UNA CONFUTAZIONE CONVINCENTE DELL’IDEA, DIFFUSA QUANTO INFONDATA, CHE DAL PUNTO DI VISTA DELLA DEMOCRAZIA LA RAPPRESENTANZA FOTOGRAFICAMENTE PROPORZIONALE SIA IL BENE, MENTRE OGNI PREMIO MAGGIORITARIO CHE SE NE DISCOSTI SAREBBE UN MALE
Intervento del senatore Alessandro Maran nella seduta antimeridiana del Senato dell’8 gennaio 2015, in sede di discussione generale del disegno di legge contenente la riforma elettorale.
Signor Presidente, colleghi, in molti, nel corso della discussione, e anche alcuni dei costituzionalisti che abbiamo sentito in Commissione nel corso delle audizioni, si sono esercitati in ricostruzioni storiche e hanno indicato preferenze politiche ovviamente opinabili. Trovo, ad esempio, discutibile ritenere che, come è stato detto da uno degli auditi, l’adattamento del nostro sistema produttivo ai mutamenti strutturali del mercato, il passaggio dalla produzione dei beni all’economia dei servizi, alla società dell’informazione, all’economia della conoscenza, debba avvenire preferibilmente con un sistema elettorale proporzionale. Si tratta di una preferenza contestabile, che tuttavia – come la tendenza ossessiva a invocare (o minacciare) sempre nuove ragioni di potenziale incostituzionalità – ha una premessa, un punto di partenza, un sottinteso. Il presupposto, la premessa, è che il premio è il male, la rappresentanza fotografica è il bene perché democrazia uguale proporzionale. Più il proporzionale è puro, si dice, più la democrazia è reale. Anzi, la democrazia è possibile solo col sistema proporzionale.
Torno, perciò, a più di 25 anni di distanza dal crollo del Muro di Berlino e dal collasso del vecchio sistema politico, su un nodo irrisolto. Oggi il bipolarismo, il maggioritario, la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo), sono diventati, nella narrazione che ha preso piede, il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altri terribili catastrofi. Ma dal crollo della Prima Repubblica, consentire ai cittadini di scegliere con voto un leader e una maggioranza, è stato la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. Sono passati 22 anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del 1993: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? E dal 1993 ci siamo abituati ad eleggere direttamente i sindaci e i presidenti di provincia, e (poi) di Regione. Per tacere del fatto che, pochi mesi fa, alle elezioni europee, abbiamo simulato l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea, indicando per ogni partito un candidato alla poltrona di Presidente.
Il guaio è che, da allora, la competizione bipolare è stata costantemente ipotecata dalla persistenza del precedente sistema istituzionale e da una struttura incoerente e frammentata delle due principali coalizioni. Ma, da allora, la nostra Repubblica non è più quella di prima, è già cambiata, e oggi risulta incompiuta, a metà. E il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale, quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di Stato. E’ da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Va da sè che con questo rivestimento istituzionale l’Italia, prima o poi, sbatterà la testa contro il muro. Anche perché, come ha spiegato il prof. Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale». Infatti, spiega Sartori, «le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». E come abbiamo visto in questi vent’anni, «un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo». Non per caso, Sartori ritiene che «in questi casi la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto». Poiché «le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo».
Il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma, che quella particolare, specifica forma della partecipazione alla politica e quel sistema politico, quel particolare sistema politico, siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza. Ma questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Forse dovremmo guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni a tutti i paesi avanzati: dalla struttura economica all’eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all’individualizzazione dei valori. In tutte le società industriali avanzate, le condizioni di prosperità economica raggiunte hanno modificato i nostri valori. Ora, rispetto alle generazioni del periodo postbellico, l’auto-espressione, la qualità della vita, la scelta individuale sono diventate centrali. E questa nuova visione del mondo si accompagna a una de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità. Insomma, invece di essere diretti dalle élite, tutti s’impegnano in attività dirette a sfidare le élite. E bisognerà farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato. Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese.
Detto questo, ognuno ha ovviamente in testa il suo sistema elettorale, come ciascuno di noi ha in testa la sua formazione della Nazionale. Io avrei preferito fare come in Francia: doppio turno di collegio ed elezione diretta del presidente. Personalmente, nutro una convinta preferenza per il semi-presidenzialismo francese perché le sue regole e le sue istituzioni contribuiscono in maniera molto significativa alla ristrutturazione dei partiti e delle loro modalità di competizione, alla eventuale formazione delle coalizioni di governo, a dare potere ai cittadini elettori. In Francia la ristrutturazione dei partiti, basti pensare all’UMP, ha avuto come principale volano la competizione per la presidenza della Repubblica. E i partiti sono sopravvissuti. E, ricordo, che la possibilità di arrivare a un accordo accettabile, tra la primavera e l’estate del 2012, ci sarebbe stata. Il PdL aveva offerto al PD un patto istituzionale vantaggioso: una legge elettorale alla francese in cambio del semi-presidenzialismo alla francese. E alcuni di noi, anche allora, provarono a dire che il cambiamento si imponeva. Poi le cose sono andate come sono andate.
Ma ora non possiamo tornare indietro riaprendo la discussione sul miglior sistema ipotizzabile, in astratto, per l’Italia. L’Italicum è già passato alla Camera. Dunque, dobbiamo andare avanti con quel che c’è, cercando di migliorare il testo. E prima si fa e meglio è. Anche perché, col passare del tempo (dopo, appunto, più di vent’anni), alcuni problemi si sono aggravati e richiedono soluzioni più forti mentre allora, a malattia ancora non così incancrenita, sarebbero bastati rimedi ben più modesti. Mi spiego: forse negli anni Ottanta, quando c’erano i vecchi partiti (e una società diversa), sarebbe bastato introdurre una soglia di sbarramento e la fiducia costruttiva, ora non basta più. Va detto anche che, per un altro verso, alcuni passi in avanti sono stati compiuti, come la stabilizzazione dei sistemi elettorali e delle forme di governo dei livelli sub-nazionali: le regioni, i comuni. Resta il fatto che la transizione è ancora incompiuta, perché contraddittoria sia sul piano della forma di governo nazionale, sia su quello del rapporto centro-periferia. Senza contare che mentre il Governo è un protagonista decisivo nel favorire le riforme (senza il suo protagonismo, i veti finirebbero per prevalere come è accaduto finora), esso deve agire come se già ora possedesse quella forza e quella coerenza che a regime gli saranno dati solo dalle nuove regole.
Poste queste premesse, riassumo. Lo scopo della riforma costituzionale è quello superamento del bicameralismo perfetto, che comporta la perdita del potere fiduciario e del voto paritario sulle leggi da parte del Senato e la responsabilizzazione in esso dei legislatori regionali per disinflazionare la Corte del conflitto centro-periferia. Lo scopo della riforma elettorale è duplice: quello di individuare un chiaro vincitore che ci preservi dalle grandi coalizioni permanenti (favorite dalla frammentazione e dall’insorgere di vari populismi) e quello di riavvicinare eletti ed elettori, rispettando i paletti della sentenza della Corte.
Le audizioni dei costituzionalisti in Commissione sono state utilissime. Ci hanno dato spunti utili per evitare errori, ma non vanno prese per sentenze anticipate. Anche perché le opinioni dei costituzionalisti spesso divergono tra di loro. I paletti dentro ai quali possiamo scegliere restano dunque ampi. Dopo la sentenza 1/2014, l’andazzo è quello di accusare tutto ciò che non si condivide di incostituzionalità. Ma quella sentenza, a ben vedere, ha solo chiesto una soglia minima per il premio e che le liste bloccate non siano lunghe. Si possono ovviamente prospettare altre conseguenze, ma sono ricostruzioni personali, non stanno dentro la sentenza. Basterebbe ricordare che le leggi elettorali per Camera e Senato sono nate divaricate alla Costituente. Rilevo inoltre che con due schede diverse per Camera e Senato, anche con due sistemi identici, persino se i diciottenni votassero anche al Senato, la governabilità non può essere garantita per principio. Gli elettori potrebbero separare i voti. Il che finirebbe col travolgere qualsiasi correzione alla proporzionale. Si finirebbe insomma per costituzionalizzare di fatto la proporzionale, scelta che non è stata fatta alla Costituente. Può essere una posizione culturale, ma è non un obbligo per il legislatore, dato peraltro che il referendum del 1993 ha fatto un’altra scelta in senso diametralmente opposto. In realtà il premio alla sola Camera non assicura la governabilità ma la incentiva comunque in modo decisivo: il vincente alla Camera sarebbe comunque inaggirabile, sarebbe comunque il perno del Governo. E questo da solo legittima la disproporzionalità. Per questa ragione, ritengo che il Senato possa tranquillamente approvare l’Italicum col premio alla sola Camera.
I sistemi elettoralivanno valutati, del resto, in relazione agli obiettivi che ci si prefigge. Resto dell’opinione che l’obiettivo di un sistema bipolare sia l’unico in grado di dare vita ad un governo legittimato dal corpo elettorale, evitando l’ingovernabilità o il ricorso a grandi coalizioni non omogenee. Alla luce di questo obiettivo trovo, nel complesso, positivo il testo approvato alla Camera che prevede l’assegnazione di un premio di maggioranza fin dal primo turno e l’eventuale ballottaggio a livello nazionale nel caso di mancato conseguimento del premio. Ci sono nel testo della Camera alcuni punti critici. Trovo perciò convincente la proposta del relatore Finocchiaro di prevedere il premio a favore non di una coalizione di liste ma a favore della lista vincitrice. Sarebbe inoltre preferibile una soglia più alta per il conseguimento del premio e cioè far scattare il secondo turno solo se nessuna forza politica sia riuscita a raggiungere almeno il 40% dei voti, rendendo così meno eventuale il passaggio al secondo turno di ballottaggio. Condivido inoltre la proposta della presidente Finocchiaro di introdurre una unica e ragionevole soglia di esclusione. Spetta al premio assicurare la governabilità e, perciò, non è necessario escludere la presenza in parlamento di forze minori. Su tutte queste questioni abbiamo presentato degli emendamenti. Infine, per quel che riguarda la scelta dei candidati, dico subito che avrei preferito il ritorno ai collegi uninominali. Non mi persuade il ritorno al voto di preferenza. Le preferenze hanno dato cattiva prova, basta vedere le elezioni regionali e i collegi esteri. Oltretutto, il voto di preferenza richiede disponibilità di risorse finanziarie ingenti, produce frantumazione correntizia all’interno dei partiti e accresce il peso degli interessi. E dopo l’abolizione del finanziamento pubblico la restaurazione del voto di preferenza potrebbe rivelarsi perfino criminogena. Non per caso è un sistema abbandonato da tempo in tutti i paesi avanzati. L’ipotesi del relatore dei capilista bloccati e per il resto ricorso al voto di preferenza può rappresentare una mediazione utile, sia pure non entusiasmante. Concludo. Non c’è, nella proposta in discussione, l’elezione diretta che richiederebbe una revisione costituzionale, ma con il ballottaggio tra le due coalizioni o fra due partiti, il leader è destinato ad avere una legittimazione diretta da parte del corpo elettorale. Compito dei sistemi elettorali in un sistema parlamentare non è solo quello di rappresentare ma anche quello di esprimere un governo. La rappresentanza non è fine a se stessa ma è in funzione della legittimazione a legiferare e a concorrere al governo. Da qui l’importanza dei sistemi a doppio turno perché consentono all’elettore di scegliere direttamente chi è legittimato a governare.
Il mio gruppo, non per caso, si è dichiarato contrario all’introduzione di una clausola di salvaguardia per mettere a sistema la normativa derivante dalla sentenza. In primo luogo per una ragione di natura costituzionale. Trovo ci sia un eccesso di zelo. La Corte non ha invitato il Parlamento ad agire. La Corte non ha scritto niente del genere, al di là dei pareri di insigni costituzionalisti. Senza contare che il presupposto della sentenza della Corte, la sua legittimità, sta nella sua immediata applicabilità. La norma infatti, anche a seguito del giudizio di costituzionalità, è stata ritenuta dalla stessa Corte idonea a garantire il rinnovo degli organi costituzionali. Se poi dovesse servire intervenire per stabilire dove mettere la riga su cui scrivere la preferenza, può farlo il governo. Anche perché l’eventuale decreto non interviene in materia elettorale, non interviene sulla formula elettorale, ma unicamente su elementi meramente tecnici e applicativi, per dirla con le parole della sentenza.
In secondo luogo, per una ragione politica. Perfezionare la subordinata significa votare con la subordinata. Resto dell’opinione che il ritorno al sistema proporzionale non sia desiderabile. Resto dell’opinione che compito dei sistemi elettorali in un sistema parlamentare non sia, come dicevo, solo quello di rappresentare ma anche quello di esprimere un governo. Altra questione è quella di mantenere un rapporto con la riforma costituzionale per cui è ragionevole prevedere una data successiva al suo compimento per l’entrata in vigore della legge elettorale – ne ha parlato ieri anche il governo. Il che si può fare agevolmente con un emendamento.
E sarebbe auspicabile che la discussione sulle formule elettorali tornasse a basarsi sul confronto fra ragioni di politica istituzionale e non su una specie di gara a chi la spara più grossa in termini di legittimità costituzionale. Sta infatti al Parlamento soppesare le istanze che vengono dalla società e individuare equilibri fra opzioni parimente legittime assumendosene la responsabilità, appunto, politica.