LICENZIAMENTO DISCIPLINARE: IL SENSO DELLA RIFORMA

ORA L’INDENNIZZO È IL RIMEDIO GENERALE PER IL LICENZIAMENTO CHE IL DATORE NON RIESCE A GIUSTIFICARE – LA REINTEGRAZIONE COLPISCE INVECE UN ILLECITO GRAVE E SPECIFICO: LA DISCRIMINAZIONE, OPPURE LA CONTESTAZIONE DI UN FATTO INESISTENTE: SOLO QUI L’ONERE DELLA PROVA SI INVERTE

Lettera pervenuta il 27 gennaio 2015 – Segue la mia risposta.

Caro professore, ho seguito con grande partecipazione tutte le fasi della battaglia per la riforma del lavoro e in particolare per l’istituzione del nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Approvo tutto e saluto con soddisfazione anche la prima legge in materia di lavoro scritta bene, da un quarto di secolo a questa parte: finalmente un testo chiaro, senza oscurità frutto di compromessi politici irrisolti. Capisco anche che in sede di legge-delega abbiate dovuto accettare il compromesso con Damiano-Bersani e Co. sulla reintegrazione in alcuni casi specifici di licenziamento disciplinare. Ma la soluzione che avete trovato per dare attuazione alla delega su questo punto mi sembra tecnicamente sbagliata: non mi convince l’idea che l’onere della prova per ottenere la reintegrazione venga sostanzialmente accollato al lavoratore, col fatto di esigere la “diretta dimostrazione dell’insussistenxa del fatto materiale contestato”. Non per altro, ma perché vedo il rischio che su questo punto fiocchino le questioni di costituzionalità sollevate dai giudici del lavoro, con sospensione del giudizio e reintegrazione del lavoratore in via cautelare: col che il risultato della riforma su questo punto si ridurrebbe a un buco nell’acqua. Su questo punto particolare non ho letto, però, una sua valutazione critica. Mi interessa molto sapere che cosa ne pensa per davvero, anche e soprattutto se il suo pensiero sul punto è divergente dal mio. Cordialmente
Sergio Nistri (Napoli)

1. La reintegrazione come sanzione disciplinare inflitta al datore di lavoro – Mettiamola così: nel nuovo ordinamento la reintegrazione costituisce la sanzione disciplinare che viene inflitta al datore di lavoro per due e due sole sue mancanze gravi: aver licenziato una persona per motivi discriminatori (articolo 2 del decreto) e averla accusata di un fatto mai accaduto (articolo 3, comma 2). Il legislatore per un verso non considera più il singolo posto di lavoro come oggetto di un diritto della persona che lo occupa, per altro verso non ritiene particolarmente desiderabile, per il lavoratore, essere reintegrato in un’azienda dove è malvoluto. Insomma, la funzione della reintegrazione nel nuovo sistema non è più tanto quella del rimedio contrattuale previsto a vantaggio della persona che lavora (il cui interesse alla sicurezza economica e professionale è tutelato nel mercato e non più nel contratto), quanto piuttosto un deterrente di natura punitiva contro due comportamenti del datore specificamente vietati: a) discriminazione, b) contestazione di un fatto mai accaduto. Questa essendo la ratio della disposizione, si capisce che la sanzione della reintegrazione si applichi solo là dove il fondamento dell’accusa (quella mossa al datore) risulti compiutamente provato; e che l’onere della prova in proposito gravi sulla parte che muove l’accusa, cioè in questo caso il lavoratore.

2. Dove invece l’onere della prova grava sul datore di lavoro – Tutt’altro discorso è quello relativo alla questione ordinaria della giustificazione del provvedimento disciplinare che il datore di lavoro ha irrogato al dipendente: qui la nuova regola generale per il difetto di giustificazione – in materia di licenziamenti disciplinari come di licenziamenti per motivo oggettivo – prevede soltanto la sanzione indennitaria. Il nostro ordinamento al pari di altri – come quello francese, quello inglese o quello spagnolo – non attribuisce più alla persona che lavora quella posizione che finora le è stata assegnata come regola generale e che abbiamo indicato sinteticamente come job property, perché il nuovo sistema protettivo è fondato – come nella quasi totalità degli altri ordinamenti nazionali – su di una liability rule. La protezione dell’interesse della persona alla continuità del reddito e dell’esercizio della propria professionalità non è più costruita su (e collocata dentro) il singolo contratto, anche perché non si vuole che essa sia destinata a seguirne le sorti perinde ac cadaver; essa è invece ora per la maggior parte riferita alla posizione della persona nel mercato del lavoro e quindi imperniata su di una assicurazione universale per il sostegno del reddito della persona che è in cerca di una nuova occupazione, finalmente allineato agli standard del centro e nord-Europa, nonché sul contratto di ricollocazione come strumento come aiuto efficace a ritrovare il lavoro. Il principio generale che pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova circa la mancanza contestata resta in vigore, applicandosi nell’ambito del nuovo sistema che limita la sanzione ordinaria per il licenziamento ingiustificato a un indennizzo: se il datore di lavoro non è in grado di provare la contestazione, l’indennizzo è dovuto. Con questo anche qui viene rispettato lo schema tradizionale, mutuato dal processo penale, secondo il quale l’onere della prova grava sull’accusa.

3. Perché la reintegrazione non può essere disposta quando il lavoratore viene assolto per insufficienza di prove – In altre parole, la reintegrazione prevista dal comma 2 dell’articolo 3 è un di più a carattere dichiaratamente eccezionale (rispetto al rimedio generale contro il licenziamento ingiustificato) che scatta nel caso particolare in cui sia direttamente dimostrata la discriminazione, oppure l’insussistenza del fatto materiale contestato. La sua funzione è essenzialmente quella di deterrente contro un vero e proprio grave abuso del potere disciplinare da parte del datore, che è cosa ben diversa dal suo esercizio ritenuto dal giudice insufficientemente motivato, o irregolare per vizio procedimentale. Per altro verso, va apprezzata la ragion d’essere della norma che esclude la reintegrazione quando l’assoluzione del lavoratore venga decisa soltanto per insufficienza di prove: si pensi al caso, assai frequente, nel quale il giudice ritiene che ci siano, sì, notevoli indizi della colpevolezza del lavoratore, ma che sussista pur sempre un ragionevole dubbio in proposito: il lavoratore verrà dunque assolto dalla contestazione e indennizzato (poiché questo è il solo diritto che la liability rule gli attribuisce all’interno del rapporto contrattuale, nel caso di recesso del datore); ma il lavoratore stesso non verrà reintegrato, perché è pur sempre persona sulla quale grava qualche indizio di colpevolezza. L’ordinamento, dunque, riconosce al lavoratore il diritto all’indennizzo per effetto della mancata prova circa il fondamento della contestazione, ma per altro verso non impone all’imprenditore di reintegrare in azienda una persona della quale, in presenza di indizi di colpevolezza, non è provata l’innocenza: nella quale dunque l’impresa non può più riporre il proprio pieno affidamento (v. in proposito la mia nota dell’ottobre scorso Il ragionevole dubbio sulla colpa e la ragionevole sfiducia che ne consegue).

4. L’irrilevanza della sproporzione tra mancanza e sanzione, ai fini della reintegrazione – Il comma 2 dell’articolo 3 prosegue stabilendo che, affinché possa applicarsi la reintegrazione, non basta la sproporzione ritenuta dal giudice tra il fatto contestato e la massima sanzione disciplinare. Vediamo il perché di questa regola ulteriore. L’idea è che se un inadempimento comunque è stato commesso dalla persona interessata, questa ha in qualche modo contribuito al guastarsi del rapporto di collaborazione: le si assegnerà dunque l’indennizzo, corrispondente alla responsabilità contrattuale gravante sul datore, perché il licenziamento non era motivato adeguatamente; ma non la reintegrazione. La reazione punitiva sproporzionata costituisce esercizio irregolare del potere disciplinare, cui consegue l’applicazione della regola generale dell’indennizzo. La reintegrazione, invece, nel nuovo ordinamento non colpisce più il mero difetto di giustificatezza di un licenziamento il cui intendimento era pur sempre in sé legittimo, bensì punisce (soltanto) qualcosa di qualitativamente diverso e più grave: l’abuso del potere disciplinare, ovvero il comportamento intrinsecamente riprovevole del datore di lavoro, il quale irroghi la massima sanzione a fini discriminatori, o comunque contesti al lavoratore un fatto che non è proprio storicamente esistito. Qui l’imputato è il datore di lavoro: logica vuole dunque che qui l’onere della prova – sempre secondo i principi generali – gravi su chi di questo lo accusa.  (p.i.)

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