UN LIBRO DIVERTENTE E VERITIERO, CHE SPIEGA MEGLIO DI UN TRATTATO PERCHÉ PER UN OUTSIDER È MEGLIO UN MERCATO DEL LAVORO FLESSIBILE E APERTO COME QUELLO INGLESE PIUTTOSTO CHE UNO RIGIDO COME QUELLO ITALIANO
Brani estratti da Lavorare manca, di Diego Marani (funzionario della UE, inventore della lingua europanto, fusione di varie lingue europee), Bompiani, 2014, € 12, rispettivamente pp. 24-26 e 51-53 – È il racconto autobiografico di come per un ragazzo in Italia il mercato del lavoro si presenti inaccessibile, a differenza di quello apertissimo del Regno Unito .
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Nell’ufficio di collocamento rimasi subito intimorito dal banco. Leggermente curvo in avanti, senza spigoli e appigli, sembrava un invalicabile bastione medievale. Dietro c’era appostato a testa bassa l’impiegato con un grande tabellone pieno di caselle steso sotto i gomiti. No, di lavoro per me non ce n’era. Neanche raccogliere la frutta? No. Con tutta la frutta che c’era? Fino al mare e fino a Ferrara non c’era altro che frutteti: pere, mele, pesche, albicocche, ciliege, e poi fragole, meloni, cocomeri ma nessuno aveva bisogno di me per raccoglierla, neanche un filare rimaneva da staccare, neppure una cassetta di Golden Delicious da caricare sul trattore. Tutto il lavoro era prenotato, la frutta che vedevo pendere dagli alberi in giro per la campagna era come se fosse già stata raccolta, stipata, imballata e immagazzinata nel frigo. La maestra non me l’aveva raccontata così.
L’impiegato pelato faceva pendere la matita sul tabellone e la lasciava cadere mirando alle caselle vuote. “Devi andare a chiedere a qualcuno…” mi diceva scuotendo la testa. Lo sapevo chi era quel qualcuno. Uno di quei signori con il cappello che venivano al bar solo di pomeriggio. Appoggiavano i cappelli tutti uguali sulla cappelliera e si mettevano a giocare a carte. Io ogni volta mi stupivo che poi, andandosene, ritrovassero sempre il loro senza mai sbagliare. Erano i capi dei partiti, tutti uguali come i loro cappelli. Ero ancora un ragazzo ma avevo già capito che anche io avrei dovuto cominciare ad avere il mio, di partito. […] Ma non sapevo quale scegliere dei quattro cappelli e dei loro proprietari. E comunque ridevano tutti allo stesso modo quando al bar mi avvicinavo al loro tavolo mentre giocavano a tresette per chiedere se potevo lavorare. E se insistevo dicevano che ero uno studente e che non potevo. […] No, bisognava trovare un’altra strada.
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L’estate dopo il Butlin’s Holiday Centre [dove l’A. era riuscito l’anno precedente a farsi prendere come garzone durante le vacanze estive – n.d.r.] eravamo daccapo. L’ufficio di collocamento era sempre deserto, i quattro cappelli in fila sulla cappelliera del bar e non si trovava un posto dove raccogliere la frutta neanche a pagarlo. Forse a pagarlo sì, ma bisognava ancora sapere bene chi pagare. E io avevo assolutamente bisogno di denaro per i miei soggiorni di studio all’estero, perché per imparare bene la lingua dovevo restare a lungo e con quello che poteva darmi papà mi sarei potuto permettere al massimo un paio di settimane. Così tornai a Londra, dove potevo unire le due cose cercando di nuovo un lavoro con cui avrei potuto mantenermi per qualche mese e magari pagarmi anche un corso di lingua. Ma questa volta non avevo risposto ad annunci, non avevo nessun contratto, solo il foglio di fine impiego del Butlin’s ed ero un po’ preoccupato di non riuscire a trovare nulla. Amici inglesi mi avevano detto che in Inghilterra c’erano i Job Centres, che erano i loro uffici di collocamento e che bastava chiedere lì. Spinsi la porta del primo che incontrai con grande reticenza ricordando l’impiegato pelato del paese. Una signorina gentile mi chiese che lavoro cercavo e che esperienza avevo. Risposi che volevo fare il cameriere, che ero stato “kitchen assistant” al Butlin’s Holiday Centre di Clacton-on-Sea e gli allungai il foglio stropicciato con il timbro azzurro dell’ultima paga. Lei controllò, annuì, scorse uno schedario e mi disse che avevo un posto di “porter” in un pub lì vicino. Non sapevo cosa fosse un “porter”, ma non poteva essere peggio di un “kitchen assistant”, così accettai. Fu così che divenni facchino a The Cittie of Yorke di High Holborn, un antico pub del XVII secolo che poteva vantare il più lungo banco di tutta Londra e dietro il quale corsi per tre mesi a far rotolare barili di birra, a riempire pinte, a lustrare ottoni e a lavare bicchieri.
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