SE IL FEMORE SBAGLIA IL GIORNO IN CUI FRATTURARSI

TRA NATALE E CAPODANNO I TRENI E GLI AEREI VANNO, I RISTORANTI E I CINEMA SONO APERTI, MA UN GRANDE CENTRO ORTOPEDICO CHIUDE PER CINQUE GIORNI LE SALE OPERATORIE, ESPONENDO GLI SFORTUNATI CHE HANNO UNA FRATTURA GRAVE IN QUEI GIORNI A UNA SOFFERENZA AGGIUNTIVA

Lettera sul lavoro pubblicata dal Corriere della Sera il 3 gennaio 2014.

24 dicembre 2014 – Una banale caduta in casa, un dolore all’anca sempre più acuto. Il signor Bianchi si fa portare al pronto soccorso del maggiore ospedale ortopedico della città. Una solerte infermiera lo invita a non lamentarsi troppo: “se fosse una frattura del femore, il piede sarebbe storto”; e così dicendo mostra direttamente come dovrebbe essere storto il piede, facendo impazzire dal dolore il titolare. La radiografia smentisce l’infermiera: frattura del collo del femore. Occorre un intervento chirurgico: ricovero immediato.

“Ma – avverte subito il medico di guardia rivolto all’infortunato – lei ha scelto il giorno sbagliato per rompersi il femore: domani è Natale, poi c’è Santo Stefano, poi c’è il sabato e domenica, insomma l’operazione si può fare solo lunedì 29. Però non si preoccupi: la sua non è di quelle fratture per le quali occorra proprio intervenire entro quarantott’ore, altrimenti apriremmo la sala operatoria anche di Natale. La sua non è un’urgenza e l’intervento può senz’altro attendere cinque giorni”. E il sig. Bianchi viene sistemato nel suo letto, con la prospettiva di restare lì in attesa per tutto il lungo ponte.

“Non sarà un’urgenza – dice il paziente all’infermiera che lo assiste in reparto, a notte inoltrata -, ma a me la gamba fa molto, molto male. E questo Toradol che mi avete iniettato mi sembra acqua fresca”.

“Eh, il primo giorno le fratture del femore fanno sempre molto male – risponde lei, pur gentile e premurosa – bisogna avere pazienza. A me è stata data solo questa prescrizione per il dolore, non posso proprio darle nient’altro”.

“Allora, per favore, chiami il medico di guardia, che mi prescriva qualche cosa di più efficace. Io così non resisto”.

“Lo chiamo subito, vediamo se può darle la morfina. Però guardi che non potrà venire molto presto, perché è la notte di Natale ed è solo”.

Passano le ore, viene ripetuta la flebo di Toradol, il sig. Bianchi si macera nel suo dolore insopportabile. E alle prime luci dell’alba decide che altri quattro giorni così non è il caso di passarli. Neppure se il dolore dovesse ridursi un po’: aspettare non ha senso. Cerca un amico medico e gli chiede di aiutarlo a trovare altrove un’équipe chirurgica disposta a operarlo e una sala operatoria aperta nonostante il ponte.

La vicenda – integralmente vera, anche nei dettagli – è molto significativa di come il dolore fisico dei pazienti viene comunemente considerato nei nostri ospedali. Irrilevante lo considera l’infermiera del pronto soccorso, compiendo senza alcuna necessità la “manovra diagnostica” che abbiamo visto. Irrilevante lo considera l’organizzazione sanitaria del grande istituto ortopedico, il cui protocollo non contempla, nell’attesa dell’intervento chirurgico, una terapia del dolore adeguata. Ma – e questo è l’aspetto più sconcertante dell’intera vicenda – irrilevante è considerato il dolore di una persona anche dal collettivo dei dirigenti, medici, paramedici e loro rappresentanti quando stabiliscono che nel grande istituto ortopedico tra Natale e Capodanno, se non è proprio in gioco la vita del paziente, le sale operatorie devono rimanere chiuse per cinque giorni di fila. Nel grande istituto che è teatro di questo racconto arrivano da ogni parte d’Italia circa mille fratture di femore all’anno: mediamente tre al giorno. Oltre al signor Bianchi c’è dunque presumibilmente un’altra decina di persone, femore più femore meno, che hanno “sbagliato giorno” per infortunarsi. Non sono considerate “un’urgenza”: se non hanno la possibilità di andare a farsi curare altrove, stiano pure lì a macerarsi nella loro sofferenza per due o tre giorni in più; non si muore per così poco.

Quest’ultimo è – a ben vedere – il risvolto più grave della vicenda. Perché nei giorni tra Natale e Capodanno i treni e gli aerei vanno ininterrottamente, i ristoranti servono pasti, sono aperti i cinema e le sale da concerto. Dunque si ritiene che far godere le feste alla generalità delle persone sia “un’urgenza” sufficiente per giustificare il sacrificio delle feste stesse per alcune di esse. Non è invece considerata “un’urgenza” di pari rango l’esigenza di togliere una persona dall’alternativa tra un dolore lancinante e continuo e la morfina che sospende la vita di dodici ore in dodici ore. Per lo meno, non la considerano tale gli estensori dei regolamenti e contratti che regolano il lavoro nell’istituto ortopedico metropolitano d’eccellenza.

Una cosa è certa: l’eccellenza sanitaria dovrebbe misurarsi non solo sul successo nel procurare la guarigione, ma anche sui tempi e modi in cui ci si prende cura del puro e semplice dolore del malato.

 

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