del rapporto di lavoro a stipendio come incontro fra imprenditore propenso al rischio e lavoratore avverso al rischio: questo punto di incontro e di equilibrio tra atteggiamenti complementari verso il rischio sarà sempre necessario».
Ma in Italia il lavoro autonomo sfiora il 30 per cento della forza-lavoro
«Solo in Italia si registra una porzione di forza-lavoro occupata in forma autonoma superiore al venti per cento. In buona parte si tratta solo di una reazione all’eccesso di rigidità della vecchia disciplina del lavoro subordinato».
Si è astenuto dal voto sull’emendamento al parere sul decreto, riferito alla questione dei licenziamenti collettivi, perché diversamente avrebbe dovuto votare come i senatori Pd pur non condividendo l’emendamento.
«Mercoledì scorso, quando si è votato in Commissione Lavoro del Senato il parere sul primo decreto, la Capogruppo PD ha presentato un emendamento alla cui discussione ed elaborazione non avevo partecipato. In proposito ho dichiarato: “Se avessi partecipato alla discussione ed elaborazione di questo emendamento in seno al Gruppo PD, facendo parte del Gruppo stesso, ora lo voterei per disciplina di gruppo, pur nel più netto dissenso. La legge-delega, infatti, esclude recisamente la possibilità della reintegrazione per tutti i ‘licenziamenti economici’; e a me sembra che non possa ragionevolmente dubitarsi che il licenziamento collettivo sia ricompreso in questa nozione. Poiché però ancora non faccio formalmente parte del Gruppo PD pur avendo presentato domanda di farne parte, non ho quindi partecipato a questa discussione, e viceversa mi sono pronunciato pubblicamente in senso contrario nei giorni scorsi, su questo emendamento mi asterrò dal voto.” Mi sembra il comportamento più corretto che potessi tenere in quella particolare circostanza di passaggio».
Questo episodio non la induce a pensare che tornando nel Pd possa perdere la sua libertà intellettuale dovendo seguire la linea ancora controversa del partito di maggioranza sul Jobs Act?
«Certo che no: la mia libertà intellettuale, in caso di dissenso in seno al partito, continuerà a esprimersi – come sempre in passato, pure in seno a Scelta Civica – nella manifestazione piena di tutto quello che penso, se necessario anche in contrasto rispetto alla linea scelta dal partito cui appartengo. Altra cosa è la disciplina di partito e di gruppo nel voto in Parlamento, che impone di accettare le decisioni prese democraticamente insieme ai compagni di strada che ci si è scelti. Non c’è alcuna incoerenza nell’affermare senza riserve le proprie idee e valutazioni, accettando però di conformarsi nel voto alle scelte compiute a maggioranza in seno al gruppo cui si appartiene. Lo stesso, del resto, vale in riferimento alle scelte che si compiono in seno a una maggioranza coesa di governo.
Che cosa intende dire?
«Dal novembre 2011 a oggi, non tutti i voti che ho espresso in Aula o in Commissione in sostegno al Governo corrispondevano esattamente alle mie convinzioni. Non esiste il Governo perfetto, così come non esiste il partito perfetto, né in assoluto né in rapporto a quello che penso io. Chi non accetta questo metodo, coltivi pure la purezza delle proprie idee in casa propria o nella propria attività di studioso, o di opinionista, ma rinunci alla politica. Se ci si pone al servizio della collettività, e si vogliono produrre risultati utili per il Paese, si devono accettare delle regole che accomunano ai propri alleati, almeno riguardo al comportamento nel voto. In questo non c’è alcuna incoerenza, né alcuna rinuncia alla propria libertà di pensiero».