DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI E ASSUNZIONE PER CONCORSO, GARANZIA DELL’IMPARZIALITÀ DELL’IMPIEGATO PUBBLICO (CHE PERÒ HA SCARSI RAPPORTI CON L’INAMOVIBILITÀ) E GARANZIA DI CONTENDIBILITÀ DELLA FUNZIONE
Risposte sulle questioni maggiormente dibattute nelle ultime ore sul web, 29 dicembre 2014 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico Jobs Act nella p.a.: come è andata nel CdM del 24 dicembre (e come andrà).
È vero che la regola dell’accesso all’impiego pubblico per concorso è incompatibile con un sistema di protezione soltanto obbligatoria, cioè di carattere indennitario, e non “reale” (come quella assicurata dall’articolo 18)?
No. Il sistema di assunzione mediante concorso è perfettamente compatibile sia con un regime di marcata stabilità, sia con un regime di protezione della continuità del rapporto meno rigido, sia persino con forme di vera e propria precarietà. Prova ne sia che:
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un posto di lavoro a termine;
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un lavoro a tempo indeterminato la cui fase iniziale, anche particolarmente lunga, sia in prova: con possibilità, dunque di facile licenziamento;
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un rapporto di lavoro suscettibile di scioglimento per soppressione del posto, o per riduzione degli organici (questo è previsto, per esempio, nell’artivolo 33 del nostro Testo unico per l’impiego pubblico);
– si può accedere per concorso, in Italia come in altri Paesi, a un rapporto di lavoro dirigenziale suscettibile di scioglimento per mancato raggiungimento degli obiettivi (questo è previsto, per esempio, nell’articolo 21 del nostro Testo unico per l’impiego pubblico).
E in ciascuno di questi casi il legislatore gode di una amplissima discrezionalità nel determinare la sanzione che colpisce il licenziamento irregolare o addirittura illegittimo.
In questo modo non c’è il rischio che vengano limitate indebitamente l’indipendenza e l’imparzialità dell’impiegato pubblico nell’esercizio della sua funzione?
Veramente, l’impiegato pubblico non opera in posizione di indipendenza, bensì in posizione di subordinazione rispetto ai suoi superiori gerarchici (è quanto meno singolare la tesi espressa da Filippo Taddei in un’intervista al Corriere di ieri, secondo la quale la struttura delle amministrazioni pubbliche non sarebbe “gerarchica, come nelle aziende che devono massimizzare il profitto”). L’impiegato pubblico è, certo, tenuto all’imparzialità nello svolgimento della propria funzione; ma non esistono né un nesso stretto tra indipendenza e imparzialità sul piano fattuale, néun vincolo costituzionale circa il modo in cui il legislatore può assicurare questa imparzialità. In particolare, nulla vieta che l’imparzialità, e più in generale la correttezza, nell’esercizio della facoltà di un’amministrazione di licenziare un proprio dipendente vengano perseguite mediante regole di controllo interno all’amministrazione stessa invece che (o insieme a) regole di controllo esterno, giurisdizionale. Né esistono vincoli costituzionali circa l’apparato sanzionatorio che assiste le suddette regole. In ogni caso è tutto da dimostrare che l’imparzialità e correttezza nello svolgimento da parte dell’impiegato pubblico della sua funzione siano garantite meglio dalla sua inamovibilità che da un regime di minore protezione della stabilità e/o di più intenso controllo sullo svolgimento della prestazione, di natura gerarchica o di altro genere.
Ma la Corte costituzionale, con la sentenza n. 146/2008, ha sottolineato le peculiarità dell’impiego pubblico rispetto alla generalità dei rapporti di lavoro.
La sentenza citata della Consulta dice solo che la differenziazione di trattamento prevista da una vecchia norma del 1977 per gli impiegati pubblici rispetto ai privati (nel caso specifico in materia di maggiorazione retributiva per il lavoro festivo) non è necessariamente travolta dal Testo unico del 2001, se conserva una sua giustificazione costituzionalmente accettabile in relazione alle specificità del settore. Non dice affatto che sia vietato ridurre l’inamovibilità dei dipendenti pubblici, o parificare la disciplina del loro possibile licenziamento rispetto a quella vigente nel settore privato: altrimenti la Corte avrebbe dovuto dichiarare incostituzionale l’articolo 2, comma 2 del Testo unico del 2001 (c.d. riforma Bassanini: v. infra).
L’interesse pubblico al buon funzionamento delle amministrazioni non è protetto meglio dall’inamovibilità dell’impiegato o funzionario pubblico, come nel caso della magistratura?
Nel caso della magistratura la Costituzione stabilisce una particolare garanzia di indipendenza dal Governo, imperniata sull’autogoverno della stessa mediante un organo a ciò preposto, il Consiglio Superiore della Magistratura; ma il magistrato non è affatto inamovibile: il CSM può trasferirlo e può licenziarlo, per colpa o per inidoneità alla funzione. Sta di fatto che nelle amministrazioni diverse da quella giudiziaria non sussistono le stesse esigenze di indipendenza dal Governo. Viceversa, l’interesse pubblico al buon funzionamento delle amministrazioni è, di regola, garantito meglio da un regime di contendibilità della funzione che da un regime di inamovibilità.
Se si ritiene opportuno modificare la disciplina dei licenziamenti nelle amministrazioni, perché non farlo – come propongono i ministri Poletti e Madia – in sede di disciplina speciale della materia, quindi nella legge-delega per la riforma della funzione pubblica, invece che con i decreti attuativi della legge-delega sul mercato del lavoro?
Perché tredici anni fa nel Testo Unico sul pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001, c.d. riforma Bassanini) si è stabilito che, escluse assunzioni e promozioni, soggette alla regola costituzionele del concorso, per ogni altro aspetto – salve eccezioni rispondenti a esigenze particolari – il rapporto di impiego pubblico deve essere assoggettato alle stesse regole del rapporto di lavoro privato. Se oggi decidessimo di escludere i rapporti di lavoro del settore pubblico dall’applicazione del nuovo ordinamento generale, per assoggettarlo integralmente a una disciplina speciale fondata su di una sua fonte a sé stante, derogheremmo al principio importantissimo della “contrattualizzazione” e “privatizzazione della disciplina” dell’impiego pubblico stabilito nel 2001. Altra cosa sarebbe che – fermo restando l’assoggettamento attuale dei rapporti di impiego pubblico alla disciplina generale dei licenziamenti, nella legge-delega si dettassero alcune regole volte ad adattare la disciplina generale ad alcune particolarità del settore pubblico. Come, del resto già fa il Testo unico del 2001 che, per esempio, all’articolo 33 detta una disciplina speciale per la “messa in mobilità” dei dipendenti pubblici per riduzione del personale, con possibilità di loro chiamata presso amministrazioni diverse, e di licenziamento al termine di un biennio nel quale il trasferimento non sia avvenuto.
Se oggi nel settore pubblico si applica già la disciplina generale del recesso del datore di lavoro, perché ci sono così pochi licenziamenti di pubblici dipendenti?
Perché applicandosi l’articolo 18, in una situazione di elevatissima imprevedibilità dell’esito del giudizio, se il giudice ritiene il licenziamento non sufficientemente giustificato e dispone reintegrazione e risarcimento, il dirigente che ha compiuto l’atto si vede imputare la responsabilità per il danno erariale causato. Ed è, comprensibilmente, rarissimo che un dirigente sia disposto a rischiare i risparmi di famiglia per licenziare un dipendente: meglio il consueto patto di reciproco riconoscimento del diritto all’inefficienza, per cui il dirigente non mette sotto stress i dipendenti e questi non mettono sotto stress lui. Quando nel settore pubblico si applicherà la nuova disciplina, non ci sarà certo il rischio di un eccesso di licenziamenti: i controlli interni delle amministrazioni – che oltretutto potranno essere opportunamente perfezionati, anche facendosi riferimento alle esperienze dei public bodies britannici e americani – costituiranno sicuramente un forte freno contro eccessi di questo genere. Ma quanto meno sarà possibile che si attivi il licenziamento disciplinare in una percentuale di casi non ridicolmente bassa come l’attuale; e si porrà termine al lunghissimo periodo – tredici anni! – durante il quale non è stata attivata una sola procedura di riduzione degli organici in una amministrazione italiana, con conseguente messa in mobilità dei dipendenti, come previsto dall’articolo 33 del Testo unico del 2001.