Improvvisamente, nel giro di soli quindici giorni, il tabù dell’articolo 18 è crollato. Ne ha fornito una sorta di cronaca minuto per minuto il Riformista, a partire dal 1° maggio, con una serie impressionante di interviste e articoli di dirigenti nazionali dei sindacati maggiori, che, pur con diverse sfumature, hanno preso posizione a favore della sostituzione del vecchio modello di rapporto di lavoro con il “contratto a stabilità crescente” per tutti i nuovi assunti e nuove protezioni nel mercato per chi perde il posto.
Qualche avvisaglia del crollo imminente si era avuta già a marzo, con un articolo di Giorgio Santini (numero due della Cisl) e una presa di posizione pubblica molto netta del segretario della Uil Luigi Angeletti, in concomitanza con la presentazione in Parlamento di un disegno di legge sulla “transizione a un regime di flexsecurity”, firmato da 35 senatori dell’opposizione. Ma il vero e proprio crollo del tabù avviene ai primi di maggio, quando nel dibattito intervengono anche i dirigenti di vertice della Cgil: apre le danze Paolo Nerozzi (senatore Pd di provenienza Cgil) con un’opzione a favore della proposta di Tito Boeri e Pietro Garibaldi: ingresso al lavoro per tutti con un contratto a tempo indeterminato, con un periodo di prova di sei mesi, seguito da due anni e mezzo nei quali la protezione contro il licenziamento è data soltanto da un indennizzo in denaro; poi, dal quarto anno, la “stabilità reale” garantita dall’articolo 18. Il 6 maggio esprime un’opzione simile Carlo Podda (segretario della Funzione pubblica Cgil). A ruota, altri esponenti sindacali di primo piano si pronunciano per una riforma più incisiva, che punti a superare l’apartheid tra protetti e non protetti nel mercato del lavoro coniugando la maggiore flessibilità del rapporto con l’introduzione di un nuovo sistema di sostegno del reddito e assistenza al lavoratore nel passaggio da un lavoro a un altro: tra i vertici della Cgil Nicoletta Rocchi, Fausto Durante, Mauro Guzzonato e Bruno Pierozzi, cui si aggiungono le voci di due “grandi vecchi” della Cisl ora in Parlamento, Franco Marini e Pierpaolo Baretta.
Il sindacato sembra dunque voler scrollarsi di dosso l’immagine di forza conservatrice e assumere un ruolo di avanguardia. Se lo farà davvero, il sistema delle relazioni industriali potrà riprendere la guida del governo del mondo del lavoro, della quale si è lasciato da troppo tempo espropriare: un “avviso comune” dei rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori al legislatore sui modi della transizione a un regime di flexsecurity potrebbe costituire la base per un dialogo fruttuoso in Parlamento fra opposizione e maggioranza. Per il Paese questo sarebbe il migliore viatico per la fase di uscita dalla crisi.